Bicicletta e illuminazione sono temi che vanno a braccetto sin quasi dalle origini.
Se, come sappiamo, si considera come invenzione della bici la Draisina di Karl Drais (1816), negli stessi anni iniziava a prendere corpo in Europa l’illuminazione a gas delle città, una novità stratosferica che avrebbe portato incredibili migliorie dal punto di vista della sicurezza, dell’allungamento degli orari lavorativi (pensate alle luci nelle fabbriche), dell’intrattenimento. Ovviamente, ci vollero decenni prima che le biciclette si diffondessero e prima che su di esse venissero installate le prime luci. Di questo ci occuperemo nelle prossime pagine, nelle quali proveremo a fare luce – è proprio il caso di dirlo – sulle varie tipologie di faro a combustibile presenti nelle biciclette tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, fermandoci laddove il progresso portò poi all’introduzione dell’illuminazione elettrica, a dinamo e a batteria, che è quella ancora oggi adottata sulle biciclette.
Inizialmente, quella di vedere e di farsi vedere, da parte dei ciclisti, fu una necessità più che un obbligo di legge. In quegli anni della seconda metà dell’Ottocento la mobilità delle città e delle campagne era in fortissima trasformazione e il quadro normativo doveva adeguarsi. Il Red Flag Act, introdotto nel Regno Unito nel 1865, imponeva alle rarissime vetture mosse a vapore presenti allora (le prime automobili con motore a scoppio arrivarono solo dal 1887/88) di circolare in città alla “vertiginosa” velocità di 4 miglia all’ora (6,4 km/h), ridotta nelle aree rurali addirittura a 2! Il veicolo doveva anche essere preceduto da una persona a piedi, munita di lanterna, con il compito di sventolare un fazzoletto rosso per segnalare il passaggio del mezzo, cosa che valeva anche per i bicicli, che gli inglesi chiamavano “boneshakers”. Una legge nata sulla spinta delle lobby delle carrozze a cavalli e della nascente rete ferroviaria, su cui il governo aveva forti interessi, e che scoraggiava moltissimo l’introduzione di nuovi mezzi di spostamento individuali. Ciononostante, sempre negli stessi anni nascevano in tutta Europa non solo bicicletti Michaux (prodotti da Pierre Michaux e da suo figlio Ernest all’inizio degli Anni ’60 dell’Ottocento), ma anche via via tantissimi altri tipi di velocipede che prendevano sempre più spazio nella quotidianità dei loro spesso ricchi proprietari, perché all’epoca la bicicletta era ancora molto lontana dall’essere il mezzo popolare che sarebbe diventata.
Passaggio fondamentale per dare il “la” all’uso delle luci sui velocipedi fu il The Lighting of Vehicles Act (Legge sull’illuminazione dei veicoli) del 1878, promulgato sempre nel Regno Unito e riguardante tutti i mezzi di trasporto. Questa legge richiedeva che tutte le biciclette circolanti su strade pubbliche durante la notte fossero dotate di una lampada anteriore, visibile a una distanza di almeno 60 piedi (circa 18 metri). Inoltre, era richiesto che fosse installato un segnale rosso o bianco sulla parte posteriore della bicicletta. La legge del 1878 faceva seguito alle crescenti preoccupazioni per la sicurezza stradale a causa dell’incremento del numero di biciclette in circolazione. Il DORA del 1915 (Defence of the Realm Act) rese obbligatorie definitivamente anche le luci rosse posteriori, atte a migliorare visibilità e sicurezza.
L’invenzione del faro
Da lì in avanti molte nazioni introdussero leggi simili ma, sia prima sia dopo la definizione di questi aspetti normativi, i ciclisti che attraversavano le buie campagne o le non ancora illuminatissime città di allora iniziarono ad arrangiarsi come meglio potevano, partendo chiaramente da quel che avevano. I primi strumenti che vennero utilizzati furono quindi normali candele e lampade a olio, le stesse che si usavano nelle case oppure per i più facoltosi sulle carrozze, portate in bicicletta in qualche modo con gli stessi paralumi domestici.
I fari a candela furono tra i primi a essere introdotti, se non altro per la facilità di reperire la fonte di luce, ma furono in buona sostanza un fenomeno quasi solo europeo. Già nel 1868, nelle litografie, si potevano vedere fari di questo tipo installati sui velocipedi. Erano anni in cui i primissimi produttori li offrivano come accessori, anche se realizzati in maniera grossolana. Tornarono in auge, poi, nella prima metà degli Anni ’90 dell’Ottocento e prima della Prima Guerra Mondiale, appetiti soprattutto dal pubblico femminile per il loro design più accattivante. Il canto del cigno fu negli Anni ’30, quando l’austerità fece tornare le candele molto popolari. Il funzionamento prevedeva una molla che spingeva il fuso sempre più in alto man mano che la cera si scioglieva. Le candele utilizzate erano di tipo speciale, liquide e leggere in modo tale che fossero sostenute dalla molla e che la cera scorresse facilmente. La fiamma era contenuta all’interno di una scatola metallica, squadrata o circolare, chiusa da un vetro protettivo che provava a impedire all’aria di spegnere la fiamma, spesso senza riuscirci. In alto, alcuni sfiatatoi permettevano il “tiraggio” della candela. Naturalmente, la luce durava poco e si vedeva ancora meno.
Verso la fine degli Anni ’70 dell’Ottocento iniziarono a comparire i primi fari a combustibile appositamente pensati per le biciclette. Una delle prime riviste dedicate alla bicicletta – “Cycling news”, uscita in Inghilterra nel gennaio del 1876 – divenne il punto di riferimento per tanti ambiti di discussione, tra cui quello dell’illuminazione, con i primi fari per Gran Bi applicati al manubrio. Ben presto si scoprì che il sistema più efficace per illuminare una parte della strada e contemporaneamente farsi vedere era quello di posizionare una lampada a olio appesa al mozzo anteriore, ammesso che si riuscisse a farla passare tra i raggi (le cosiddette “hub lamp”). Inizialmente i fari a olio erano fatti di banale latta, alimentati a olio di paraffina o di colza, infilati tra i raggi della ruota anteriore. I primi modelli si videro proprio nel 1876 e il primo a intestarsene il merito fu Edward Salsbury della Salsbury Lamp Work di Long Acre, Londra. Nel 1878 iniziò la produzione anche Joseph Lucas da Birmingham, che nel 1880 introdusse un modello migliorato chiamato “a stile diviso” che restò in catalogo fino al 1894 e che, potendosi appunto dividere in due, era più comodo da infilare tra i raggi.
Verso la metà degli Anni ’80 dell’Ottocento arrivarono sul mercato i primi telai di sicurezza – gli ormai notissimi “safety frame” di cui abbiamo parlato tante volte – e la bicicletta intraprese senza incertezze quella strada che, nel giro di qualche decennio, l’avrebbe portata a diventare un fenomeno di massa. L’attenzione sugli accessori per questo nuovo e rivoluzionario veicolo, sempre più accessibile e diffuso, crebbe ancora e molti inventori iniziarono a dedicarvisi. Tra le prime novità, arrivarono quindi le “safety lamps”, molto più ingombranti di quelle nel mozzo ma collegate al perno della ruota da una staffa molleggiata che ne preservava intensità e funzionamento. Un tipologia rapidamente scomparsa negli Anni ’90 grazie all’invenzione degli pneumatici e al miglioramento delle strade.
I fari a olio erano inizialmente poco dissimili da quelli a candela, ma subirono nel tempo un’evoluzione notevole. Erano costituiti da un alloggiamento per la lampada (spesso in ottone ma talvolta nichelato), serbatoio e bruciatore rimovibili, lente frontale, riflettore e un supporto per attaccare la lampada alla bicicletta. La maggior parte aveva una lente convessa sulla parte anteriore per concentrare la luce, ma questa soluzione arrivò solo con il tempo perché le prime lenti erano semplici vetri piatti. Un’altra innovazione fu quella di collocare sulla parte posteriore interna una parabola di metallo lucidata per aumentare l’intensità della luce.
Sul lato o sul retro della lampada c’erano spesso gemme di vetro verdi o rosse che fungevano talvolta da indicatori laterali, sovrapponendosi al codice “dritta e sinistra” della nautica. Va tenuto in considerazione che, in condizioni di scarsissima luminosità, era difficile capire da lontano come fosse orientata la bicicletta e in che direzione andasse, per cui questa segnaletica colorata poteva aiutare, sebbene il codice non fosse univoco e le gemme a volte erano messe anche sul posteriore del faro. La parte inferiore dell’alloggiamento era ventilata per consentire l’ingresso dell’aria di combustione, mentre la parte superiore della lampada dissipava calore e fumo. I supporti variavano da montaggi fissi a meccanismi a molle multiple progettati per assorbire gli urti. Le lampade potevano essere montate sul tubo anteriore o sulla forcella a seconda del tipo di supporto acquistato.
Una produzione intensa
A questo punto della storia, moltissimi produttori iniziarono a commercializzare fari in tutto il mondo, partendo sia dal Vecchio sia dal Nuovo Continente. Le luci per bicicletta venivano prodotte dalla maggior parte – se non da tutti – i principali produttori di lampade americani: Edward Miller & Company, The Plume and Atwood Manufacturing Company, The Matthews and Willard Manufacturing Company, The Hitchcock Lamp Company, The Bridgeport Brass Company, Bristol Brass and Clock e diversi altri ancora. Molti produttori di lanterne producevano anche luci per bicicletta, come R.E. Dietz, Peter Gray, C.T. Ham e The Rose Manufacturing Company. Sempre l’azienda inglese Joseph Lucas & Sons produsse una vasta gamma di luci per bicicletta, così come Powell & Hammer e Henry Miller o la Phoebus in Belgio. I tedeschi Riemann, Pressler e Lohmann esportavano anche in Scandinavia, Europa dell’Est e Russia.
Tra i modelli più degni di nota va segnalato il Microphote, presentato nel 1897 dalla Joseph Lucas & Sons allo Stanley Show e ideata da Harry Lucas. Era una lampada molto piccola, si poteva dividere in più parti e presentava le luci rosse e verdi. Apprezzatissima dalle signore per il design, faceva però poca luce. Lucas risolse il problema con il King Holophote, identico ma grande il doppio. Lucas inventò nel 1896 anche il Silver King, modello che rimase incredibilmente in catalogo, con varie modifiche, fino al 1941!
Con il tempo arrivarono anche combustibili più efficienti, tra cui anche il kerosene, che offriva una fiamma gialla intensa ma anche un caratteristico e fastidioso odore. Queste lampade venivano chiamate generalmente “a petrolio” anche se non era esattamente quello il combustibile utilizzato, ma una versione chiamata “petrolio lampante”, tutt’ora in vendita. Un altro tipo di combustibile era il benzene, del quale veniva intriso un serbatoio di cotone. I gas di benzene bruciavano con una fiamma vivida ma piccola, così che queste lampade venivano spesso utilizzate soprattutto come dispositivi di emergenza portatili.
Le pubblicità delle luci per bicicletta erano comunemente presenti su riviste di ogni tipo, anche femminili, come Munsey’s o The Cosmopolitan, riviste di settore e altre pubblicazioni del periodo, soprattutto alla fine degli Anni ’90. Un annuncio della Manhattan Brass Company presentava quattro modelli di luci per bicicletta – il Big Four – Dazzler, Unique, Frontlight e Cyclops. Numerosi brevetti furono concessi tra il 1881 e i primi anni del 1900. Il periodo di massimo successo delle lampade per bicicletta a olio fu probabilmente tra il 1896 e il 1898, quando furono concessi circa cento brevetti. Il più prolifico inventore americano di luci per bicicletta sembra essere stato William C. Homan con nove brevetti statunitensi, tutti assegnati alla Edward Miller & Company. La maggior parte dei brevetti di Homan riguardava miglioramenti nei supporti delle lampade. Frank Rhind aveva sei brevetti per luci per bicicletta, tutti assegnati alla The Bridgeport Brass Company. John W. Bragger di Watertown, New York, ottenne quattro brevetti per luci da bicicletta, tutti assegnati alla The Hitchcock Lamp Company tra il 1895 e il 1898.
Le luci per bicicletta erano disponibili in una miriade di modelli per adattarsi a tutte le tasche. Alcune erano semplici ed economiche, come la Jim Dandy di Plume and Atwood, che veniva venduta per circa un dollaro e mezzo. Altre, come la Search Light della Bridgeport Brass Company, erano modelli molto ornati e di alta gamma, con un prezzo elevato. In un catalogo del 1899, la Search Light veniva venduta a quattro dollari ciascuna: il modello più costoso tra oltre una dozzina di lampade pubblicizzate. Modelli spesso al di fuori delle possibilità del comune lavoratore. Le vendite e le strategie di marketing erano abbondanti e diffuse, come testimoniato dagli annunci sopravvissuti fino a oggi. Le rivendicazioni dei produttori includevano alloggiamenti a prova di vento e maltempo, luci che “non si spegnevano” a causa di urti o vibrazioni, facilità di smontaggio e pulizia e altre dichiarazioni simili destinate ad aumentare le vendite e i profitti. Edward Miller si spingeva anche a includere insieme alle luci campanelli per bicicletta e un contachilometri per registrare la distanza percorsa.
Una nuova tecnologia
Come molta della tecnologia dell’epoca, la lampada per bicicletta a petrolio scomparve nell’oscurità, sostituita da sistemi di illuminazione più sicuri e moderni. Il primo sarebbe arrivato nel giro di poco. Verso la fine dell’Ottocento, infatti, iniziò a diffondersi un tipo di faro che finalmente permetteva di migliorare di molto la luminosità, svolgendo molto meglio la funzione di vedere oltre a quella di farsi vedere: si trattava del faro ad acetilene, un gas infiammabile, basato sui principi scoperti nel 1892 dai chimici Willson e Moorehead, che permisero di industrializzare la produzione del carburo di calcio (elemento essenziale per produrre l’acetilene stesso), iniziata nel 1895 con la fondazione della Union Carbide.
L’ideazione primaria del faro ad acetilene – o a carburo – per bicicletta è controversa. C’è chi dice che fu sviluppato e brevettato da Friedrich Wolff nel 1895, ingegnere che aveva fondato la Wolff Acetylen Co., che produceva attrezzature per la produzione e l’utilizzo dell’acetilene. Nello stesso anno, negli States però, anche F. H. Fuller della Illinois Acetylene Company progettò un faro simile. Quello che è indubbio, invece, è che fu la Solar Acetylene Lamp Company di Chicago, nel 1897, a pubblicizzare il primo faro ad acetilene – il Solar, appunto – che restò in produzione fino al 1926.
Il faro ad acetilene forniva una luce più intensa e di maggiore durata rispetto alle precedenti luci a candela o a olio, rendendo il ciclismo notturno più sicuro ed efficiente. Il funzionamento era chimicamente molto semplice: da un serbatoio veniva fatta sgocciolare dell’acqua su delle pastiglie di carburo di calcio, che reagivano rilasciando appunto l’acetilene, un gas molto semplice scoperto nel 1836 dal chimico britannico Edmund Davy. Il gas veniva quindi convogliato nella camera di combustione con delle cannule di caucciù, dove l’intensità della fiamma poteva essere regolata esattamente come si fa con le lampade da campeggio. Tecnologicamente, una svolta che sarebbe stata superata solo dai fari elettrici, che sarebbero diventati economicamente convenienti e quindi diffusi però solo a partire dagli Anni ’10 e ’20 del Novecento in avanti.
L’introduzione del faro ad acetilene fece sì che i fari fossero finalmente utilizzati per illuminare e vedere la strada, e non solo per essere visti. La gestione del processo chimico, però, non era così banale. Anche se i sistemi più complessi permettevano addirittura di andare a portare il gas alla gemma posteriore, grazie a dei tubi di collegamento, l’acetilene andava maneggiato con cura, tanto che i fari più economici erano a rischio esplosione. L’odore dovuto alla combustione, poi, era piuttosto sgradevole, e divenne in voga l’accorgimento di aggiungere formalina o qualche goccia di nitrobenzolo. Senza dubbio, comunque, si trattò di un grande passo in avanti.
Con questa tipologia di faro si conclusero gli anni pionieristici dell’illuminazione per bicicletta, nei quali – in buona sostanza – era sempre presente un combustibile da ricaricare. Con l’avvento delle dinamo e delle batterie, tra gli Anni ’10 e ’20 del Novecento, quando i costi di produzione e la durata delle lampadine lo permisero, tutto cambiò rapidamente e, a parte rari casi che si protrassero fino agli Anni ’40, i fari ad acetilene e a olio sparirono dal mercato, surclassati da quelli nuovi e più efficienti. Ci sarà occasione di parlare anche dei fari elettrici e delle “illuminazioni” che portarono.
Foto: Giorgio Coreggioli, Collezione velocipedi e biciclette antiche A & C Azzini Si ringraziano: Marcello Fogagnolo, Alfredo Azzini