Tra le fortune che si hanno facendo questo mestiere, c’è senz’altro quella d’incontrare personaggi straordinari che hanno creato, con il loro lavoro e le loro idee, il mondo della bicicletta. E non intendiamo solo in Italia, ma proprio il mondo della bicicletta come lo conosciamo oggi, compreso quello dei vari Pippo Ganna, Pogačar, van der Poel, Van Aert. È un mondo che germoglia da lontano e c’è molta Italia nelle sue radici. Alcuni protagonisti sono famosissimi, altri lo sono meno, ma sono adorati e rispettati all’interno di una nicchia di appassionati. Tra questi c’è anche Stelio Belletti. Più famoso di lui – ma anche qui soprattutto tra i cultori del telaismo italiano – il marchio nato dalla crasi del suo nome, ovvero StelBel, che per una ventina d’anni è stato in Italia e nel mondo sinonimo di artigianalità, innovazione, persino sfrontatezza.
Tutte caratteristiche che Stelio Belletti aveva evidentemente nel DNA e che ha saputo trasferire all’interno dell’impresa – in senso di azienda ma anche di percorso epico – che ha saputo costruire nel corso della sua vita, di cui vi abbiamo accennato qualcosa su BE60 quando abbiamo parlato della Stelbel Dynamic Crono del 1987, un vero capolavoro d’ingegno, cura nei dettagli, aerodinamica, manualità. Dobbiamo purtroppo usare il passato, perché proprio mentre mandavamo in stampa questo numero di Biciclette d’Epoca è arrivata la notizia della morte di Belletti, improvvisa. Incredibile, a pensarci, perché lo Stelio che abbiamo intervistato pochi mesi fa era uno splendido novantenne che nella vita ci ha visto sempre benissimo, e che ancora a febbraio ci raccontava di riuscire a farsi 50 km di bicicletta due volte alla settimana su e giù per le strade della Brianza. Resta il rammarico di non aver potuto condividere con lui quella che è stata – crediamo – la sua ultima intervista. Ma resta anche la fortuna – e qui torniamo all’inizio di questa introduzione – di averlo potuto conoscere di persona. In queste pagine, vi raccontiamo com’è andata.
Belletti nasce a Mantova il 19 novembre del 1932, in tutta un’altra Italia. All’età di 13 anni inizia ad affiancare il padre Antenore nell’officina di famiglia che aveva sede all’Ortica. Una cosa non rara a quell’epoca, basti pensare al coetaneo d’eccezione Ernesto Colnago, brianzolo, che alla stessa età aveva iniziato a lavorare alla Gloria di Focesi, facendosi Cambiago-Milano andata e ritorno tutti i giorni in bicicletta. L’esperienza in officina non è un dettaglio, in questa storia, perché il giovane Stelio imparerà in quella sede la saldatura a TIG (Tungsten Inert Gas), utilizzata per la costruzione delle fusoliere degli aerei (cosa di cui si occupava l’azienda di famiglia) per poi essere tra i primi a utilizzarla, decenni dopo alla soglia dei quarant’anni, nel campo della produzione di telai per bicicletta. La formazione “out of the box” di Stelio Belletti, sostanzialmente estraneo al mondo della bicicletta per buona parte della propria carriera lavorativa, lo ha aiutato ad affrontare le cose in maniera molto diversa rispetto agli altri, senza condizionamenti dovuti alla tradizione o a qualche maestro precedente. Belletti è stato il classico esempio di “uomo che si è fatto da sé”, letteralmente con la forza delle proprie idee e sostanzialmente infischiandosene di quello che facevano gli altri. Per questo è apparso e scomparso come un fulmine all’interno della scena telaistica mondiale, lasciando però – proprio come un fulmine che si schianta al suolo – un traccia profonda e indelebile.
Lo abbiamo incontrato in una mattina soleggiata al ristornate il Griso di Vignate, un nome che getta un’ancora immediata verso le vicende manzoniane che hanno tratteggiato questa parte di Lombardia, indistinta e operosa, che prende il nome di Brianza. È un racconto fatto d’intercalare in dialetto, figure note e meno note che appaiono e scompaiono, conoscenze che si sovrappongono e completano, grasso sulle mani e odore d’officina, di una Milano e di un’Italia che non ci sono più.
La sua è una storia che parte da un’officina aeronautica…
Sì. Queste qui sono 50 fusoliere del P19 che facevamo in via Milano [indica la foto] fatte con struttura a traliccio in acciaio con cromo-molibdeno. Qui eravamo in via Amadeo 85 all’Ortica. Da qui è partita tutta la storia dei telai per moto. Abbiamo fatto tutti i telai della Paton [casa motociclistica milanese fondata nel 1958 da Giuseppe Pattoni e Lino Tonti e ancora attiva, ndr] e anche quelli per Jack Findlay e per il grande campione Mike Hailwood, nel 1967/68.
È vero che gli avete fatto la moto in due settimane?
Quando lui era in Italia si appoggiava a Giuseppe Pattoni della Paton. Hailwood iniziava a non stare più in strada con la moto perché i giapponesi continuavano ad aumentargli i cavalli e il telaio non teneva più. Hailwood è arrivato da noi in officina, eravamo già a Rodano [paese a est di Milano in cui l’azienda si trasferì nel ’62], solo con il motore e Pattoni ci ha spiegato che dovevamo farlo in 15 giorni. Allora sono andato alla Columbus a prendere i tubi in cromo-molibdeno. Per il forcellone posteriore ho proposto di passare ai tubi squadrati, perché quelli tondi non resistevano abbastanza, e così abbiamo fatto. Alla prima gara, Hailwood vinse con il nostro telaio. Apriti cielo! Alla Honda questa cosa non stava assolutamente bene. Minacciarono di licenziarlo ma alla fine gli vietarono solo di correre con il nostro telaio per le gare successive. Dopo un po’ di tempo si è licenziato lui.
E la bicicletta come arriva?
È una passione che ho sempre avuto. Da giovane correvo e dopo che mi sono sposato ho pensato di ricominciare ad andare in bici per passione. Non avevo nessuna intenzione di mettermi a fare telai, perché la mia officina era molto differente. Ho preso una bicicletta da un produttore della zona ma alle prime pedalate ancora un po’ finivo per terra. Con mio padre l’abbiamo controllata e abbiamo visto che era tutta storta, e allora ho deciso di riportarla a chi mi aveva fatto il telaio. Dopo qualche giorno, me ne hanno dato uno che mi avevano detto fosse nuovo nonostante il colore fosse uguale, ma io per sicurezza avevo messo un timbro sotto al movimento centrale di quello vecchio e mi sono accorto che era ancora lì. E allora ho pensato che avrei fatto meglio a farmelo da solo, quel telaio.
Come mise in pista questa impresa?
Sono andato in Columbus e ho preso una scatola con i tubi, perché allora facevano dei kit apposta, e mi sono messo a lavoraci. Non volevo farlo come tutti gli altri, anche perché noi sapevamo saldare a TIG, senza congiunzioni. Quindi faccio questo telaio e con la bicicletta mi presento all’appuntamento in viale Monza a Milano per andare a fare il solito giro domenicale. Lascio lì la bici mentre bevo il caffè, ma quando esco trovo lì un capannello di amici che la guarda e vengo tempestato di domande prima e di richieste di farne altre uguali per loro dopo.
Si è trovato catapultato un po’ per caso, quindi?
Sì, ma poi da lì ho iniziato a lavorarci seriamente e ho fatto anche i primi brevetti, come l’Integrale, che ho chiamato così perché era un pezzo unico senza congiunzioni. Anche la testa di forcella era fatta in quel modo.
Quando nacque il marchio Stelbel?
Sono andato avanti a fare i telai brevettandoli per diversi anni, ma il marchio l’ho creato nel 1973, quando ho deciso di rendere più continuativa la produzione. Nel 1975 il meccanico della nazionale Polacca, che era uno qui di Gorgonzola, mi aveva chiesto di fargli otto telai, quattro da strada e quattro da cronometro. Allora come sempre sono andato in Columbus e ho ordinato apposta dei tubi grossi di diametro ma sottili e li ho costruiti. Quelli da strada li avevo fatti rossi e quelli da cronometro bianchi e gli avevo detto di non usare questi ultimi quando andavano in strada, perché c’erano diversi chilometri con il pavé. Fatto sta che i polacchi vanno ai Mondiali di Mettet e vincono la 100 km a squadre. Pochi giorni dopo, nella prova su strada, vedo che uno dei polacchi arriva in volata con una bicicletta bianca e mi sono spaventato perché il telaio poteva rompersi!
E cosa gli disse il suo amico meccanico?
Mi disse: «Stelio, ho provato in tutti i modi a toglierglieli di mano ma non c’è stato niente da fare. I telai da crono erano talmente belli che me li hanno fatti montare da strada!». Erano più leggere, per cui volevano quelle, ma io ero preoccupato perché girava voce che una delle mie biciclette si fosse rotta. Poi ho scoperto che uno dei polacchi aveva tamponato una moto della giuria e il telaio si era insaccato.
È stato lì che sono cambiate le cose?
Era già da un po’ che la situazione era diventata seria, avevo una bella produzione. Ho anche fatto una squadra di amatori. Ai privati che venivano da me prendevo personalmente le misure. Avevo anche fatto un “trabiccolo” dove si potevano regolare tutte le distanze, sella, manubrio, eccetera e così glieli mettevo a punto perfettamente. D’altra parte me ne intendevo, perché avevo corso. Oltre a questo avevo 5/6 posti in Italia che vendevano le mie biciclette. Tante volte gli davo il telaio grezzo, altre già colorato e finito. Poi a un certo punto ho smesso per ragioni familiari.
Lei è stato sicuramente un grande innovatore.
Sicuramente per quanto riguarda la saldatura. Prima che arrivasse il carbonio ormai facevano tutti i telai nel modo che avevo introdotto io. Ho fatto telai anche per Rossin, ma ero alla fine della mia carriera. Ho fatto anche qualcosa in alluminio perché con il TIG era la sua dimensione. Ho fatto poi telai con tubi Inox che prendevo da una trafileria che c’era qui in Brianza. All’inizio erano un po’ pesanti, poi a furia di metterglielo nella testa li han fatti come volevo io. Li abbiamo fatti anche nervati, stellari. Con l’arrivo del carbonio è cambiato tutto e ho lasciato perdere, perché era un materiale con il quale non volevo avere niente a che fare. Io saldavo, mica incollavo.
Cosa voleva ottenere con i suoi telai?
La leggerezza e la novità. La novità di certi particolari aerodinamici, perché venendo dall’aeronautica e dalle moto qualche infarinatura ce l’avevo. Poi mi appoggiavo comunque a degli ingegneri che mi davano dei consigli su come trovare delle soluzioni nella pratica. A sentire loro avrei dovuto fare fazzolettature ancora più profonde. Erano i primi anni dell’aerodinamica applicata alla bicicletta, come con il Record dell’Ora di Moser. Non copiavo mai dagli altri ma sperimentavo. Magari sbagliavo, ma poi arrivavo. E oggi si vede quanto influisce l’aerodinamica. Ma con il carbonio è molto più semplice.
Seguendo l’innovazione ha anche creato dei modelli molto iconici, come la Punta dell’Est.
Su quella bicicletta ho cercato di portare l’esperienza dei telai a traliccio delle moto, mi piaceva fare qualcosa di nuovo da proporre alle persone. Gli altri mi sembravano un po’ tutti uguali, marca a parte. Ho fatto anche diversi tandem uomo-uomo o uomo-donna. In quegli anni piaceva molto andare in bicicletta in due, si usava.
E anche un squadra di ragazze…
Sì, a Cernusco sul Naviglio. Erano cose che venivano naturalmente e le persone lo capivano. Se forzi non risulti credibile.
E una squadra di amatori.
Certo, anche se non erano obbligati ad avere le mie biciclette. Qualcuno mi diceva «Stelio, ma io ho la bici del Colnago», ma a me andava bene lo stesso, l’importante era la maglietta. Ci allenavamo all’Idroscalo, da cui anche il nome del telaio Punta dell’Est, che era diventato il punto di riferimento per tutti i cronometristi.
A proposito di Colnago, eravate in tanti in quegli anni a fare storia nel mondo della bicicletta, qui in Brianza. Com’erano i rapporti con questi personaggi?
Io come ho detto prima non volevo assolutamente fare il produttore di bici, sono partito facendo un telaio per me stesso. Per questo ho sempre cercato di mantenermi indipendente e con le mie idee, giuste o sbagliate che fossero. Rapporti con gli altri sostanzialmente non ne avevo, anche perché era un mondo molto competitivo dal quale stavo fuori volentieri.
Qualcosa che avrebbe voluto fare e non ha fatto?
Mi sarebbe piaciuto usare di più il titanio ma ne ho fatti solo due. Uno ce l’ho ancora a casa, l’altro non so che fine ha fatto, forse l’avevo dato a Baronchelli ma non mi ricordo.
Sfogliamo le foto. Stelio Belletti ci racconta una dopo l’altra tutta la loro storia, le vicende che ci sono dietro. Voci, volti e idee che riemergono dal passato. Un passato che sfreccia ancora negli occhi – lucidissimi – di chi ha visto quasi tutto il Novecento passargli davanti, quando ancora Binda guidava in gara Coppi e Bartali. E poi Gimondi, Merckx, Moser, Saronni e tutti gli altri campioni, italiani e non, fino ai giorni nostri. Eppure Stelio Belletti pare non aver subito la fascinazione di tutto questo. Mai alla ricerca della ribalta o dei grandi campioni. Un vero outsider, uno che ha scosso le certezze del sistema con la sola forza delle proprie idee. Che se avesse fatto davvero il palo nella banda dell’Ortica, come recita la famosa canzone di Jannacci, l’avrebbe fatto in tubi Columbus, e poi l’avrebbe fazzolettato per renderlo più aerodinamico. D’altra parte per scappare è importante non solo saper andare più veloce, ma anche pensare in maniera differente dagli altri. Addio e grazie di tutto, maestro.