La storia della bicicletta è nota. Meno nota, forse, è la letteratura della bicicletta.
Il nuovo veicolo trova attorno al 1890 la sua linea definitiva, senza tener conto delle molteplici innovazioni successive. Il Touring Club Ciclistico Italiano nasce quattro anni dopo, scritti letterari sul nuovo mezzo di trasporto appaiono sul principio del Novecento.
Sono appunto del principio del Novecento i due poemetti letterari in latino “Bicyclula” e “In re ciclistica Satan” di Luigi Graziani (Bagnacavallo 1838 – Lugo 1916), latinista di fama internazionale. I due poemetti, il primo del 1899, il secondo del 1902, ebbero la magna laude nelle annue gare poetiche di Amsterdam. Essi sono ravvivati da episodi e scene familiari e patriottiche, da ammirarsi, scriveva il Carducci, «per novità d’invenzione, per verità e modernità di rappresentazione». Questo umanista romagnolo, degno di essere ricordato accanto al Pascoli, è stato un vero e genuino cantore della bicicletta. Di questi poemetti si hanno traduzioni in italiano a cura di Vittorio Ragazzini, in “La bicicletta” e “Satana nel ciclismo”.
Sempre negli ultimi anni dell’Ottocento e primissimi Novecento, sarebbe da aspettarsi che il trinomio Carducci-Pascoli-D’Annunzio offrisse vasta e celebre materia a questo tema. Invece, no. Nessuna traccia in Carducci più che vecchio, malato, né in D’Annunzio che forse sdegnava l’umile mezzo e preferiva la potente automobile (anche se al Vittoriale è esposta una bicicletta e ve ne parleremo, ndr). Solo Giovanni Pascoli (San Mauro Pascoli 1855 – Bologna 1912) ha avuto qualche rapporto con lo sport ciclistico, dato che apparteneva all’Audax, società sorta a Roma nel gennaio 1898.
Pascoli nei “Canti di Castelvecchio”, che sono dei primi del Novecento, scrive una poesia a “La Bicicletta”:
Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io?
Che importa? Ch’io venga o tu vada,
non è che un addio!
Ma bello è quest’impeto d’ala,
ma grata è l’ebbrezza del giorno.
Pur dolce è il riposo … Già cala
La notte: io ritorno.
La piccola lampada brilla.
Per mezzo all’oscura città.
Più lenta la piccola squilla
Dà un palpito, e va …
Dlinn … dlinn …
Da tali versi sembrerebbe che il poeta avesse fatto una lunga corsa in bicicletta, dal mattino alla sera. Sappiamo invece, per testimonianza della sorella Mariù, che egli non andava in bicicletta e perciò la lirica deve considerarsi come opera di pura fantasia. Il Pascoli dunque nell’Ottocento ha solo brevemente inneggiato alla bicicletta.
Ma il vero cantore del cavallo d’acciaio, il capostipite della letteratura ciclistica fu Olindo Guerrini (Forlì 1845 – Bologna 1916) poeta, scrittore e gastronomo italiano. Nel 1901 uscì, nella collana dei Semprevivi del Giannotta in Catania, un volumetto di L. Stecchetti (suo pseudonimo) che potrebbe dirsi il codice del ciclismo. “In Bicicletta”, questo il titolo, contenente vari scritti di argomento ciclistico. Parecchi di questi erano nel 1901 già invecchiati, tuttavia lo scrittore li aveva raccolti da giornali sportivi, come memoria e testimonianza di un’epoca di formazione e di transizione, dalla quale il ciclismo di quella fine di secolo era uscito vincitore.
«Non c’è arte al mondo che possa esprimere il piacere, direi quasi la voluttà, della vita libera, piena, goduta all’aperto, nelle promesse dell’alba, nei trionfi dei meriggi, nella pace dei tramonti, correndo allegri, faticando concordi, sani, contenti»: così si esprimeva con la prosa del tempo alternata a poesie l’autore nel libretto.
UN’ISPIRAZIONE COSTANTE
Ecco Alfredo Panzini (Senigallia 1863 –Roma 1939), che fu sepolto per suo desiderio a Canonica di Santarcangelo di Romagna, il quale scrive nelle divagazioni in bicicletta di “Lepidia et tristia”: «…Ho messo da parte i libri e sono saltato in bicicletta. Io dunque, o cara Patria, ti cercherò nel colore del tuo mare, nei profili dei tuoi monti, nel profumo dei tuoi fiori e dei tuoi campi». E rivela il suo modo di comporre, la tecnica del suo scrivere, l’origine di certi suoi libri, come “Piccole storie del mondo grande” e “La lanterna di Diogene”: «Così un bel giorno decisi di portare con me lapis e carta e le fermavo (idee) con una parola, con un segno grafico che poi valesse a ricordarmene e ordinarle».
Anche Alfredo Oriani (Faenza 1852 – Casola Valsenio 1909) scrittore, poeta e storico, si presenta ed emerge come ciclista e scrittore in materia, nell’ultimo decennio dell’800, quando ha superato la quarantina. Confessa egli nel volume “La Bicicletta” di aver imparato a pedalare nell’estate del 1894. Il libro uscì nel 1902, comprendendo nove articoli (“L’idea”) e quattro novelle (“Il velocipede”, “La bicicletta”, “Il tandem”, “Il triciclo”), delle quali alcune veramente belle, e la narrazione di un viaggio ciclistico (“Sul pedale”) – «Trenta luglio 1897, si parte da Faenza per Forlì, di qui si lascia la Via Emilia e su per l’Appennino. Si discende per i Mandrioli nel Casentino, si tocca la Verna, si attraversa Arezzo, si raggiunge Siena, e via per Pisa, Pistoia, Bologna e di nuovo a Faenza» – forse di mille chilometri.
Scrive ancora Oriani: «Virgilio cantò il cavallo, Monti il pallone, Carducci il vapore, molti la nave, nessuno ancora la bicicletta». Ora, non più. Anche nell’ispirazione dialettale romagnola, a buon diritto non mancano accenni ciclistici in qualche poesia di Aldo Spallicci (Bertinoro 1886 – Premilcuore 1973).
In ultimo, ma non per ultimo vogliamo ricordare Marino Moretti (Cesenatico 1885 – Cesenatico 1979) poeta, romanziere e drammaturgo. Moretti rappresenta un curioso episodio ciclistico: entra di straforo nella letteratura della bicicletta, egli che non è mai stato ciclista. In un suo libro poco conosciuto, “Parole e musica”, si trova un capitoletto intitolato “Non so andare in bicicletta”, dove racconta come e perché sua madre si fece promettere, anzi giurare, da lui giovinetto quindicenne, che non avrebbe mai imparato ad andare in bicicletta. Era il tempo in cui si credeva che il cavallo d’acciaio seminasse il terrore e la morte.
Suo fratello maggiore volle la bicicletta a tutti i costi, disgraziatamente morì a vent’anni e si diede la colpa alla bicicletta, ritenuta strumento, anzi veicolo, infernale. Fu allora che la madre di Marino per salvare lui, lo tenne lontano dall’idea della bicicletta. L’episodio, che dà il sapore dell’epoca fine ‘800 primi ‘900 merita essere narrato. Esso è ancora una prova del sospetto e dell’avversione con cui era accolto il ciclista (potenziale ladro) e della bicicletta (strumento diabolico).
Qui si chiude questa breve rassegna della letteratura ciclistica svoltasi entro i confini regionali da Bologna a Rimini agli inizi del secolo scorso, la quale poi fiorirà con scrittori e giornalisti di successo, al seguito di campioni che tanta gloria hanno dato a questo sport.