La produzione ciclistica italiana negli Anni ’30 vedeva una variegata moltitudine di produttori.
Guardando il mercato dell’epoca, dal lato dell’offerta, era possibile infatti notare un piccolo gruppo di produttori di grandi volumi concentrati in particolare nelle città di Milano e Torino, un buon numero di produttori che sviluppavano medi volumi, tutti più o meno sparsi nel Nord Italia, e una miriade di piccole botteghe disseminate su tutto il territorio nazionale. Tra i grandi produttori figuravano certamente Bianchi e Legnano (si pensi anche ai marchi a loro collegati) a Milano e Frejus a Torino. Medi volumi riuscivano certamente a produrli Dei, Gloria e Taurus a Milano; Ganna a Varese; Maino ad Alessandria; Benotto a Torino; Amerio, Prina e Gerbi ad Asti. Le piccole botteghe invece non si contavano con precisione, ma erano orientativamente nell’ordine delle migliaia. In quest’ultima categoria andavano ascritti sia i piccoli assemblatori, che acquistavano telai da terzi (tipicamente dai grandi e medi produttori già citati) e li montavano poi con componentistica presente sul mercato, sia i piccoli artigiani, che creavano telai ex-novo nella propria officina partendo da serie di tubi e congiunzioni.
È chiaro quindi che i prodotti usciti dalle piccole botteghe potevano essere di diversa qualità. Erano spesso di fattura molto simile alle biciclette economiche dei medio/grandi produttori se usciti dalla bottega di un assemblatore, mentre se venivano saldati da artigiani potevano essere anche di molto superiori alle produzioni fatte in serie dalle grandi aziende. Tra questi pochi artigiani di alto livello, attraverso lo studio e l’esperienza di anni, è possibile arrivare a comprendere quei dettagli costruttivi dei telai che costituiscono una vera e propria “firma” dell’artigiano.
Ed è certamente uscita dalla bottega di un bravissimo artigiano, anzi di due fratelli artigiani, questa bicicletta Giamè, databile verosimilmente tra il 1940 e il 1942. Premettiamo che di questa bicicletta al momento del ritrovamento sapevamo poco, ma ne abbiamo subito apprezzato le fattezze artigianali di livello superiore, e avevamo in mano solamente il nudo telaio, con forcella e serie sterzo. Ci era stato inoltre riferito trattarsi di una bici ex-squadra corse Giai, storico concessionario Frejus all’imbocco della Val di Susa aperto dal 1911, poi riattata per un utilizzo quotidiano. Le decalcomanie quasi scomparse dal telaio non aiutavano a definirne una paternità. La curiosità di scoprire e l’esperienza nella ricerca delle informazioni ci hanno però portato nella giusta direzione. La fortuna di trovare una Giamè di poco successiva, molto ben conservata e di fattura pressoché identica, ha fatto il resto. Intendiamoci, dargli un nome è importante ma non è a nostro avviso fondamentale quanto riuscire a inquadrarla storicamente e stilisticamente.
In questo articolo abbiamo deciso pertanto di raccontare le scelte di restauro di questa bicicletta nel modo che a oggi riteniamo più equilibrato tra conservazione e completamento. Capita spesso che le bici ritrovate siano solamente dei telai o poco più, come in questo caso, i cui allestimenti sono stati nel tempo totalmente sostituiti o quasi. È chiaro quindi che si debba decidere come intervenire per restituire loro quanto più possibile di quello che è stato smarrito negli anni. Ci sono varie scuole di pensiero sul restauro e non è semplice riassumerle in poche righe. Tuttavia esponiamo la sintesi ideologica a oggi maturata, cercando di spiegarci anche attraverso le valutazioni intervenute durante questo specifico ripristino.
La scelta dell’allestimento nel caso di bicicletta artigianale, della quale quasi mai è noto un allestimento standardizzato, a differenza delle produzioni in serie, deve essere a nostro avviso improntata a restituire il più possibile una coerenza stilistica e una contemporaneità storica conforme all’originale. Nella pratica, ogni componente aggiunto deve essere dunque coevo con il periodo storico e coerente con il tipo di bicicletta. Un esempio: è un errore storico montare un manubrio di un’altra epoca su una bici da corsa, è un errore stilistico montare una sella coeva ma adatta a biciclette da passeggio.
Gli strumenti per aiutarci a non incappare in questi errori oggi esistono: sono i documenti. I documenti fondamentali in questo tipo di ricerca sono principalmente le fotografie dell’epoca, i cataloghi commerciali e quanto presente negli archivi storici. È ormai semplice trovare anche online numerose fotografie di ciclisti, gare ciclistiche dell’epoca (si pensi alle numerose foto dei grandi giri), e sempre più numerosi sono anche i cataloghi (la biblioteca online del Registro Storico Cicli ne conta ormai diverse centinaia) e gli archivi accessibili anche online. Chiaramente, trattandosi in questo caso di una bicicletta di un piccolo produttore, è bene andare a ricercare i cosiddetti cataloghi generali, che sono i cataloghi di quei venditori di componentistica dai quali le piccole botteghe si rifornivano (ad esempio i cataloghi generali Doniselli, Bozzi, Orbento e Cici, Sacchetti, eccetera).
DATARE IL TELAIO
Innanzitutto è determinante riuscire a focalizzare al meglio il periodo di produzione. Per quanto riguarda le biciclette da corsa, va analizzato per bene il telaio che racconta tantissimo a chi ne impara la lingua, partendo dai forcellini posteriori, che sono i primissimi marcatori delle varie epoche. Riuscire a distinguere tra forcellini giroruota, forcellini dentati per cambi a leva e forcellini per cambi a filo non dovrebbe costituire un ostacolo insormontabile e dovrebbe cominciare a instradare l’appassionato. Sui forcellini possono inoltre essere presenti marchi (es. Campagnolo) e altri dettagli costruttivi che possono aiutare parecchio il riconoscimento. Nel caso di questa Giamè, i forcellini sono giroruota con cava lunga, per l’utilizzo di ruote libere da 3 pignoni. Sono forcellini tipicamente Anni ’30, usati sempre meno negli Anni ’40, con la diffusione dei forcellini Simplex ma soprattutto dei forcellini dentati Campagnolo per il Cambio Corsa (a due leve). Rispetto a quelli più largamente in uso in Italia, hanno un dettaglio tipico della produzione francese, mutuato spesso nella produzione torinese, che consiste in una forma leggermente più panciuta attorno alla battuta del galletto. Altri dettagli da notare sono: la presenza delle asole per il fissaggio dei parafanghi, il notevole alleggerimento interno, ma soprattutto i bellissimi raccordi con le cannette, talmente ben fatti da appagare anche l’occhio più critico. Lo spessore del materiale del forcellino è un altro marcatore, che in questo caso ci porta più verso la fine del decennio.
Continuando nella ricerca di indizi per una datazione più precisa, osserviamo la scatola del movimento centrale: tralasciando dettagli costruttivi troppo complessi per essere apprezzati in poche foto, è facile notare che, a differenza di molta produzione Anni ’30, non sono presenti oliatori o ingrassatori al movimento centrale. Anche questo ci porta realisticamente a datarla verso la fine degli Anni ’30 / inizio Anni ’40, quando cominciavano a essere tendenzialmente meno utilizzati da tutti. Altri indizi in tal senso si ricavano dal tipo di congiunzione di sella: nella seconda metà degli Anni ’30 viene sempre più utilizzato il collarino stringisella al posto della chiusura integrata nella congiunzione, e si iniziano a diffondere nuovi alleggerimenti nella congiunzione. Notare sempre la cura artigianale che traspare dalla bellezza dei raccordi e dalle congiunzioni molto limate.
Infine, passando all’osservazione delle congiunzioni di sterzo notiamo anche qui alcuni importanti dettagli: lo sterzo è di tipo non integrato, è presente un ingrassatore (in quegli anni questo è elemento tipico della più raffinata produzione da corsa torinese), le congiunzioni sono davvero molto limate. Inutile probabilmente dirvi che in queste poche foto sono davvero tanti gli indizi che possono essere ricavati, più di quelli qui elencati. Ci limitiamo a precisare che la limatura delle congiunzioni è una lavorazione lunga e delicata che sebbene porti via un modesto peso complessivo, determina un virtuosismo tecnico non comune. La riduzione dello spessore delle congiunzioni può infatti determinare un indebolimento delle stesse se mal eseguita, e minare l’integrità del telaio. È chiaro a questo punto perché i produttori di grandi volumi non avessero interesse nell’estremizzare troppo questo concetto, non volendosi poi ritrovare con un grande numero di biciclette danneggiate che rientravano in fabbrica per essere riparate (ricordiamo che alle biciclette era già fornita una garanzia di un anno dalla vendita).
Non minore cura è stata rivolta alla forcella: la testa è molto assottigliata, con alleggerimenti profondi lateralmente, e gli stessi armoniosi raccordi coi forcellini. Sulla sommità della testa sono presenti indizi sulla tecnica utilizzata in saldatura. Spesso sul telaio si possono trovare altri importanti suggerimenti, qui per esempio sono presenti dei fermi per la guaina del cavo freno posteriore, ma soprattutto la stampigliatura dei tubi utilizzati, probabilmente il meglio dell’epoca: Tubi Dalmine Extra, realizzati con processo di laminazione senza saldatura, brevetto Mannesmann. Il documento è stato estrapolato dall’Archivio Centrale dello Stato e consente di osservare che il deposito di questo marchio è stato eseguito nel gennaio 1940, mentre il precedente logo era del 1933 ed era molto differente. Questo logo venne leggermente modificato dopo la fine della guerra, con la ricostruzione sia dello stabilimento sia della compagine azionaria. Tutti gli indizi precedenti ci avevano portato a classificare il telaio come un corsa giroruota torinese databile grossomodo tra il 1937 e il 1942.
Questo ultimo documento sembra restringere il campo più al periodo 1940-1942, sempre che lo stesso logo non venisse usato anche prima di essere registrato. Ricordiamo che nel 1942, in piena guerra, venne a un certo punto proibito costruire biciclette differenti da quelle Tipo Ministeriale (e dunque per legge non poterono più essere prodotti modelli da corsa fino alla fine del conflitto), come approfondito nelle pagine di BE46.
ALL’OPERA
Chiarito come porre le fondamentali basi dell’inquadramento storico del telaio, è arrivato il momento di studiare l’allestimento più corretto possibile. Per arrivare all’obiettivo di rispondere ai requisiti di coerenza e contemporaneità all’originale, occorre fare una ricerca storica che consenta di individuare con precisione le caratteristiche costruttive di ogni elemento mancante. Nel nostro caso, la domanda posta è stata quindi: quali componenti peculiari costituivano una bicicletta da corsa torinese di alto livello, con influenze francesi, nel periodo 1937-42, o ancor meglio nel periodo 1940-42? La risposta arriva a poco a poco.
In prima battuta, che siano conoscenze precedentemente acquisite o ricerche, va stabilito se e quale tipo di cambio montasse, o potesse montare, il telaio da corsa che vogliamo restaurare. Gli Anni ’30 sono caratterizzati dall’utilizzo dei primi cambi di velocità, i più utilizzati nelle corse sono il cambio Vittoria e il Super Champion. Anche in questo caso, il forcellino ci aiuta: per esempio, fosse stato un forcellino tipo Vittoria, la via era a senso unico e la nostra scelta di allestimento doveva ricadere sulla versione di cambio Vittoria più evoluta, il modello Vittoria Margherita. In questo caso, il forcellino è un giroruota più generico, ma avendo notato sfumature alla francese, la nostra scelta è stata virare sul cambio francese Super Champion. Non ci si sbagliava in ogni caso, non vi era alcun imperativo ma semplicemente ogni corridore montava quello che preferiva.
Alcuni elementi “alla francese” presenti sul telaio, non ultima la fresatura più stretta del canotto forcella (tipica delle pipe manubrio francesi), hanno indirizzato diverse scelte verso componentistica di pregio prodotta oltralpe. La prima e la più evidente delle quali è stata la preferenza per il Super Champion, che tra l’altro fu il primo cambio ammesso al Tour del France nel 1937. Prima di allora non era infatti consentito l’uso di cambio meccanico, ma solo del giroruota. Nella nostra ricerca abbiamo avuto cura di trovare tutti gli elementi che costituivano il gruppo cambio venduto, ovvero: tendicatena, deragliatore, manettino, disco salvataggi e ruota libera (come estratto dal catalogo Super Champion). Di quest’ultima facciamo notare la notevole differenza di rapportatura, consentita dal formidabile tendicatena. Il guida catena era opzionale e ci riserviamo di aggiungerlo quando capiterà di trovarlo.
Il mozzo giroruota è una caratteristica essenziale per le biciclette da corsa dell’epoca, ancora più del cambio poiché non tutte le competizioni ne consentivano l’uso, che dunque non deve assolutamente mancare. Essendo la nostra Giamè una rappresentante di alta gamma della produzione torinese, il meglio disponibile sul mercato erano i mozzi giroruota Siamt – concittadini – finemente lavorati ed estremamente affidabili. La scelta è stata naturale. Sul lato opposto abbiamo inserito il pignone fisso come in uso allora. I mozzi sono bloccati da galletti alleggeriti.
Altro elemento importante è la scelta dei cerchi. Sul finire degli Anni ’30, per le bici da corsa di alto livello, erano disponibili cerchi in legno, in alluminio o i più vetusti e pesanti cerchi in ferro. Le caratteristiche innovative del telaio, e la disponibilità di splendidi cerchi in alluminio con anima in legno prodotti dalla ditta Vianzone, denominati Super Cerchio Vianzone, hanno indirizzato la nostra scelta. L’estratto a pagina 19 si riferisce al catalogo Vianzone 1935.
Nippli lunghi per cerchi in legno e raggi marca Stella cromati e sfinati nella sezione (1,8/1,6 /1,8 mm), hanno consentito di raggiare fedelmente le ruote come all’epoca. Per curiosità, in questa epoca tendiamo a preferire una raggiatura con incrocio in terza sulla ruota anteriore e in quarta per la ruota posteriore. Per quanto riguarda la scelta dei tubolari, purtroppo il mercato attuale non offre grandi possibilità e non siamo ancora riusciti a trovare un migliore compromesso rispetto ai Vittoria Rally, quelli che hanno il battistrada più classico. In questo caso abbiamo montato la misura 25, la più grossa disponibile, anche se all’epoca venivano tendenzialmente usate dimensioni maggiori. Cercate di cancellare con un pennarello nero a base vernice le scritte moderne. Un altro consiglio è quello di conservare i vecchi cappucci in metallo delle valvole e sostituirli a quelli in plastica che trovate sui tubolari moderni. Sono piccole accortezze che renderanno più piacevole la bici.
Una volta completate le ruote, è bene completare la trasmissione. A tal proposito va scelto innanzitutto il giusto movimento centrale. Esistevano diversi marchi produttori, i più rinomati dei quali erano i movimenti BS (Bollea Saluzzo) e i Magistroni. Noi abbiamo invece montato un movimento no-brand molto ben lavorato, ritrovato tempo fa su un telaio dell’epoca inservibile. Anche se non ci è chiaro chi lo producesse, ne abbiamo viste altre varianti su biciclette di altissimo livello della stessa stessa epoca. Per leggerezza, materiali e qualità della lavorazione ci sembrava adeguato al livello del telaio. Facciamo notare che il perno è cavo e la controghiera è in alluminio.
DETTAGLI FINALI
Fate attenzione alle lunghezze dei perni: ne esistono almeno di tre lunghezze, molto vicine, per corone singole, doppie e per bici con carter. È importante fare una prova per controllare la linea catena, e che la pedivella destra non tocchi il telaio. Ricordiamo anche che far mettere in squadra il telaio sul piano di riscontro da un bravo telaista è un’operazione fondamentale da fare prima di rimontare. Stesso discorso per la forcella. In questo caso abbiamo deciso di mettere le chiavelle in questo senso, perché allineavano perfettamente le pedivelle, mentre il verso opposto, più utilizzato, creava problemi.
Come guarnitura abbiamo deciso di ricalcare il tema dello sguardo verso l’Oltralpe, montando una guarnitura in acciaio francese Diamant, con pedivelle alleggerite su tre lati e con corona 46 denti, la dentatura più utilizzata del periodo, con disegno a stella a cinque punte, molto usato sulle biciclette torinesi. Osservare i cataloghi e le foto dell’epoca aiuta anche in questo, come dimostra l’estratto del catalogo “Casa del Fanale” di metà Anni ’30 a pagina 20. La catena da corsa da 1/8 di pollice è una Regina Gran Sport restaurata, disponibile già all’epoca, che completa la trasmissione.
Dedicandoci all’impianto frenante, non possiamo non osservare che tre erano le maggiori soluzioni: i freni francesi Bowden, i freni milanesi Universal, i freni torinesi Balilla. Scelti quest’ultimi per motivi geografici, abbiamo optato per l’uso del modello da corsa in alluminio in luogo di quelli in ferro, considerati già superati in quegli anni. Grande attenzione va data alla scelta delle guaine freno, sia per il colore sia per il tipo di trama, e quanto più possibile ai pattini freno e a tutti quei piccoli dettagli che compongono i freni. Per quanto riguarda le leve freno, abbiamo scelto di montare leve con paramani brevetto Labor, prodotte sia da Balilla che dalla Compagnia Italiana Bronzi Speciali – come quelle infine prescelte – importante azienda anch’essa di Torino.
Manubrio torinese composto da pipa Ambrosio Super Lusso in alluminio ricavato dal pieno e sinuosa piega manubrio. I dubbi sulla precisione della datazione di pipa e piega, in questo caso, sono stati risolti grazie a una fotografia di Tolmino Gios, fondatore della medesima azienda, in una gara ciclistica degli Anni ’30 (si ringrazia la famiglia Gios per aver acconsentito alla pubblicazione). I pedali da corsa sono Sheffield a centro intero, tra i migliori disponibili sul mercato. Avremmo preferito montare pedali torinesi, tipo i FOM, ma non siamo riusciti a reperirli. I puntapiedi Balilla sono dello stesso produttore dei freni. Abbiamo scelto una sella Aquila, prodotta a Milano e molto apprezzata, non essendovi a Torino grandi produttori sellai.
Un buon restauro dovrebbe comprendere anche pochi ma utili accessori. Essendo una bicicletta da corsa, abbiamo deciso di restituirle i suoi parafanghi in 4 pezzi che all’epoca erano usati soprattutto nelle sessioni di allenamento, con terminale dipinto di bianco come la legge sull’oscuramento imponeva a tutte le biciclette durante il periodo bellico, e la gemma posteriore in vetro, regolamentare per la circolazione. Inoltre il portaborracce in ferro con borraccia in alluminio. Infine due bei portapompa nichelati e la pompa Silca da corsa, con dettagli in alluminio e ottone, materiali che richiamano quelli presenti sulla bicicletta.
È a nostro avviso importante tenere sempre in mente il livello di conservazione del telaio da cui si parte, per poter inserire successivamente elementi che non stonino troppo. È consentito sperimentare tecniche per ottenere un risultato più omogeneo, a patto che l’azione restituisca almeno parte del fascino perso. Sottolineiamo ancora una volta che il restauro è spesso un compromesso. Per renderlo di buon livello, occorre perseveranza sia nello studio, sia nella ricerca delle componenti, sia nella pratica del restauro. Scoraggiarsi è inutile, perché nulla vieta col tempo di migliorare ulteriormente il risultato ottenuto, se si è proceduto con metodi conservativi.
Consentiteci, infine, due parole sui fratelli Antonio e Agostino Giamè, nati negli Anni ’10 e appartenenti a una generazione di telaisti che ha dato grande lustro a Torino. Se per un tempo questa generazione non è stata sufficientemente celebrata, è arrivato il tempo di farlo. Dei fratelli Giamè sappiamo che hanno lavorato con Gios, Masi, Pelà e probabilmente per Frejus, oltre che in proprio. Tanti sono i professionisti che si rivolgevano a loro per poter pedalare sui loro telai di qualità superiore. Durante il restauro abbiamo avuto conferma da Alberto Masi della sfrenata passione dei Giamè per il Torino Calcio, e ci siamo quindi guardati bene dal nastrare di bianco il manubrio di una loro bicicletta nera. Anzi, abbiamo preferito ricalcare il tema dell’azzurro italiano, che con l’oro delle stelle rende meno buia la nera notte dell’anima durante gli anni di quella terribile guerra in cui questa bicicletta vide la luce.
Scheda tecnica
Marca: Giamè
Modello: corsa
Telaio: in acciaio con congiunzioni alleggerite
Cambio: Super Champion a tre rapporti + giroruota
Catena: Regina Gran Sport
Mozzi: Siamt con oliatore
Sella: Aquila da corsa
Cerchi: Super Cerchio Vianzone
Freni: Balilla corsa in alluminio
Leve freni: Compagnia Italiana Bronzi Speciali
Manubrio e pipa: Ambrosio Super Lusso in alluminio
Pedali: Sheffield
Puntapiedi: Balilla
Pompa: Silca