In copertina, su questo numero, trovate un elegantissimo e giovanissimo Alfredo Binda, in una versione “ricolorata” (l’originale in bianco e nero è all’inizio dell’articolo a lui dedicato) che speriamo possa essere fedele all’originale, anche se avventurarsi così indietro nel tempo non è mai facile.
È un’immagine che lo ritrae pulito, felice e sorridente. Abbiamo discusso molto su quale immagine utilizzare per rappresentare al meglio gli anni di esordio di Binda, principalmente in Costa Azzurra, di cui potete trovare un consistente racconto a opera di Marco Pasquini con il supporto fotografico e “culturale” del solito e inestimabile Carlo Delfino. L’alternativa era un suo scatto subito dopo la vittoria del Giro del ’25, sporco, esausto, dove dimostrava 15 anni di più e dove era sicuramente più “eroico”. Alla fine abbiamo optato per l’immagine che vedete in copertina. In parte per questioni squisitamente “grafiche”, in parte – e qui vengo al punto – per il senso che ha Binda nella storia del ciclismo, e non solo dal punto di vista delle vittorie.
Nel titolo di questo editoriale ho parafrasato una famosissima opera di Goethe, “I dolori del giovane Werther”, paradigma del romanticismo ottocentesco. Binda, invece, in gioventù ha avuto solo grandi gioie. Ma non solo: il “Trombettiere di Cittiglio” – così veniva chiamato per il fatto di essere un ottimo musicista – vinceva in scioltezza, con facilità, quasi senza fare fatica. Come se fosse sostenuto da una mano divina, che l’accompagnava al traguardo trionfante. Alfredo Binda, quindi, è stato il primo corridore a smettere i panni del ciclista eroico, quello che si sfiniva in tappe massacranti, che si alimentava in maniera confusa, che era un vero e proprio “forzato della strada”, mutuando questo termine da un libro dell’amico Mario Cionfoli. Binda è stato il primo corridore “moderno”, antesignano delle star che sarebbero arrivate subito dopo di lui (Coppi su tutti) e che avrebbero portato gli sportivi a essere il modello anche “estetico” e di status sociale che sono ancora oggi. Letta così, la carriera di Binda, di cui abbiamo riportato gli anni meno noti in maniera dettagliata, acquista un ulteriore grande valore.
Parliamo comunque sempre di un campione che ha gareggiato nel contesto di un ciclismo molto diverso da quello di oggi, in cui la componente umana, relazionale e istintiva contava molto di più. Lo dimostra un’altra grande storia che vi raccontiamo in questo numero grazie alla penna di Alessio Stefano Berti, quella di Toni Bevilacqua, uno che – lui sì – arrivava al traguardo spesso sporco e brutto, ma che si è anche tolto diverse soddisfazioni e ha saputo incarnare sia il campione vincente sia il gregario generoso. È la doppia anima del ciclismo, quella che ci appassiona e che sentiamo vibrare nel sangue. È quest’anima che cerchiamo di raccontarvi in ciascuno dei nostri numeri di Biciclette d’Epoca, e che proprio in questo mostra in maniera ancora più evidente le due facce della sua complessa medaglia.
Alessandro Galli
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