Jean Robic: di lui a prima vista si sarebbe forse detto che fosse un attore comico piuttosto che un corridore (a volte tragico), un pugile peso gallo anziché uno scalatore.
Il bello del ciclismo è che, nella storia ultracentenaria delle gare, ci sono stati ciclisti che hanno vinto poco che sono rimasti nella memoria collettiva molto più di altri che hanno trionfato molto. Un Pantani ha vinto in carriera le gare che un Merckx vinceva in una sola stagione, ma il ciclismo è più sentimento che numeri, più emozioni che statistiche, più passione che calcolo. Jean Robic, bretone nato nelle Ardenne, è uno di questi corridori. È stato un personaggio del ciclismo nell’immediato secondo dopoguerra e lo dimostrano i suoi numerosi soprannomi. Robic è stato Testa di Vetro, Capretto (“Biquet” in francese), Testa di Cuoio, il Nano e l’Allodola, come ebbe a definirlo Bartali per il suo saltellare in bicicletta. Un piccolo grande uomo con una testa spropositata su un piccolo corpo (60 kg per 1,61 m). Un orgoglio smisurato, un ingegno da fare invidia, una superbia senza vergogna e una tenacia che ha fatto innamorare il popolo francese, affascinato dall’uomo che sapeva battersi sempre e comunque a dispetto delle doti che madre natura gli aveva concesso.
Robic è stato uno scalatore che appena la strada cominciava a salire, come preso dal canto delle sirene, scattava. Quando raccontava che poi, giunto al GPM, si faceva passare una borraccia piombata per compensare la leggerezza che dava svantaggio quando la strada scendeva, rideva sotto sotto come colui che sa di saperla lunga. Non attuava grandi tattiche: «Nella vita sono stato abituato a combattere senza tanti progetti. La vita mi ha messo di fronte ostacoli improvvisi e io ho sempre attaccato per abbattere gli ostacoli». Robic, soprattutto, ha saputo vincere tre gare che lo hanno consacrato tra i Grandi: il Tour de France della rinascita (1947), il primo del dopoguerra (ricordiamo che mentre il Giro d’Italia ripartì nel 1946 la Francia dovette aspettare un anno); il primo Campionato del Mondo di Ciclocross (1950); il primo Gran Premio Ciclomotoristico, già Roma-Napoli-Roma e prima ancora Corsa del XX Settembre. Tre imprese che lo hanno consegnato alla storia del ciclismo.
Jean Robic nasce il 10 giugno 1921 a Condé-lès-Vouzieurs, nelle Ardenne francesi, dove il padre ex-ciclista aveva trovato lavoro come falegname, ma veniva dalla Bretagna, regione nord-occidentale della Francia. Diceva sempre di essere nato nelle Ardenne per errore. In seguito si trasferisce a Parigi dove sotto l’occupazione tedesca lavora edificando trincee nei pressi di un campo di aviazione, alternando il lavoro con l’attività agonistica. Passa infatti professionista nel 1943 nella Génial Lucifer.
È nella Parigi-Roubaix del 1944 che Jean Robic conquista non la vittoria ma gli appellativi che gli rimarranno cuciti addosso per tutta la vita. Il piccolo bretone finì infatti con le ruote in mezzo alle rotaie del tram ad Amiens picchiando la testa sull’asfalto, dove per miracolo fu scansato dai colleghi corridori che stavano sopraggiungendo e dalle auto al seguito. Nonostante tutto risalì in bicicletta e raggiunse il traguardo. Il giorno dopo, sentendo dolore alla testa si recò da un dottore parigino, il quale gli riscontrò la frattura del cranio! Incredibile come avesse potuto rialzarsi e terminare la gara. Ricordiamo che il più sfortunato Serse Coppi cadde allo stesso modo nel per lui fatale Giro del Piemonte del 1951.
Da quella volta “Testa di Vetro” porterà sempre un casco di cuoio che gli salverà la pelle nelle sue ulteriori e numerose cadute e collezionerà più fratture che successi: due al cranio, due al femore, altrettante alla clavicola, due alla mano, una incrinatura alle vertebre e, per non farsi mancare niente, una lesione alla cornea. Ma Jean non era il tipo che si arrendeva facilmente: da buon bretone testardo corse fino alla soglia dei 40 anni.
IL TOUR DEL 1947
Nel dopoguerra, rispetto al Tour, il Giro si era già corso due volte: nel 1946 con la vittoria di Bartali e nel 1947 con la replica di Coppi. In Francia l’ultima edizione era stata quella del 1939 (primo il belga Sylver Maes). Nel 1946 si era ripartiti con una breve corsa a tappe organizzata dal quotidiano sportivo L’Equipe, l’erede de L’Auto, definita poi il “Piccolo Tour de France”: la Monaco-Parigi. Robic faceva parte della squadra dell’Ovest della Francia (all’epoca si correva divisi in squadre di questo tipo) ma il favorito era René Vietto. Quando Vietto capisce di non poter lottare per la vittoria finale, si mette al servizio del proprio pupillo Apo Lazaridès, che vincerà davanti a lui e a Robic. Nell’ultima tappa, infatti, una massiccia azione collettiva da parte della squadra francese, strapperà il primato al piccolo bretone. Per un anno Robic maturerà la vendetta.
Nel 1943 Robic aveva conosciuto la giovane Raymonde Cornic, il cui padre possedeva il bar Rendez-Vous des Bretons. I due si sposarono quattro giorni prima dell’inizio del Tour e le promise che lo avrebbe vinto. Decide di arrivare al Tour del ’47 in forma ma senza dare troppo nell’occhio, tanto che il responsabile tecnico Leo Véron non se la sentirà di convocarlo nella squadra maggiore. In questo modo, Testa di Vetro avrà maggior libertà di movimento nella squadra dell’Ovest, diretta da Pierre Cloarec.
L’Italia nel ’47 non fa in tempo a formare una squadra degna di tale nome: non vanno in Francia né Coppi né Bartali, non c’è Magni e neanche Girardengo nelle vesti di CT. Non c’è tempo perché il Giro è terminato il 15 giugno e dieci giorni dopo inizia il Tour, 4640 chilometri divisi in ventuno tappe e cinque giorni di riposo. Ci sono gli abbuoni: 1 minuto al primo e 30” al secondo per arrivo di tappa, stessi abbuoni sulla sommità delle montagne di prima categoria (Colle Granier, Croix de Fer, Télégraphe, Galibier, Izoard, Allors, Vars, Peyresourde, Aspin, Tourmalet, Aubisque), 30” sulle salite di seconda categoria e 15” su quelle di terza. Iscritte cinque squadre nazionali: Francia, Italia, Belgio, Svizzera-Lussemburgo e Olanda-Stranieri di Francia più cinque regionali francesi per un totale di cento corridori. Da segnalare che in quel Tour esordì un giovane Luison Bobet. E c’era un Ronconi in ottima forma. Dicevamo delle assenze di peso della nostra Nazionale che, non avendo Girardengo disponibile, incaricò in fretta e furia l’inesperto giornalista Guido Giardini, allora capo-rubrica alla Gazzetta dello Sport. Ai suoi ordini: Ronconi, Feruglio, Volpi, Cottur, Bizzi, De Santi, Vincenzo Rossello, Bertocchi, Corrieri e Brambilla.
Dopo la prima tappa vinta da Ferdi Kübler (che farà suo il Tour nel 1950), è nella seconda che Vietto fa capire a tutti di essere il favorito numero uno conquistando la maglia gialla nella Lilla-Bruxelles. Robic rimane tranquillo e con opportunismo va a vincere la quarta tappa, Lussemburgo-Strasburgo, e la settima, Lione-Grenoble. Nonostante le due vittorie, i “vecchi” della squadra dell’Ovest non danno tregua a Robic, punzecchiandolo continuamente e arrivando quasi alla rissa.
L’indomani, a Georges Speicher, vincitore del Tour del ’33, Robic dichiara: «Vado via fin dall’inizio e arrivo da solo!». Lo dice ad alta voce, oltretutto, per farsi sentire da tutti i suoi rivali. Diavolo di un Robic, arrogante e presuntuoso… E invece? Scala il Peyresourde con il solo Pierre Brambilla, poi lo lascia e da solo scala ancora l’Aspin, il Tourmalet e l’Aubisque. All’arrivo si siederà sul marciapiede e, non fidandosi di nessuno, orologio alla mano controllerà il ritardo dei propri avversari. Aveva guadagnato 10 minuti e 53 secondi a cui sommare i 4 minuti di abbuoni in montagna e il minuto all’arrivo. Adesso era a poco più di 8 minuti da “roi” René Vietto.
Decisiva la diciannovesima tappa, la cronometro Vannes-Saint-Brieuc, nella Bretagna amica. Vietto ha consumato quasi tutto il proprio vantaggio e Brambilla nei 139 chilometri contro il tempo gli sfila la maglia gialla. Passa secondo in classifica l’altro italiano, Ronconi, e terzo Robic a soli 2’58”. Questo il podio inaspettato e quasi certo a due tappe dalla fine. In apparenza insignificante la penultima vinta da Diot. In realtà Brambilla, convinto di avere la gara in pugno, si esibisce in scatti a ripetizione e insegue tutti, francesi e belgi. Questi ultimi, però, ormai fuori dai giochi, si erano alleati ai francesi per sfiancare gli italiani. E qui entra in gioco nuovamente l’inesperienza del buon Giardini, che si era rifiutato di pagare per creare alleanze convinto anch’egli di avere la corsa in pugno.
Ma Robic non si dà certo per vinto e nell’ultima frazione, la Caen-Parigi di 267 chilometri, fa saltare il banco. C’è da scalare la modesta salita del Bonsecours, ed è qui che verrà scritta la storia di questo Tour. Robic con una serie di attacchi sfianca Brambilla, poi è la volta di Fachleitner. A questo punto Brambilla si fa prendere dal panico e corre dietro al francese, ma la luce si spegne per l’Italiano. Robic capisce che è l’occasione propizia per staccare la maglia gialla e se ne va assieme a Fachleitner (a cui promette 100.000 franchi in cambio della collaborazione) e a Teisseire, che pochi metri prima di affrontare la rampa del Coeur-Volant aggancia la ruota posteriore di Robic: i due cadono ma il bretone prontamente si rialza. Arriveranno tutti e tre sulla pista del Parc des Princes dove a vincere sarà Schotte. Per Testa di Vetro una maglia gialla nuova, mai indossata in gara, davanti a Fachleitner a 3’38”, Brambilla a10’07” e Ronconi a 11’. Per noi italiani due giorni in giallo per Brambilla (poi naturalizzato francese) e due per Ronconi (recentemente celebrato dalla NUVI).
Qualcuno sostiene che con una squadra più unita, con un CT all’altezza – Guerra, Girardengo o Binda per intenderci – e senza qualche aiutino ai francesi negli ultimi 150 chilometri da parte dei mezzi motorizzati al seguito, forse avrebbe vinto un italiano, in un periodo dove eravamo visti come il fumo negli occhi in terra di Francia. Anni dopo Ronconi racconterà a Ermanno Mioli che se al posto del macchinoso cambio Campagnolo Corsa (il famoso due stecche) avesse avuto il Simplex, come i francesi, forse avrebbe vinto lui.
GLI ALTRI SUCCESSI
Oggi il ciclocross, grazie all’impulso di una fetta di mercato della bicicletta, ma anche grazie a fior fiore di campioni che si cimentano in questa disciplina, è un movimento che attira sponsor e pubblico, ma quando sono nate le prime “ciclopedestri”, proprio in Francia negli Anni’ 20 del Novecento, era considerato il parente povero del ciclismo su strada. Qualcuno ne intuisce le potenzialità come alternativa alla preparazione invernale. In Italia, in ritardo come spesso succede rispetto alla Francia, il ciclocross ha il proprio battesimo ufficiale nel 1930, esattamente il 2 febbraio a Bologna, dove si disputa il primo Campionato Italiano vinto da Armando Zucchini, del locale Velo Sport Reno. Solamente trent’anni dopo, il 2 marzo del 1950, saranno varati i primi Campionati del Mondo di specialità. La decisione sarà presa durante l’82° congresso dell’UCI a Parigi. Appena due giorni dopo, Robic indosserà la prima maglia iridata, dopo essere stato campione di Francia nel 1945, nel circuito ricavato a Vincennes, nei sobborghi di Parigi. Percorrerà i 23,25 km in 51’44”. Il podio tutto francese sarà completato da Rondaux (a quattro macchine da Robic) e da Jodet (a 1’51”). Gli italiani, con Binda come CT, si classificheranno secondi nella graduatoria a squadre con Sforacchi (quinto), Toigo (settimo) Pinchi e il famoso Malabrocca, il re della “maglia nera”. I transalpini domineranno i Mondiali ininterrottamente fino al 1958, poi verranno alla ribalta il tedesco Rolf Wolfshohl ma soprattutto il nostro Renato Longo, capace di imporsi ben cinque volte dal 1959 al 1967 come il francese André Dufraisse.
Sulla storia della XX Settembre/ Roma-Napoli-Roma ci sarebbe da scrivere un libro intero, se si pensa che è nata nel lontano 1902, se si considerano i campioni che vi si sono cimentati e la storia che si porta dietro, oltre che per essere stata una delle gare più importanti del Centro-Sud. Il nome deriva dal fatto che si disputava il 20 settembre per celebrare la storica presa di Porta Pia, che permise l’unione dell’Italia con Roma Capitale. Poi fu il tracciato a dare il nome alla stessa, soprattutto dopo il 1909, quando Diavolo Rosso Giovanni Gerbi vinse la corsa per la terza volta, aggiudicandosi così definitivamente la Coppa XX Settembre. Brevemente, nel 1902 vinse Grammel, il Tedesco di Roma, poi ancora un romano nel 1903, Spadoni. Nel 1904 la gara è ad appannaggio di Galadini, che copre i 460 km in 23h 12’04”. Nel 1905 scendono in massa i campioni del momento: Gerbi, Cuniolo, Pavesi, Albini e Galetti. Vince Pavesi che ancora non è l’Avvocat, mentre l’anno successivo è la volta di Galetti. Dal 1907 al 1909 come detto è Gerbi a dominare, la prima volta a quasi 22 km/h di media, la seconda quando per evitare di far correre di notte (ma soprattutto per evitare trucchi e combine) si decide di dividere la gara in due tappe. Nel terzo anno invece, quando la corsa sembra in pugno per Luigi Ganna, già trionfatore della Milano-Sanremo, questi a pochi chilometri da Roma entra in una crisi che lo costringe a fermarsi lasciando via libera a Diavolo Rosso, che vincerà anche grazie al pubblico… Ma questa è una storia che non possiamo raccontare ora. Dopo questo primo periodo pionieristico, la Roma-Napoli-Roma fu disputata fino al 1934, quando a vincere fu Locomotiva Umana Learco Guerra, poi dal 1935 al 1949 ben 15 anni di oblio dovuti al tramonto dell’era delle Gran Fondo.
Finalmente giungiamo al 1950, l’anno che ci interessa in particolar modo, quello del trionfo di Testa di Vetro. Ma cos’è stato che ha fatto tornare in vita una gara della quale si era quasi perso memoria? Succede che dopo la Seconda Guerra Mondiale la motorizzazione cominciò a prendere il sopravvento. Prima la Vespa e poi la Lambretta cominciarono a invadere le strade, affiancando in un primo momento e andando a sostituire poi la bicicletta come mezzo di spostamento per il lavoro e il tempo libero. Fu il giornalista campano Natale Bertocco del CSI, assieme all’ingegner Lauro della Innocenti, a escogitare una formula pubblicitaria che lanciasse la nuova Lambretta C 125. Fu così che dalle ceneri della XX Settembre nacque il Gran Premio Ciclomotoristico delle Nazioni da disputarsi a fine aprile (poco prima dell’inizio del Giro) e con due protagonisti: il ciclista con la bici e l’allenatore con lo scooter. Nuova anche la formula, con tante brevi prove in linea a cronometro, inframezzate da tratti dietro motori. Ricordiamo che il 1950 è Anno Santo e la gara, organizzata da un ente vicino al Vaticano, nasce sotto i migliori auspici. Grazie ai soldi della Innocenti, della Lametta Tre Teste e della Chinotto Neri, furono ingaggiati praticamente tutti i più forti campioni del momento: Bartali, Coppi, Magni, Leoni, Bevilacqua, Martini, Ortelli, Maggini e Aldo Bini per gli italiani, e poi ancora Robic, Bobet, Schotte, Van Steenbergen per gli stranieri. Unici assenti di rilievo i due Kappa: Kübler e Koblet.
Il 18 aprile si effettuò l’abbinamento a sorteggio delle Lambrette e degli allenatori. Il giorno seguente i campioni furono ricevuti dal Papa Pio XII. Finalmente il 20, alle sette del mattino partì la prima prova da Centocelle. Fu proprio Robic a vincere a oltre 52 km/h la prima frazione, la Roma-Frosinone. Dietro di lui Coppi, Van Steenbergen e Bobet. Il secondo settore, da Frosinone a Napoli fu conquistato dal Campionissimo, esaltato dal popolo partenopeo al Velodromo dell’Arenaccia. Napoli-Latina fu il terzo settore con una frazione in linea fino a Terracina e il successivo aggancio volante ai rulli delle Lambrette.
Ancora Coppi vincitore (conquistando la maglia giallo-rossa di leader della classifica) davanti a Robic (nell’occasione in maglia Viscontea) per un solo secondo. Tre ore di meritata sosta e poi via verso la conclusione nella Città Eterna. Nei pressi di Velletri, al momento di agganciare i rulli, un cane traversò la strada al passaggio della gara, facendo perdere a Coppi che si trovava in testa secondi preziosi che permisero alla coppia Robic-Gentili di avvantaggiarsi sul resto degli inseguitori. Con Bartali caduto poco prima (ritiratosi), il nostro eroe, incitando il proprio allenatore ad aumentare la velocità, entrò da vincitore all’Appio. Il piccolo bretone, in maglia blu, staccò di 8” Coppi, terzo Bobet e quarto Van Steenbergen. 450 km percorsi in 12h 22’ 51”. La nuova formula aveva entusiasmato e convinto e Robic, ancora una volta, era stato artefice e protagonista dell’ennesima prima.
FINALE AMARO
Robic vinse poi due edizioni della Cronoscalata del Mont Faron, tappe al Giro di Svizzera del 1948. Corse altri nove Tour, Jean, che in carriera cambiò molte squadre. L’ultimo, quello del 1959, gli fu fatale. Giunse infatti fuori tempo massimo nella terzultima tappa, abbandonato da tutti: compagni di squadra e direttore sportivo, e a nulla valse la propria recita nei confronti dei giudici. Avrebbe tanto voluto piangere ma il suo orgoglio così grande in un uomo così piccolo glielo impedì. Corse la sua ultima gara un paio d’anni dopo, nel sobborgo di Puteaux a Parigi, assieme al suo vecchio rivale Louison Bobet.
Jean, vanitosissimo, non si è mai arreso all’età, e ogni occasione è stata buona per mettersi in mostra. Si è esibito nei circhi equestri, una volta ha lavorato per un locale dove venivano fatti gli spogliarelli e lui, a una certa ora, saliva su una bici posizionata sui rulli e sfidava gli spettatori più arditi a battersi con lui in una gara a tempo mentre un cartellone segnava la distanza percorsa dai due. Ha partecipato all’Enal-Giro cicloturistico e infine ha gestito un bar a Parigi. Quale luogo migliore per narrare agli avventori le proprie imprese?
Terminata la carriera, nel 1961, non è mai riuscito a staccarsi dalla bicicletta e spesso pedalava assieme ai due figli maschi. A volte, per ricordare i bei tempi andati, scattava e prendeva quel margine dai figli necessario per fargli ricordare le sfide che sempre aveva affrontato a testa alta. Sembra però che non amasse raccontargli più di tanto di Fausto Coppi: «Perché Coppi è tanto grande che non vorrei creare nei miei ragazzi un complesso di inferiorità facendogli sapere che nella vita esistono anche uomini imbattibili».
Come Hugo Koblet 16 anni prima, non è stata la bicicletta ad accompagnare il nostro uomo nell’attimo ultimo ma un incidente automobilistico. La notte del 6 ottobre 1980 stava tornando a casa da un raduno di vecchie glorie a Germiny-Léveque, dove l’olandese Joop Zoetemelk celebrava la vittoria al Tour di quell’anno e dove, tra l’altro, Biquet e Brambilla avevano fatto pace dopo trent’anni di incomprensioni, quando la sua Audi 100, forse per un colpo di sonno, sicuramente per l’alta velocità, è andata a sbattere contro il posteriore di un camion, incastrandosi sotto di esso. Questa volta Jean Robic non si rialzerà più. Sulla collina fuori Rouen, dove vinse il Tour, campeggia un suo monumento che lo mostra col suo inconfondibile casco di pelle: Robic, Testa di Vetro.
A cura di: Vittorio Landucci – Biblioteca del Ciclista Archivio fotografico: Carlo Delfino