Il personaggio che compare sulla copertina di questo mese non è di quelli che sono finiti negli annali del ciclismo che conta.
Né un Giro, né un Tour, né un Mondiale in bacheca. Solo – si fa per dire – un Giro di Lombardia, nell’ambito di una carriera durata complessivamente 10 anni, un po’ poco anche per gli standard degli Anni ’60, quando non era così raro che un corridore si ritirasse attorno ai 30 anni. Stiamo parlando di Vito Taccone, il Camoscio d’Abruzzo, figura che i nostri lettori più attenti avranno già riconosciuto e inquadrato, ma che senz’altro non è un protagonista del ciclismo paragonabile a Coppi, Bartali, Gimondi, Adorni e tanti altri a cui abbiamo dedicato in passato la nostra copertina, con relativo articolo di approfondimento.
Ma perché abbiamo scelto proprio Taccone, allora, tra i tanti campioni che hanno fatto la storia del ciclismo? Perché Taccone è un mito, e chi l’ha incrociato nel corso della sua carriera sportiva (e da cronista) lo sa. Nelle nostre analisi delle carriere di altri grandi protagonisti del passato, il suo nome è comparso in maniera incessante. Taccone, Taccone, Taccone e ancora Taccone. Pure per tutte quelle volte che non ha vinto, s’intende. La parola che meglio definisce il campione di Avezzano, in provincia dell’Aquila, è probabilmente “tonitruante”, termine desueto e sostanzialmente inutilizzabile nel giornalismo, ma che con il suo “detto di colui che fa il rumore del tuono” inquadra molto bene il buon – si fa per dire – Vito.
Vito Taccone è stato amatissimo, in prima battuta dalla sua gente, gli abruzzesi, come simbolo del riscatto di una terra dimenticata ai margini dell’Italia che conta, e poi da tutto il resto del Paese, che non ha faticato a riconoscersi in quel corridore piccolo, tarchiato, esplosivo in corsa e nei modi, indomabile e fuori luogo anche nei comportamenti. Taccone incarnava, per i tifosi italiani, quello che tanti di loro – ma anche tanti di noi oggi – non possono permettersi di essere, ovvero una persona che ha affrontato la vita senza compromessi, andando avanti anche a musate, ma dicendo sempre quello che pensava anche se magari inappropriato.
Taccone, come la bicicletta, è stato un inarrivabile simbolo di libertà, che con il suo carattere indomito si trascinava dietro il consenso popolare e sapeva incendiare le corse. È grazie a personaggi come lui che il ciclismo è stato, per decenni, lo sport più popolare nel nostro Paese e in tanti paesi del mondo, poi soppiantato dal calcio. Oggi l’Italia è una nazione molto lontana dalle glorie sportive del passato, purtroppo. Pippo Ganna a parte, sono pochi gli atleti spendibili nel ciclismo su strada e praticamente nessuno nelle grandi corse a tappe. Quanta nostalgia dei tempi di Taccone, ma in generale di quel ciclismo tricolore che fino ai primi anni Duemila ci ha visto grandi protagonisti.
Ecco perché abbiamo voluto mettere Vito Taccone in copertina: perché nella rinascita del ciclismo come sport a livello globale, grazie allo spettacolo offerto dai vari Vingegaard, Pogačar, Van Aert e van der Poel, ci dev’essere posto anche per l’Italia. E Vito, l’incontrollabile Vito, non può che essere un esempio del coraggio che serve per tornare della partita.
Alessandro Galli
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