Il 18 febbraio del 1921, 100 anni fa, nasceva Alfredo Martini. In questo anniversario vorremmo provare a ripercorrere il cammino dell’uomo e del corridore per arrivare alla grandezza del commissario tecnico.
Il Martini uomo è sempre sottotraccia, al corridore prima e al CT poi. Un uomo con i suoi pregi e le sue fragilità. Un uomo antico, come scrive Fiorenzo Magni: «Alfredo, come me, è un uomo antico. Antico nel senso che ha una solida scala di valori; antico nel senso che mette la famiglia davanti a tutto. Ma, come me, è un uomo all’antica che sa guardare avanti senza alcuna paura, che sa stare al passo coi tempi e qualche volta li anticipa».
La vita del piccolo Alfredo si distende tra le vie di Calenzano, piccolo borgo di operai sulla via del Mugello, tra Firenze e Prato. Alfredo è l’ultimo nato della famiglia, dove il babbo Pietro è operaio alla Richard Ginori, fabbrica di ceramiche in quel di Sesto Fiorentino. Una famiglia unita, anche nello stretto indispensabile. Nella borgata tanto pallone ma anche la bicicletta, come mezzo di spostamento e poi di divertimento. Nel 1928 l’incontro con Binda, alle Croci di Calenzano (il valico che apre sul Mugello). Il grande campione in maglia arcobaleno passa davanti al bambino di 7 anni che con la sua bicicletta si è arrampicato sull’arcigna salita per veder passare il Giro d’Italia. Un incontro che segna la vita e la bicicletta che fa sognare.
Dopo la scuola diventa garzone di bottega dal barbiere, poi l’ingresso al Nuovo Pignone di Firenze, come apprendista meccanico. La bicicletta come compagna di strada, ma sognando anche un futuro diverso. Tra i compagni di allenamento Faliero Masi di Sesto. Nel 1937 la prima importante vittoria (a Settignano). Replicata la domenica dopo a Scandicci davanti a Fiorenzo Magni. Nel 1938 lascia il Nuovo Pignone per dedicarsi completamente alle corse, registrando ben 12 vittorie in quell’anno. La stoffa del ciclista c’è, è il momento d’insistere.
Nell’anno successivo passa alla AC Montecatini e in allenamento comincia a frequentare i campioni toscani: Bartali, Cino Cinelli, Aldo Bini. Nel 1940, appena diciannovenne, viene chiamato da Binda, esordiente nelle vesti di Commissario Tecnico della Nazionale, per vestire la maglia della rappresentativa italiana nella Monaco – Milano, breve corsa a tappe di stampo propagandistico. Per il giovane corridore è come la continuazione di quell’apparizione sulla salita dietro Calenzano, si trova davanti il grande campione che aveva ammirato da bambino. «La sera, dopo cena, stavo ad ascoltare in religioso silenzio e con grande interesse, i dialoghi tra Binda, il meccanico Ugo Bianchi e il massaggiatore Enrico Villa. Era come assistere a lezioni tenute da docenti universitari».
Scoppia la guerra e Martini viene inviato in Marina al porto di La Spezia. Grazie alla dispensa del CONI riesce a continuare ad allenarsi per un certo periodo. Oltre ad allenarsi, quando torna a Sesto Fiorentino, provvede a portare i rifornimenti ai partigiani a Monte Morello (la collina che vigila su Firenze e la piana). È in questo periodo che Alfredo conosce Elda, che lavora presso la Richard Ginori come addetta al museo. Ricorda Martini: «Prima di fidanzarci ufficialmente, che a quei tempi voleva dire impegnarsi con il babbo, andammo a fare una gita in bicicletta. Quando parlai con suo padre, mi disse queste poche parole: “Noi non abbiamo niente. Abbiamo solo la dignità alla quale teniamo molto. Lei si regoli di conseguenza”». Alfredo, l’uomo antico, rassicura il futuro suocero e quattro anni dopo sposa Elda.
Finito il conflitto bellico Martini però non dimentica gli amici, anche se di parte avversa, e sarà l’unico ciclista ad andare a testimoniare in favore di Magni al processo (febbraio 1947) per i fatti di Valibona. Questo rinsalderà ancor di più l’amicizia tra i due, un’amicizia che segnerà tutta la loro vita. La guerra è stata dura e ricominciare è difficile per tutti. Martini trova inizialmente un lavoro presso il Comune di Sesto Fiorentino, per il controllo degli oleifici, ma il richiamo della bicicletta è molto forte. Seppur con azzardo per quei tempi, decide di lasciare un posto di lavoro sicuro per inseguire il suo sogno di corridore.
Nel 1946 trova un contratto con la Welter con la quale partecipa al Giro d’Italia. Alfredo chiude al nono posto in classifica generale e viene selezionato da Learco Guerra, occasionalmente CT della Nazionale, per la Ronde de France, corsa preparatoria al Tour de France dell’anno successivo. Con Bresci, gli italiani vincono la gara ma le montagne si dimostrano molto ostiche per il giovane Martini: «Quando arrivai a Grenoble (ultima tappa) era già stato tolto anche il telone del traguardo. Ma in albergo Guerra ebbe per me tante parole di conforto. “Andrà meglio un’altra volta, mi disse”. Era molto generoso».
A gennaio 1947 il matrimonio con Elda. Brevissima luna di miele a Montecatini e via di nuovo ad allenarsi. In quel 1947 vince il Giro dell’Appennino e nello stesso anno nasce la prima figlia, Silvia. Le buone prestazioni di quell’anno lo portano a essere ingaggiato nel 1948 dalla Wilier Triestina, voluto da Magni. È uno squadrone che comprende anche Maggini, Cottur, Bresci e De Santi. Al Giro d’Italia del 1948, pur in appoggio a Magni, si classifica decimo nella generale a cui segue il sesto posto in quella del Giro di Svizzera. Ottimi piazzamenti che gli aprono le porte della Nazionale. Il CT Lugari, però, lo lascia come riserva insieme a Magni. È il Mondiale di Valkenburg, dove Coppi e Bartali si annullano a vicenda e si ritirano.
Al Giro d’Italia del 1949 Alfredo si mostra nuovamente uomo adatto alle corse a tappe. Si classifica sesto nel Giro vinto da Coppi. È anche il Giro che comprende la mitica Cuneo – Pinerolo, dove Martini arriva terzo alle spalle di Coppi e Bartali. Partecipa al Tour, ma è costretto al ritiro dopo 5 tappe per un’infezione al piede. Ai Mondiali è incluso nella squadra. Una foratura però lo mette fuori corsa ed è costretto al ritiro.
Il 1950 è forse la sua miglior annata. Passa alla Taurea con un bel contratto. Al Giro si classifica terzo alle spalle di Koblet e Bartali, conquista la tappa con arrivo a Firenze e indossa a Brescia per un giorno la maglia rosa. Vince il Giro del Piemonte; secondo al campionato italiano vinto da Bevilacqua, secondo al GP Industria e Artigianato di Prato dietro a Kubler e ancora secondo alla Coppa Bernocchi dietro a Crippa. Si conquista una nuova convocazione per i Mondiali (a Moorslede in Belgio).
Il 1951 è un anno un po’ travagliato. A inizio stagione arriva terzo alla Milano – Torino, sul velodromo bagnato dove Coppi cade e si rompe una clavicola. «Per la sbandata io mi trovai sul prato, ma tornai in pista». Vince Magni davanti ad Albani. Niente Sanremo per indisposizione. Un ottimo Giro della Svizzera, dove si classifica terzo alle spalle di Kubler e Koblet. Chiude l’annata con un prestigioso secondo posto alla Parigi – Tours e un secondo alla Coppa Bernocchi. Nel 1952 torna alla Welter, ma i risultati al Giro non sono lusinghieri. Viene comunque chiamato da Binda a far parte della squadra italiana per il Tour, il secondo vinto da Coppi.
Il 1953 è avaro di successi, solo un circuito a Cascina. È però l’anno della nascita della seconda figlia, Milvia. Nel 1954 cambia squadra e passa alla Ligye, ad eccezione del Giro disputato in maglia Atala. Al Nord si classifica nono al Fiandre (primo degli italiani). Avrebbe dovuto disputare anche la Roubaix, ma alla vigilia viene a mancare il babbo Pietro e torna in Italia.
Nelle due stagioni successive, 1955 e 1956, passa alla Nivea – Fuchs, la squadra di Magni. Nella prima stagione aiuterà l’amico Fiorenzo a vincere il terzo Giro d’Italia. La seconda stagione in maglia Nivea è quasi incolore, come la definisce lo stesso Martini: «Soffrivo di ulcera allo stomaco. Non riuscivo ad alimentarmi bene in corsa e nei momenti di sforzo fisico accusavo dolori e crampi. A causa di una brutta caduta abbandonai il Giro d’Italia, nella tappa di Montecatini».
Si va verso la chiusura della carriera. L’ultima stagione (1957) Martini la corre con la maglia Chlorodont, con Nencini capitano e Magni direttore sportivo. L’ulcera però continua a farsi sentire. L’ultima corsa è il Trofeo Matteotti dove giunge settimo.
Il dopo carriera
«Attaccata al chiodo la bicicletta, venne il momento di liberarmi dell’ulcera. […] Da quel momento il ciclismo agonistico per me faceva parte del passato. A pensarci provavo molta malinconia. Ma il distacco da quel ciclismo era inevitabile. A quel punto dovevo solo inventarmi un’altra vita».
L’altra vita per Martini ha le dimensioni di un negozio di vestiti in pieno centro a Sesto Fiorentino. Sarebbe riuscito lui, incline a stare in sella per giorni, ad abituarsi all’attività lavorativa dietro al bancone? «Stare tutto il giorno all’interno di un negozio poteva creare qualche problema a uno come me abituato a vivere all’aria aperta fin da ragazzo. Ma non provai mai quel disagio».
Martini si applica con dedizione, la stessa con cui si allenava, al negozio: l’arte del vestire, i segreti della moda, la differenza tra le stoffe. Così come nell’allestimento delle vetrine.
Passano gli anni e Alfredo mantiene i rapporti con il mondo a cui ha appartenuto, la stima e il rispetto dei ciclisti toscani, l’amico Fiorenzo. Fa da consulente per qualche squadra locale, come il Porta Romana di Firenze, in cui si è tesserato nel 1961 un giovanissimo Franco Bitossi. Bitossi passa spesso alla boutique di Sesto e ascolta i racconti e i suggerimenti di Martini. L’esperto ex corridore comincia già a dispensare saggezza.
Martini trova il tempo anche per l’impegno sociale: «Alla fine degli Anni ’60 venni eletto Assessore allo Sport del Comune di Sesto Fiorentino. Presi tutte le iniziative possibili per attrarre i giovani allo sport, in qualsiasi disciplina. L’importante era aumentare il numero dei partecipanti».
Il Direttore Sportivo
Sono passati dodici anni dal ritiro e di vita dietro al banco quando, una sera del dicembre 1968, squilla il telefono. A chiamare è Fiorenzo Magni. «Di colpo, con poche parole, mi disse che i fratelli Ferretti, produttori di cucine componibili a Capannoli di Pisa, avrebbero varato una squadra ciclistica professionisti della quale io avrei dovuto essere il direttore sportivo».
Un vero e proprio fulmine a ciel sereno che fa piacere a Martini, ma che lo riempie anche di dubbi. Non era nel suo carattere lasciare le persone in difficoltà, ancor meno la famiglia. L’impegno del lavoro mal si concilia con il girovagare di una squadra ciclistica. La famiglia gli viene in aiuto, il genero Salvatore si mostra disponibile a dargli una mano alla boutique. Alfredo risponde alla chiamata dei Ferretti. Capisce che gli viene data una grande occasione ma resta titubante.
«Presi tempo. Nella mia totale incertezza trovai pure la forza di suggerire loro che esisteva anche una alternativa con Gastone Nencini, un campione molto popolare e capace di attrarre le attenzioni degli sportivi e della stampa. Niente. I fratelli Ferretti avevano deciso di puntare su di me. Ero intimamente combattuto e per questo stentavo a dare una risposta. Alla fine accettai e mi buttai anima e corpo su quella avventura che poi durò quattro anni». Le biciclette della squadra vengono assemblate dall’amico Faliero Masi, che intanto si è trasferito a Milano e ha aperto l’officina sotto al Vigorelli. Tra i collaboratori Martini sceglie Franco Vita, esperto di ciclismo, e col quale si instaurerà una profonda amicizia. Vita sarà il vero braccio destro di Martini anche durante la lunga parentesi come CT. Come meccanico la scelta cade su Vasco Poccianti, di Sesto Fiorentino (che lo seguirà anche alla Sammontana e in Nazionale): «Lo avevo scelto perché professionale e disponibile. Lo sapevo bravo perché mi riparava la bicicletta ai tempi in cui ero corridore».
Di quella prima formazione fece parte Giuseppe Beghetto, pistard olimpionico, che su strada vinse subito due tappe al Giro di Sardegna. Nel 1970 l’arrivo in squadra dei quattro fratelli Petterson (Gösta, Sture, Erik e Thomas) reduci da tre titoli Mondiali nella 100 km. Martini ne parlò con Nils Liedholm (su suggerimento di Magni), allenatore del Monza in quel momento, e poi convinse i fratelli Ferretti dell’ingaggio degli svedesi. Arrivati in Italia, Martini li guidò alla conquista della Ruota d’Oro a Marino e poi del Gran Premio d’Europa a coppie (dove Gösta e Thomas stravinsero). Gösta arrivò sesto al Giro d’Italia e terzo al Tour (dietro a Merckx e Zoetemelk). La Ferretti chiuse la stagione con la vittoria nel Trofeo Baracchi a coppie (Gösta e Thomas) davanti a Gimondi e Motta. Martini mostrò che anche in automobile aveva il piglio giusto. Il 1971 vede approdare alla Ferretti Italo Zilioli, ma Alfredo sa che chi può portarlo alla vittoria del Giro d’Italia è Gösta (più forte a cronometro).
Alla corsa rosa lo svedese si difende bene fino a quando, a quattro tappe dalla fine, non arriva la tappa di montagna, che prevede il Pordoi. Su quella penultima salita Martini vorrebbe far attaccare Gösta Pettersson, ma lo svedese non ne vuol sapere, vuole attaccare sull’ultima per staccare la maglia rosa Michelotto: «Purtroppo non riuscivo a convincere Gösta sulla bontà della mia tesi. Continuava a ripetermi che avrebbe voluto aspettare l’ultima salita. […] Ai piedi del Pordoi, gli sussurrai: “ora attaccherà Van Vlierberghe. Appena possibile scatta e vai”. Confermandosi corridore corretto, professionalmente preciso, rispettoso delle esigenze della squadra, Gösta dopo appena un chilometro dall’allungo del suo compagno di squadra attaccò. Michelotto perse terreno e all’arrivo pure la maglia rosa». La Ferretti riesce ad arrivare a Milano con il simbolo del primato e quel successo fu l’affermazione più prestigiosa della squadra (e portò Gösta ad essere il primo svedese a vincere la corsa rosa). Nel 1972 fa il suo ingresso in squadra Gianni Motta, con cui Martini arriva secondo alla Milano – Sanremo dietro a Merckx. Nel 1973 Martini passa sulla macchina della Sammontana, che ha in Bitossi il capitano, che lo ripaga con 13 vittorie. Di quella squadra fanno parte anche Poggiali, Riccomi e Simonetti. Il 1974, l’ultimo per Martini come DS tra i professionisti, la squadra era più incentrata sui corridori di un giorno, più votata all’attacco. Un team prevalentemente toscano con Fabbri, Francioni, Riccomi, Simonetti. Al termine della stagione i fratelli Bagnoli, titolari della Sammontana, stavano pensando di ingaggiare Merckx ma trovarono l’opposizione interna del consiglio di fabbrica, che portò alla chiusura della squadra.
«Conclusi così l’esperienza di direttore sportivo a livello professionisti. Erano stati sei anni importanti anche per me, in quanto avevo arricchito il bagaglio delle mie conoscenze in tutti i settori del ciclismo. […] Quell’esperienza ormai apparteneva al passato. Il presente era il ritorno al timone del negozio di abbigliamento». L’amore di Martini per la bicicletta e l’avventura del ciclismo traspare da queste parole, ma anche l’amarezza. Non è pronto a tornare dietro al banco del negozio. «Ma non era scritto che dovesse andare così. Il destino mi riservava un’altra grande occasione di lavoro nel ciclismo».
Gli anni da Commissario Tecnico
Alla fine del 1974, dopo un Mondiale in cui l’Italia non ha conquistato neanche una medaglia e Merckx ha vestito la terza maglia iridata, il CT Defilippis, per contrasti con i vertici della FCI, lascia l’incarico. Magni, in quel periodo presidente dell’Associazione Corridori Professionisti, suggerisce Martini come nuovo CT al presidentissimo Rodoni. La felice intuizione viene ben accolta all’interno della Federazione e Alfredo viene convocato a Milano per l’investitura ufficiale. Come lui stesso ricorda: «Un compito stimolante anche se gravoso e difficile». Come per la chiamata dei fratelli Ferretti, Alfredo si sente in colpa nei confronti della famiglia. Sarebbe stato nuovamente lontano dai suoi cari, in giro per il mondo, ma dentro di sé, come quando da giovane aveva scelto di lasciare il lavoro al Comune di Sesto e fare il corridore professionista, sa che quella è la sua strada. Ancora una volta l’umanità di Martini prevale, affronta con dedizione e coraggio quel ruolo così importante per il nostro ciclismo. Dopo aver accettato l’incarico, Martini, tra i tanti incoraggiamenti ricevuti, ricorda in particolare quelli di Girardengo: «Nel 1975, mi fece i complimenti quando divenni commissario tecnico della Nazionale. Eravamo a una corsa in Piemonte. “Commendatore, io ho accettato, ma non so se riuscirò a essere all’altezza del ruolo”, gli dissi. Girardengo mi guardò serissimo e rispose: “Intanto tu sei stato un corridore intelligente, che si è gestito bene e sono sicuro che riuscirai anche in questo tuo nuovo ruolo”. Furono tra i migliori complimenti che abbia mai ricevuto».
La Nazionale trova un altro Alfredo, dopo quel Binda che vantava tre titoli di Campione del Mondo da corridore e quattro Tour e due Mondiali da Commissario Tecnico. È a lui che Martini s’ispira. «Avevo l’impressione che dietro ogni suo discorso ci fosse un grande lavoro di preparazione. Questo è uno degli insegnamenti che ho cercato di mettere in pratica nella mia attività di tecnico. Non faceva quasi mai complimenti, non me li fece nemmeno quando divenni tecnico della Nazionale, anche se lui, come rappresentante italiano nel governo mondiale del ciclismo, approvò la scelta». Binda è il riferimento di Martini: «Uguale completezza, attenzione a tutti gli aspetti tattici, tecnici, comportamentali del ciclismo. Perspicace, preciso, rigoroso nel tenore di vita, sempre in forma tutta la stagione. Grandissimo in sella e grandissimo più tardi sull’ammiraglia quale tecnico degli Azzurri».
Col suo solito puntiglio, Alfredo si mette a lavorare. Si mette in contatto con i direttori sportivi (italiani e stranieri), esperti di ciclismo e medici sportivi. Si è dato delle regole ben precise da rispettare ora che è il Commissario Tecnico della Nazionale italiana. Per prima quella di rispondere del suo operato non solo alla Federazione ma anche a tutto il popolo italiano. Ciò lo porta con ancor maggior forza ad agire con grande senso di responsabilità. Cambia il punto di vista, allarga la conoscenza dei corridori, studia i percorsi mondiali nei minimi dettagli scegliendo i corridori di conseguenza. Amplia poi l’avvicinamento al Mondiale: cerca fin dall’inizio dell’anno la miglior logistica per la trasferta. Esegue una scelta di corse di avvicinamento (pre-mondiali) adatte a quel circuito, concordando la partecipazione dei corridori inclusi nella rosa dei possibili partecipanti e coordina con gli organizzatori i percorsi, che si avvicinino quanto più possibile a quello dei Campionati del Mondo. La squadra si forma in modo naturale, tenendo conto del rendimento nelle corse, dal Campionato italiano alle grandi corse a tappe.
La prima formazione per la strada fu per il Belgio, sul circuito di Yvoir. Il CT chiama come capitani Gimondi e Moser insieme a Battaglin, Bertoglio, Bellini, Fabbri, Poggiali, Riccomi, Simonetti e Cavalcanti (riserve Paolini e Santambrogio). La notte prima della corsa fu molto tesa. «Comprensibile visto che ero al debutto come Commissario Tecnico. Ma ero fiducioso sull’esito della corsa, convinto di disporre di una formazione molto competitiva». Gli avversari portano i nomi di Merckx, De Vlaminck, Maertens, Knetemann, Thevenet, Van Impe, Kuiper. Non fu una gran giornata. Moser, non al meglio, si classifica 11°, primo degli italiani (Gimondi 15°, Poggiali 18°, gli altri ritirati). «Oltre la linea d’arrivo ero demoralizzato. Se ne accorsero tutti. Cercarono di farmi coraggio Ercole Baldini, che aveva guidato la nostra ammiraglia, i dirigenti federali, Tullio Campagnolo, gli stessi Moser e Gimondi che si addossarono tutte le responsabilità della sconfitta. Ma dentro di me rimase una grande amarezza».
Nel 1976 l’Italia ospita la rassegna iridata a Ostuni (Puglia). Martini vuole riscattare il Mondiale precedente e non deludere. Studia tutto nei minimi particolari e la corsa sembra mettersi bene con Moser e Conti nel gruppo di testa a una decina di chilometri dall’arrivo. In discesa fuga di Moser alla cui ruota si porta il solo velocista Maertens, che però lo brucia all’arrivo. Un secondo e terzo posto (con Conti) sono comunque un buon risultato.
TRIONFI MONDIALI
Dopo l’inverno, utile anche per recuperare energie mentali, parte l’organizzazione per i Mondali del 1977 (San Cristobal, Venezuela), con un sopralluogo particolarmente impervio. Il Campionato del Mondo di Martini è il primo in cui seleziona sia Moser sia Saronni (e in squadra anche Gimondi, Bitossi, Baronchelli e Battaglin). «Tra i due esisteva già una forte rivalità alimentata anche dalla stampa. Ma con i due campioni parlavo moltissimo durante la stagione spiegando loro che nella corsa iridata contava solo muoversi in funzione del ciclismo azzurro. Ripetevo che quel giorno il mondo ci guarda, ci giudica, sarebbe imperdonabile far prevalere gli interessi personali a danno di quelli della squadra». Eccoli i segreti di Martini: dialogare tutto l’anno con i campioni in funzione di un obbiettivo comune. Mettere al centro di tutto la squadra, la rappresentativa della nazione Italia.
Negli ultimi giri Saronni creò le condizioni affinché Moser e Bitossi si potessero avvantaggiare. L’unico che riuscì a stargli a ruota fu il tedesco Thurau. Allo sprint vittoria di Moser sul tedesco, dopo che Bitossi si era staccato. Eccolo il primo titolo mondiale di Martini. «Superato il comprensibile momento di euforia telefonai a casa. Ero davvero commosso. Ma lo erano anche dall’altra parte del filo». Il gioco di squadra ha funzionato alla perfezione e il podio si completa col terzo posto di Bitossi.
Si cerca di ripetere l’impresa l’anno dopo in Germania (sul circuito del Nurburgring). Ancora una volta Moser è nella fuga decisiva, stavolta con l’olandese Knetemann. Sbaglia però la volata e viene battuto di pochi centimetri. Nel 1979 in Olanda (Valkenburg) il Mondiale delle scorrettezze. Nella volata finale lo scatto decisivo di Battaglin veniva strozzato da Raas, a sua volta stretto da Thurau. L’italiano finiva a terra e l’olandese andava a vincere. «Indignati presentammo due ricorsi che, incredibilmente, vennero respinti». Di quella scorrettezza si parlò a lungo e fu ulteriore stimolo per Martini per preparare al meglio il Mondiale francese di Sallanches del 1980. Viene ricordato ancora come il Campionato del Mondo più duro e selettivo data l’altimetria. Su 107 partenti ne arrivarono 15. Vinse Hinault su Baronchelli, l’ultimo a cedere.
Nel 1981 l’evento si tiene a Praga. Manchiamo la vittoria anche per la mancata collaborazione tra Moser e Saronni. Ruggini precedenti al Campionato italiano (vinto da Moser) erano ancora presenti e Alfredo prova per tutta la corsa a convincere Saronni a collaborare: «Devi chiedergli di darti una mano, pronto a restituirgli il favore in altra occasione. Cerca, insomma, di stabilire un buon rapporto. È importante». L’accordo non fu trovato e fu uno degli errori di quel giorno. Saronni perde la volata con Maertens per cinque centimetri.
La rivincita l’anno dopo, a Goodwood in Inghilterra, con la famosa “fucilata” in cui Saronni staccò tutti. È giusto aggiungere che in quel mondiale gli Azzurri furono splendidi per compattezza e sincronismi nei movimenti tattici. Il giornale francese L’Equipe definì il gruppo italiano “La Squadra”. Il lavoro di Martini viene riconosciuto a tutti i livelli. L’Alfredo moderno sta superando l’Alfredo antico.
Ma alle glorie spesso succedono delle sconfitte brucianti, come quella del 1983, sul circuito svizzero di Altenrhein dove, dopo il ritiro di Moser, Bombini e Vicentini, Argentin non fu in grado di restare nella fuga e si staccò al penultimo giro. «La sera accanto a me era rimasto solo il fido Franco Vita. Rientrai in Italia avvilito e tanto più deluso perché ero convinto di aver varato una squadra altamente competitiva».
Il 1984 si apre col record dell’ora di Moser a Città del Messico, a cui Martini partecipa insieme a Bearzot (CT della Nazionale di calcio) direttamente sul prato dell’anello. Al Mondiale di Barcellona (sul circuito di Montjuich) la squadra italiana si presenta senza Saronni, che ha deciso di non rispondere alla convocazione perché non in forma. «Un gesto, quello di Saronni, di grande professionalità e di rispetto per la maglia azzurra». Argentin in marcatura stretta su LeMond finisce fuori dai giochi. Lo scudiero Claudio Corti parte allora in rimonta, ma arriva troppo tardi per recuperare il belga Criquielion.
Nel 1985 il Mondiale torna in Italia, sui circuito del Montello, in Veneto. Con Moser non in gran giornata e Saronni reduce da una caduta nell’undicesimo giro, le sorti italiane sono mantenute vive da Argentin e Corti, il quale neutralizza tutti i tentativi di fuga. Finché, a un paio di chilometri dal traguardo, l’allungo decisivo di Zoetemelk a cui nessun riesce a rispondere. Argentin perde anche il secondo posto nella volata con LeMond.
A Colorado Springs (USA) nel 1986 finalmente Argentin coglie l’alloro iridato. Allo scatto a sei chilometri dall’arrivo risponde solo il francese Mottet poi regolato in volata. «Una grande vittoria di Moreno, ma anche dei suoi compagni che avevano svolto davvero un prezioso gioco di squadra». Nel 1987 a Villach (Austria) nell’ultimo giro c’è sempre Argentin con i migliori, ma non riesce a rientrare sull’irlandese Roche.
Nel 1988 a Renaix (Belgio), Fondriest conquista una vittoria quasi insperata a 23 anni, sfruttando le scorrettezze di Bauer nei confronti di Criquielion con sua conseguente caduta. Nella primavera del 1989, mentre Martini è al seguito delle classiche del Nord gli viene conferita, per meriti sportivi, l’onorificenza di Cavaliere Ufficiale della Repubblica. Eppure l’uomo Alfredo è rimasto fedele a se stesso: «Con tanti attestati di stima, mi sentivo ancora più responsabile nel mio lavoro teso a portare prestigio e successi allo sport italiano».
Con la solita meticolosità, il CT prepara la trasferta francese a Chambery. In corsa però il diluvio limita le possibilità azzurre, tra cadute e discese scivolose, regalandoci un magro ottavo posto con Bugno. Gli anni passano e sempre più l’umanità di Martini acquisisce i contorni di paterna accondiscendenza: «Ho voluto bene a tutti uguale. Per me erano come per un padre di famiglia i figlioli, non è detto che si voglia bene al più bravo, a volte siamo dalla parte di quello meno bravo, questo è il mio pensiero». Ancora più chiaro il pensiero dell’amico Fiorenzo Magni: «Il tecnico: insuperabile. Si fa presto a dire che metteva d’accordo Moser e Saronni. Alfredo ci riuscì quando quei due non si salutavano nemmeno. Nella gestione dei rapporti umani, credo che Alfredo abbia preso molto da Binda. Come Binda riusciva a dare un vero spirito di gruppo alle sue Nazionali, come Binda sapeva parlare con i corridori senza mai arrabbiarsi, si metteva nella condizione di non dovere mai alzare la voce. Nessun Commissario Tecnico al mondo ha vinto quanto Martini, nessuno è riuscito a definire così bene quel ruolo. È stato senza dubbio il miglior condottiero nazionale di sempre».
Il Mondiale giapponese del 1990 a Utsunomiya vede la vittoria del belga Dhaenens davanti al connazionale De Wolf. Bugno arriva terzo mettendo in fila il resto degli avversari. A Stoccarda (Germania) nel 1991 una delle migliori interpretazioni delle strategie di Martini: «Sulla salita dell’ultimo giro in risposta da un allungo del francese Rué, partiva di forza Bugno, sul quale si portavano prima Rooks e Indurain, poi Mejia. Il quartetto filava verso l’arrivo. Dietro, a pochi secondi, gli inseguitori sui quali però facevano buona guardia Cassani, Fondriest, Ballerini e Chiappucci. […] Nella volata per la maglia iridata, Bugno scattava ai duecento metri e con irresistibile progressione metteva alle spalle i suoi tre avversari».
L’apoteosi l’anno successivo, a Benidorm (Spagna), quando Bugno riuscì a superarsi e vincere nuovamente, grazie anche alla magistrale guida di Perini (gregario di Chiappucci). «A quel punto Bugno, lanciato così alla perfezione dal compagno, scaricò sui pedali la sua grande potenza e mise alle spalle tutti gli altri aspiranti alla maglia iridata, a cominciare dal francese Jalabert, che provò inutilmente a recuperare».
Il 1993 è un anno di passaggio. Il Mondiale si disputa a Oslo, tutto sotto l’acqua. Lo vince un giovanissimo Armstrong. Nel 1994 si torna in Italia, stavolta in Sicilia, ad Agrigento. Fuori Bugno per una caduta in allenamento, anche il resto della squadra non si esprime al suo livello. Davanti rimangono solo Chiappucci e Ghirotto. Il francese Leblanc va a vincere dopo aver staccato Ghirotto e davanti a Chiappucci, che intanto aveva recuperato insieme a Virenque. Fu un giorno infausto anche per un altro motivo, la morte della sorella, che fu comunicata ad Alfredo solo al termine della corsa. In Colombia, a Duitama, il Campionato del Mondo del 1995. Mondiale per scalatori, favoriti i colombiani. Per l’Italia i capitani Chiappucci e Pantani. Restiamo stretti nella morsa spagnola con un Olano, con gomma a terra, che va a vincere davanti a Indurain e al Pirata.
Il 1996 le Olimpiadi si aprono ai professionisti e Martini può partecipare alla spedizione di Atlanta. Nella fuga finale, a 12 chilometri dall’arrivo, i due azzurri Bartoli e Baldato. Mentre il primo insegue lo scatto di Musseuw l’altro gli copre le spalle bruciando comunque energie per stoppare gli inseguitori. Nulla può quando se ne vanno in tre: Richard, Sorensen e l’italiano di passaporto inglese Sciandri. Vittoria dello svizzero, con Baldato settimo e Bartoli ottavo. Meglio va nella prova a cronometro, dove Fondriest ottiene un ottimo quarto posto.
A settembre il Mondiale di Lugano, dove il tardivo inseguimento italiano favorisce la fuga di Musseuw e Gianetti con la vittoria del belga. Bartoli conclude terzo davanti ad Axel Merckx. Infine il 1997, l’ultimo Mondiale seguito in ammiraglia, a San Sebastian (Spagna). «Una conclusione ancora una volta amara per i nostri colori a seguito di malintesi ed errori anche tattici dei nostri atleti».
Il luminoso tramonto
A 76 anni Alfredo dice basta. La grinta e la voglia sarebbero ancora quelle del 1975, ma capisce che è il momento di scendere dall’ammiraglia. Da babbo, adesso, è tempo di trasformarsi in nonno. Scendere dall’ammiraglia però non vuol dire essere anche fuori dalla Federazione, che è ormai la sua casa. In un momento così tribolato per il ciclismo, la figura di Martini risulta super partes, lontana dagli scandali. In lui, ancora una volta, si ripone la speranza. Nel 1998 viene nominato responsabile delle nazionali azzurre e successivamente presidente onorario della FCI. Aiuta Fusi nelle sue tre annate come CT, sia dei professionisti che dei dilettanti. Poi, quando nell’inverno del 2000 il presidente federale Ceruti decide di cambiare, Martini propone – come fatto da Magni a suo tempo con lui – Franco Ballerini, che è da poco sceso di bicicletta. Sarà una felice scelta, e in Franco Alfredo troverà, oltre che un degno erede, quasi un figlio. Martini partecipa alle trasferte (tra cui Zolder e Atene) ed è sempre prodigo di consigli col giovane CT il quale, a sua volta, lo cerca per confrontarsi sulle scelte da fare. Martini si spende per il ciclismo, sia per quello di base che per quello di vertice. Partecipa a convegni, trasmissioni televisive, «portando il mio contributo di esperienze e di buon senso dettato da una lunghissima militanza, a tutti i livelli e in tutti i ruoli nel ciclismo». La morte di Ballerini, nell’inverno del 2010, lo lascia profondamente prostrato. Il presidente federale Di Rocco propone a Paolo Bettini (due volte iridato e medaglia d’oro ad Atene 2004) di raccogliere l’eredità di Franco. Martini, come in precedenza, non fa mancare il suo supporto al nuovo CT. Per 4 anni seguirà ancora gli azzurri e le vicende federali, fin dove il fisico glielo permetterà. Nel giugno del 2011 si spegne l’amata moglie Elda, malata da tempo.
Alla perdita di Franco e di Elda si somma, nell’autunno del 2012, quella dell’amico Fiorenzo. Alfredo, ormai novantenne, partecipa alle esequie e tiene una elegia funebre che è il testamento spirituale dei due vecchi amici: «Si è spento un grande faro che illuminava la via maestra. Ma non siamo rimasti al buio. A indicare la strada giusta ci sono i suoi esempi di onestà, intelligenza, fermezza. Anche stavolta è stato imprevedibile, come nelle corse. Era dotato di grande forza, fisica e morale, sapeva credere in se stesso».
Nell’inverno del 2013 Bettini decide di lasciare l’incarico e come sostituto viene scelto Davide Cassani, recente ex-commentatore RAI ma soprattutto una delle voci in corsa delle Nazionali di Martini. L’investitura avviene nel salotto di casa Martini nel gennaio del 2014. Alfredo ha ormai 93 anni e sa di lasciare la sua eredità in buone mani, sicuro che chi lo seguirà continuerà nel solco della sua tradizione.
Alfredo Martini muore il 25 agosto del 2014. Con Marco Pastonesi nel febbraio 2014 aveva pubblicato il libro “La vita è una ruota” in cui aveva lasciato il suo messaggio d’amore per la bicicletta: «C’è chi mi ha eletto ambasciatore di ciclismo, chi mi ha visto come un profeta o un guru o un missionario. Invece io ho sempre pensato che avrei potuto fare di più. Se guardo indietro, penso che la bicicletta e il ciclismo mi abbiano dato più di quello che io ho dato loro. Avrei voluto dare il doppio, ma bisogna saper accettare i propri limiti, con onestà. La bicicletta merita sempre di più. Cento anni fa era un mezzo, spesso anche di lusso, per andare a lavorare. Così si sapeva che cosa volesse dire pedalare, in salita e in discesa, sullo sterrato o fra i sassi, la mattina presto o la sera tardi. E i corridori sentivano che la gente gli era vicina, partecipe, entusiasta. Oggi, un secolo dopo, la bicicletta si sta rivelando sempre più importante. È la chiave di movimento e lettura delle grandi città. Un contributo sociale. E non ha controindicazioni. Fa bene al corpo e all’umore. Chi va in bici, fischietta, pensa, progetta, canta, sorride. Chi va in macchina, s’incattivisce o s’intristisce. La bicicletta non mi ha mai deluso. La bicicletta è sorriso, e merita il Nobel per la pace».
A cura di: Marco Pasquini Sito: inbarbaallebici.wordpress.com Foto: archivio fotografico Carlo Delfino