«Primo Fausto Coppi. E in attesa degli altri concorrenti trasmettiamo musica da ballo».
Basterebbe questa celebre affermazione di Niccolò Carosio, grande radiocronista Rai, che la pronunciò durante la cronaca diretta della Milano – Sanremo del 18 marzo 1946, a definire il mito del Campionissimo. Coppi è una leggenda, lo era in vita, quando entusiasmava milioni di tifosi deliranti in tutto il mondo, lo è rimasto dopo la prematura morte avvenuta il 2 gennaio 1960 per la beffarda malaria.
Il mito dell’Airone, come era pure soprannominato il fuoriclasse di Castellania, rivive nella pubblicazione di Alba edizioni intitolata “Cento Coppi” (15 euro). Nel titolo e nell’impostazione, i due autori, il giornalista e scrittore Giacinto Bevilacqua, nota firma della letteratura sul ciclismo, e il collezionista Renato Bulfon, detentore di uno straordinario patrimonio di memorabilia sulle sport delle due ruote, ripercorrono la fantastica epopea di Fausto Coppi, affrontandola sia sul piano sportivo che su quello biografico.
Per trattare al meglio una materia così delicata e preziosa, Bevilacqua e Bulfon hanno inteso giocare con i numeri. Il 100, che ricorda il centenario della nascita del Campionissimo, venuto al mondo il 15 settembre 1919, nel libro è lo sviluppo di situazioni e aspetti coppiani speciali: le dieci imprese leggendarie, le dieci maglie gloriose, le dieci biciclette, i dieci grandi avversari, i dieci momenti difficili, le dieci persone influenti, le dieci belle copertine, le dieci cartoline rare, i dieci ritratti e caricature, le dieci pubblicità di successo.
UNA VITA AL MASSIMO
«Coppi sembra, nonostante passino gli anni, esserci sempre: non sparisce dalla memoria, semmai la sua leggenda si ingigantisce» ha scritto nella sua arguta prefazione Carlo Delfino, presidente onorario della “Nova unione velocipedistica italiana”. Fra la grande mole di materiale iconografico spalmato in 156 pagine, spicca un documento prezioso: è la lettera autografa, messa a disposizione dal collezionista Pasquale Polo, che Coppi indirizzò al quotidiano sportivo Il Littoriale il 20 giugno 1940 dalla zona di operazioni Val Roja dove in quel momento si trovava sotto le armi.
Una vita straordinaria quella di Coppi, fra i primi ciclisti a cogliere l’importanza e il vantaggio di abbinare la propria immagine a un prodotto pubblicitario, il primo a vincere nella stessa stagione il Giro d’Italia e il Tour de France (gli riuscì sia nel 1949 che nel 1952), capace di vincere il mondiale in pista (inseguimento individuale nel 1947 e nel 1949), su strada (1953) e a cronometro (se conferiamo questo titolo al Gran premio delle Nazioni in cui primeggiò nel 1946 e nel 1947). Un atleta e un uomo, Fausto Coppi, che fecero la storia. Se a 59 anni di distanza dalla sua morte, Coppi è ancora una leggenda lo si deve sì alle sue straordinarie imprese agonistiche ma anche, se non soprattutto, alla sua interpretazione moderna e progressista della vita. Coppi, nato povero e gracilino, si trasformò nel più forte ciclista della storia, in un proprietario miliardario, in una star dei mass media. Tuttavia Coppi rimase sempre, nella sua dimensione più intima, un uomo e come tale soggetto a debolezze, contraddizioni, incertezze, errori, cadute.
LE PROVE DEL DESTINO
Nella sua vita ha dovuto affrontare anche moltissimi momenti difficili, dalle sconfitte sul campo, compresi i numerosi e dolorosi incidenti, alle tragedie autentiche come la prigionia in campo di concentramento, la contrazione della malaria, la morte del fratello ciclista Serse. Ci aggiungiamo due tribolati matrimoni, il secondo dei quali, celebrato in clandestinità in Messico, finì con il dividere l’Italia in due partiti fra quanti sognarono l’unione romantica con la già sposata Giulia Occhini, la famigerata Dama Bianca, e quanti condannarono quella relazione scandalosa e illegale ai tempi. Sarà per tutto questo che ci sembra che Fausto Coppi pedali ancora assieme a noi.