Questa è la storia di un ciclista schietto e irascibile, genuino e affamato, fortissimo, esplosivo e vincente ma mai calcolatore.
Un uomo che ha caratterizzato un’epoca, una maschera che ha segnato quel decennio di ciclismo che, dopo Coppi e Bartali, stava perdendo molto di quel suo fascino eroico. Questa è la storia di un personaggio dalle sfaccettature più diverse, un campione legato da un grande amore per la sua terra, tanto da essere ricordato come il “Camoscio d’Abruzzo”. Una storia umana ricca di episodi che hanno aggiunto del sale al ciclismo degli Anni ’60. Il personaggio in questione risponde al nome di Vito Taccone.
Cresciuto nella miseria più nera, era adorato dai suoi tifosi a tal punto da diventare un simbolo di riscatto e di speranza per quella parte della nazione che non era stata – per così dire – coinvolta dalla prosperità del boom economico. Travolto dal successo, non perse mai la sua schiettezza e nemmeno la sua spontaneità. Aveva un modo di porsi ingenuo, sincero, il più delle volte inopportuno. Come quella volta che in udienza da papa Giovanni XXIII, gli chiese per quale corridore facesse il tifo. Una parabola sportiva e umana piuttosto complicata, quella di Vito Taccone, costellata di trionfi e sconfitte, di cadute e di conquiste, che hanno fatto diventare il campione abruzzese un personaggio indimenticabile, di cui si parla ancora ai giorni nostri con nostalgia e passione.
Vito Taccone è stato un corridore professionista dal 1961 fino al 1970, un decennio di benessere che faceva seguito al boom economico degli Anni ’50, che aveva rivoluzionato e rilanciato l’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il Giro d’Italia stava scoprendo nuovi eroi, come il lussemburghese Charly Gaul, il toscano Gastone Nencini e il talento francese Jacques Anquetil, uno dei giganti nella storia della bicicletta. Nella seconda metà degli Anni ’60, poi, arrivarono Felice Gimondi ed Eddy Merckx a sostituire Arnaldo Pambianco, Franco Balmamion, Vittorio Adorni, Gianni Motta e Italo Zilioli come portabandiera della corsa rosa. Tra questi campioni, fece capolino uno sconosciuto corridore marsicano, che riuscì a farsi notare già nella sua stagione d’esordio tra i professionisti. Vito Taccone, appunto.
CONTADINO E PANETTIERE
Taccone nasce ad Avezzano il 6 maggio del 1940, è il terzo di cinque figli di una famiglia poverissima. In casa si viveva alla giornata, il futuro era pieno di incertezze, e in una terra devastata da un terribile terremoto di qualche anno prima, il giovane Vito non poteva andare a scuola. Quaderni e penne erano un lusso, quindi il ragazzino cominciò a lavorare appena ebbe l’età per farlo, ma forse anche prima. E allora via a governare le pecore di papà Gaetano, e poi a seminare nei campi e spaccare legna. Intanto vedeva i suoi coetanei passare in bicicletta dall’altro lato della strada sterrata, e quando non giocavano andavano a scuola con lo zaino pieno di belle speranze.
«Soffrivo all’idea di non avere le stesse opportunità degli altri, ma non era colpa mia e neanche dei miei genitori. Non potevo, non avevo i soldi e dovevo lavorare per contribuire a mantenere la famiglia», era solito spiegare. L’opportunità di studiare non l’ha mai sfiorato e, pur soffrendone, non si è mai vergognato, mostrando sempre grande dignità e orgoglio. A quattordici anni inizia a lavorare al forno Michetti di piazza Cavour ad Avezzano. Consegnava il pane pedalando su una bicicletta con un grosso cestino sul manubrio. Era bravo, Vito, e divenne presto pure così rapido che dopo le consegne finite con largo anticipo, come se non bastasse, correva ad aiutare il padre nei campi.
Quella bicicletta sgangherata e arrugginita era del padre, ed era l’unico mezzo di trasporto disponibile, anche quando per consegnare il pane doveva salire e scendere il monte Salviano. Fu quello il suo punto di contatto con il ciclismo: quando pedalava, il giovane Vito diventava una furia, settimana dopo settimana i tempi di scalata si abbassavano e il sogno di diventare ciclista cominciava a prendere corpo… Ma se non aveva i soldi per i libri e i quaderni, come avrebbe potuto permettersi una bicicletta? Intanto il ragazzino continuava a coltivare i campi, a pedalare con vigore per consegnare i prodotti del forno, a rubare pure le uova dal pollaio per rivenderle al mercato, e a sognare di diventare un ciclista vero, fino a quando non incontrò Giorgio Ienca, un corridore dilettante. Vito gli espresse il desiderio di poterlo seguire durante gli allenamenti, e così durante quelle uscite ne studiava le movenze, cercava di carpirne i segreti, ma la bici era comunque un catorcio. Fu così che Giorgio decise di regalare la sua vecchia Legnano al giovane Vito, che all’età di sedici anni si iscrisse all’Associazione Sportiva Marsicana Avezzano. Fu in quel momento che ebbe inizio la sua carriera.
Con la bici sul tettuccio della Seicento del padre di Giorgio, Taccone cominciò a gareggiare. Ricorda Federico Falcone in “Vito Taccone, il Camoscio d’Abruzzo”: «L’esordio fu in quel di Popoli, in provincia di Pescara, dove dopo pochi chilometri dall’inizio della gara cadde rovinosamente sull’asfalto. Ne uscì intatto, con qualche escoriazione e la rabbia per un inizio che aveva immaginato diverso. Fu una lezione, un’esperienza che portò con sé nella successiva gara all’Aquila, dove vinse imperiosamente tra lo stupore del pubblico. Nessuno sapeva chi fosse quell’avezzanese comparso all’improvviso e che aveva tagliato il traguardo di fronte a Parisse, l’idolo di casa. “La corsa è stata vinta dal dinamico Taccone, basso e tarchiato di statura, appena visibile sulla bicicletta”, scrisse un giovanissimo giornalista aquilano che rispondeva al nome di Bruno Vespa».
Il ragazzo cominciò a pensare seriamente che sarebbe potuto diventare un ciclista vero, e intanto si allenava, lavorava e gareggiava, ma al forno era davvero dura. Così si fece assumere in una società di telecomunicazioni. Nel frattempo Vito correva ovunque fosse possibile. Alla Bologna-Raticosa arrivò secondo e intascò duemila lire, poi a Pescara fece primo e ne vinse undicimila. Vinse una quindicina tra coppe e trofei, nonché molti vestiti che regalò ai suoi familiari. Le coppe non gli interessavano, lui preferiva i premi in denaro, e i trofei li vendeva appena sceso dal podio. Arrivò a portare a mamma Maria e a papà Gaetano la somma di trentaseimila lire, una cifra enorme al tempo, impossibile anche solo da immaginare, e così il ciclismo per casa Taccone divenne non solo uno sport ma un fine, una sopravvivenza. Per questo motivo il promettente ragazzo era spinto a compiere gesta mirabolanti e trasferte lontanissime e massacranti per poter correre, guadagnare e riscattarsi.
Nel 1958 Taccone firmò il suo primo contratto tra i dilettanti: aveva diciotto anni, la nuova squadra era il Velo Club Pescara. La sua prima gara da dilettante fu a Sant’Angelo di Sorrento. La tensione era alle stelle, ma lui trovò la forza di concentrarsi isolandosi dal contesto confusionario che lo circondava. Vito era una bomba a orologeria. Andò forte fin dai primi chilometri e vinse in solitaria, facendo una gara perfetta: il popolo aveva trovato il suo eroe sportivo e non era del Nord. Lui stava iniziando a rappresentare il riscatto sociale del Sud, era l’orgoglio della sua terra. Fisicamente era basso e tracagnotto, non era elegante in bici, ma non c’era nessuno come lui: era fortissimo.
Nel 1959, a Pescasseroli nel parco nazionale d’Abruzzo, vinse una corsa in solitaria arrivando al traguardo in scioltezza. La corsa passava all’interno di una zona ricca di camosci, e nacque così il soprannome che lo accompagnò per tutta la vita. Si pensa che sia stato Adriano De Zan ad affibbiarglielo, proprio per le affinità caratteriali tra lui e l’animale selvatico: sfrontato, fiero e sicuro di sé, non si risparmiava mai. Ormai era diventato per tutti il Camoscio d’Abruzzo.
Nell’inverno del 1960 venne contattato dall’Atala e l’ingaggio offerto per correre tra i professionisti fu stupefacente, più di quanto previsto o minimamente sperato: 180.000 lire mensili a prescindere dalle vittorie, oppure 90.000 lire che sarebbero raddoppiate a ogni successo ottenuto. Numeri da capogiro se si pensa che fino a due anni prima zappava la terra e pascolava le greggi. Vito, comunque, scelse la seconda formula. All’età di ventun anni appena compiuti, nel 1961 esordì al Giro d’Italia con la leggendaria maglia dell’Atala, dove battendo in salita il tedesco Junkermann si aggiudicò la decima tappa Bari-Potenza, il suo primo successo da professionista. Chiuderà quell’edizione della corsa rosa al quindicesimo posto ma vincerà la maglia verde del Gran Premio della Montagna.
IL GIRO DI LOMBARDIA
Il giovane abruzzese si mise in buona luce per tutta la stagione, vincendo la Tre Giorni del Sud e confermando il suo valore ogni volta che la strada saliva, ma fu solo il prologo a quello che resterà uno dei capolavori della sua carriera, ovvero il Giro di Lombardia corso e vinto il 21 ottobre 1961. Una delle classiche più dure perché arrivava (come oggi) a fine stagione, quando i ciclisti erano tutti stanchi e in debito di energie, con un percorso sempre molto impegnativo. Quell’anno poi la Corsa delle Foglie Morte passava dal Muro di Sormano, 1700 metri durissimi al 17% di pendenza, con punti che arrivavano al 25%. Lì Taccone resistette all’attacco di Imerio Massignan, uno degli scalatori più forti dell’epoca, cedendogli in vetta solo una manciata di secondi. Poi, nel tratto finale che portava a Como, lo raggiunse e lo batté allo sprint.
Una grande vittoria che fece di Taccone l’uomo nuovo del ciclismo italiano e l’eroe della sua gente in Abruzzo, raggiungendo rapidamente una popolarità straordinaria che lo riscattò dalla miseria a cui sembrava destinato. Bilancio senza dubbio positivo, tanto più per un esordiente, in una stagione da incorniciare. I mesi invernali furono un susseguirsi di festeggiamenti, forse troppi, ma il senso della misura non sarà mai un punto di forza per Taccone. Infatti il 1962, quello che avrebbe dovuto essere l’anno della grande conferma, sarà invece una mezza delusione.
La corsa rosa regalò parecchi piazzamenti all’abruzzese: secondo all’Aprica e in Val d’Aosta, terzo a Panicagliora senza però dargli la gioia di un successo parziale. A ciò si aggiunse l’amarezza per il quarto posto nella classifica finale del Giro a pochi secondi dal terzo classificato, Nino Defilippis. L’unico acuto di quella stagione un po’ sotto le aspettative fu il Giro del Piemonte, che confermò come Taccone potesse ambire non solo alle frazioni alpine dei grandi giri ma anche alle corse in linea dal percorso vallonato e selettivo. Incredibile ma vero, a questo punto Taccone venne contestato dai suoi tifosi, che si sentirono traditi. Lo insultavano, e lui reagiva. Cominciarono le prime scazzottate, i duelli rusticani nei quali si trovava coinvolto. Taccone non era un tipo accomodante e se veniva provocato non porgeva certo l’altra guancia. Il 1963 partì animato da forti ambizioni. Vito era ben deciso a riconquistare i propri tifosi. L’inizio stagione cominciò bene, con due tappe vinte al Giro di Sardegna, superando addirittura allo sprint il leggendario re delle volate Rik Van Looy e aggiudicandosi a maggio il Giro di Toscana.
Si presentò al Giro di quell’anno in grande forma ma nella prima tappa, la Napoli-Potenza, per colpa di un ascesso, accumulò subito un ritardo di 21 minuti. Aveva la febbre alta e sputava sangue ma non si spaventò. Nella notte gli vennero estratti ben quattro denti e l’indomani ripartì, recuperando energie. Aveva sette vite, l’abruzzese, e lo dimostrò nella tappa che attraversava la sua terra: scollinò per primo a Rionero Sannitico e a Roccaraso, lanciandosi in fuga solitaria verso Pescara, osannato dalla sua gente. Raggiunto dagli inseguitori, dovette accontentarsi del secondo posto, battuto in volata da Guido Carlesi.
Non si abbatté, perché il suo carattere combattivo non glielo permetteva. Andò di nuovo in fuga nella tappa di Viterbo e, cosa mai avvenuta prima, colse il successo in quattro tappe consecutive: Asti, il santuario di Oropa, Leukerbad e Saint Vincent, impresa che resterà nella storia della corsa rosa. Taccone dimostrò la sua incredibile facilità di pedalata in salita e una sorprendente abilità nel vincere volate di gruppo ristrette. La vittoria gli sorrise ancora nella terzultima tappa con arrivo a Moena: scattò sul Rolle e passò per primo su tutti i passi, arrivando in splendida solitudine e riscuotendo l’ammirazione degli appassionati. Le strade delle Dolomiti vennero invase dai suoi tifosi che applaudirono e inneggiarono al loro campione.
Nonostante l’incredibile cinquina, Taccone non riuscì a recuperare il forte svantaggio accumulato nelle prime tappe e terminò il giro al sesto posto, ma si aggiudicò ancora una volta la classifica del Gran Premio della Montagna. Il giorno della conclusione del Giro, al Vigorelli di Milano, non ci furono striscioni che per Taccone, ma era lui il vincitore morale. Il Giro del 1963 sarà la punta più alta della sua carriera. Era lui l’homo novus del ciclismo italiano e qualche critico, azzardando troppo i paragoni, lo accostò a Bartali.
MEDIATICO E DIROMPENTE
Leggendari, in quell’anno magico, furono i suoi duetti con Sergio Zavoli, autore e conduttore sulla RAI del famoso Processo alla Tappa. Perché Vito, ragazzo cresciuto tra mille difficoltà e mille sacrifici nel cuore dell’Abruzzo, era così, sanguigno, focoso e istintivo come pochi. Entrò di diritto anche nella storia della televisione italiana con alcune sue affermazioni come: «Devo essere lupo perché ho fame, la mia famiglia ha sempre avuto fame. Ogni vittoria è una rapina». Oppure: «Io vado alle corse come un rapinatore entra in una banca. Ogni vittoria significa una cambiale di trecentomila lire che mia madre non deve più pagare».
Zavoli capì subito che quando c’era quell’abruzzese chiacchierone lo spettacolo era assicurato. Taccone polemizzava con tutti, usando un linguaggio colorito pieno di espressioni dialettali e sembrava un personaggio uscito dalla Commedia dell’Arte. L’esatto contrario dell’impeccabile e forbito Vittorio Adorni, l’altro grande protagonista delle trasmissioni del Processo alla Tappa. La tenacia e l’irruenza, anche nel denunciare ingiustizie e slealtà, segneranno ogni fase della vita di Taccone. Con lui non ci si annoiava mai, in corsa e nel dopocorsa. Quando era in bicicletta aveva sempre uno scatto in serbo per scompaginare le carte e dopo l’arrivo aveva sempre una parola da dire, spesso anche fuori luogo e inopportuna, ma sempre rigorosamente autentica e schietta. Quella ribalta televisiva gli regalò una popolarità immensa: il Processo sembrava fatto apposta per lui, per la sua indole polemica, per la sua schiettezza che piaceva tanto agli appassionati. Sarà un caso, ma il Processo alla Tappa, nato nel ’62, chiuse i battenti proprio nello stesso anno in cui Taccone uscì di scena (per poi riprendere nel ’98 con il Giro di Pantani).
Nel 1964, Vito Taccone passò alla Salvarani, dove resterà per due anni. Vinse in primavera il Giro di Campania e una tappa al Giro di Romandia, ma al Giro d’Italia non confermò le prestazioni dell’anno precedente e dovette accontentarsi della sola tappa di Parma. Era atteso dai suoi tifosi a Roccaraso, in una frazione disegnata apposta per lui, ma quel giorno Taccone arrivò staccato perché in corsa ricevette la notizia di un grave incidente sul lavoro di cui era rimasto vittima il fratello, caduto da un palo della luce mentre eseguiva un controllo ai fili elettrici. Taccone perse la concentrazione e le forze necessarie per esaltare gli spettatori con i suoi continui scatti in testa al gruppo. Arrivò comunque a Roccaraso, anche se solo quarto. Il tifo di migliaia di appassionati, in quel giorno, raggiunse toni esaltanti e punte mai toccate prima.
Per la prima volta partecipò, lo stesso anno, al Tour de France, e fu anche l’ultima. Si presentò con intenzioni battagliere e il terzo posto in avvio ad Amiens lo confermò. Purtroppo non si limitò agli scontri fatti di pedalate, scatti e controscatti. Lui, abruzzese orgoglioso, infiammò i suoi tifosi anche a parole, con il suo modo di fare un po’ guascone e un po’ ribelle. Qualche provocazione di troppo e Taccone, nel cuore di una tappa, scese di bicicletta per scagliarsi sullo spagnolo Fernando Manzaneque. Ne scaturì una scazzottata storica al termine della quale Taccone colpì l’avversario sul capo con la pompa della bicicletta. Dopo quella vicenda, il Camoscio decise di non prendere più parte alla corsa Transalpina.
Nel 1965, la vittoria alla Milano-Torino di marzo fece sperare molto bene per la stagione, ma chiuse il Giro d’Italia in sesta posizione dopo essere arrivato secondo in quattro tappe. In realtà la tappa di Maratea lo vide vincitore, ma prima di tagliare il traguardo chiuse vistosamente contro le transenne Luciano Armani che lo stava superando, poi addirittura lo trattenne per la maglia. Ovviamente venne squalificato ma anche in futuro non ammetterà mai le scorrettezze di quel giorno, neanche a distanza di trent’anni in una simpatica rimpatriata televisiva.
Gli ultimi acuti di una carriera breve ma fenomenale al tempo stesso arrivarono nel 1966, con la maglia Vittadello, a fianco di quello che diventerà un guru del ciclismo nostrano come Franco Cribiori. Si aggiudicò la sesta tappa del Giro di Svizzera che faceva da preambolo al Giro d’Italia. Prima tappa volata a Diano Marina e vittoria del Camoscio davanti a Mealli e Zandegù. Per la prima e unica volta, Taccone vestì la tanto ambita maglia rosa, ma le soddisfazioni di quel Giro terminarono lì. La stagione venne però riscattata con la vittoria finale del Trofeo Matteotti nel suo Abruzzo, battendo il favorito Felice Gimondi.
Nel biennio 67/68 non ottenne grossi risultati, ma la convocazione in Nazionale per il Mondiale di Imola fu uno stimolo importante. Non era la prima volta che Taccone vestiva la maglia azzurra, ma quel giorno gli venne affidato il compito di marcare il Cannibale Eddy Merckx, e Vito svolse il compito a modo suo. Per dimostrare al belga che non aveva la minima difficoltà a stargli a ruota, a un certo punto gli pedalò in faccia con una gamba sola. Sarà quinto all’arrivo, con Adorni campione. Intanto gli anni migliori della carriera erano passati e così nel 1970, dopo due Giri d’Italia sbiaditi fatti di soli piazzamenti, Taccone decise di appendere la bici al chiodo con un bottino di ventisette corse vinte e mille aneddoti da raccontare.
Otto tappe al Giro, un Lombardia, i Giri di Campania, di Toscana e di Piemonte, un Matteotti, due volte vincitore della classifica per il miglior scalatore al Giro con 21 passaggi in vetta ai GPM (solo Bartali, Coppi, Fuente e Merckx hanno fatto meglio di lui) e una serie infinita di piazzamenti di rilievo nelle più importanti corse in linea nazionali. Quarantasette secondi posti. Questo il palmarés di un atleta che ha segnato un’epoca, contribuendo in modo determinante a risvegliare l’interesse per il ciclismo in un periodo di transizione come quello degli Anni ’60.
IL DOPO CARRIERA
Abbandonata l’attività agonistica, Vito Taccone si imbarcò in varie attività imprenditoriali con scarso successo. Prima divenne titolare di un maglificio, poi si mise a produrre un improbabile Amaro Taccone preparato con una ricetta segreta fornitagli, a sentir lui, dai frati di un convento. Poi, negli ultimi anni, venne richiamato in televisione per commentare il Giro d’Italia e il Tour de France e così tutti poterono constatare che era sempre lui. Appassionato, sanguigno: chi lo ricordava lo rivide con simpatia, chi non l’aveva conosciuto scoprì un personaggio che non aveva perso la carica vitale di quando correva. Rivedeva un po’ sé stesso in Claudio Chiappucci, un altro che attaccava senza fare tanti calcoli, che è sempre stato contro tutto e tutti e che – come tutti gli uomini che hanno alle spalle una storia di sofferenza – non veniva spaventato dalle storie più dure.
Taccone ebbe il coraggio di annunciare in televisione che nei giorni successivi avrebbe affrontato un delicato intervento chirurgico, e lo disse con serenità, promettendo che si sarebbe impegnato con tutte le sue forze per sconfiggere un avversario tosto, cattivo, mostruoso: anche questa volta sarebbe stata una corsa in salita.
Il suo carattere lo ha portato anche ad avere qualche disavventura giudiziaria. Nel 1973 venne denunciato per una rissa ad Avezzano, causata da futili motivi, in cui furono coinvolte altre 10 persone: verrà condannato a 3 anni e mezzo ma otterrà l’amnistia nel 1982. Altri guai giunsero nel 1985, quando finì in manette per aver partecipato a un raid punitivo contro un hotel abruzzese per una vicenda di bische clandestine e assegni a vuoto. L’ultima nel 2007, accusato di associazione per delinquere finalizzata al commercio di capi di abbigliamento contraffatti o provenienti da furti e ricettazione. Taccone si proclamò sempre innocente e coerentemente al suo personaggio pensò bene di incatenarsi davanti al Tribunale di Avezzano in segno di protesta, con un cartello in mano che diceva: «Non voglio fare la fine di Enzo Tortora».
Fu l’ultimo colpo d’ali del Camoscio d’Abruzzo. Una settimana dopo, il 15 ottobre 2007, morì nella sua casa, stroncato da un infarto. Alla sua morte il comune di Avezzano dichiarò due giorni di lutto cittadino e successivamente eresse in suo onore, nell’ottobre del 2012, un monumento sul valico del monte Salviano, opera dell’artista Bruno Morelli.
Ardimentoso in corsa e personaggio unico nella vita, Vito Taccone è passato alla storia come uno dei migliori interpreti della grande tradizione italiana di scalatori, quegli atleti agili e istintivi che incendiano la folla a ogni scatto, veri idoli degli appassionati perché affrontano con leggerezza e potenza impressionante tutte quelle salite che i comuni mortali riescono a scalare solo con enorme fatica.
Il suo temperamente impulsivo è stato anche un ostacolo alla sua carriera, per sua stessa ammissione. Perché Taccone, e non è solo leggenda, spesso andava per le vie di fatto. Il più delle volte le sue erano reazioni decisamente esagerate, rivolte a comportamenti percepiti come ingiustizie e alle quali forniva sempre una sua spiegazione. Sapeva, però, anche toccare il cuore della gente, come quella volta che convinse un gruppo di manifestanti a recedere da un blocco stradale per consentire al Giro di proseguire o, ancora, quando alla Sei Giorni di Montreal cantò “Mamma” dedicandola agli emigrati di tutte le nazionalità. Nemico giurato del doping, metteva sempre in guardia dai pericolosi effetti derivanti dall’assunzione di certe sostanze.
Uno come Vito Taccone manca tantissimo al ciclismo. Manca per la sua autentica passione, per l’amore viscerale verso la sua terra, rissoso e irascibile ma con un cuore immenso, lo stesso che lo faceva scattare sulle salite più impervie e che ci ha regalato tante emozioni. Lì, sulle vette dove s’arrampicano i camosci.
A cura di: Alessio Stefano Berti Archivio fotografico: Carlo Delfino