Occuparsi di Biciclette d’Epoca ha delle caratteristiche uniche, che hanno portato delle nuove necessità con cui misurarsi in quella che è una vita da eterno studente.
Me ne sono accorto numero dopo numero, in questi ormai quattro anni e oltre, nei quali credo che il nostro lavoro di redazione e di squadra abbia cercato di diventare sempre migliore, allargando e approfondendo campo e punti di vista. Rispetto ad altri settori, dicevo, qui c’è una componente che mi sono reso conto essere diventata nel tempo sempre più importante e che nella lavorazione di questo numero è emersa in maniera più forte del solito, ovvero la ricerca delle verità fragili.
La nostra è una rivista che guarda al passato, appoggiandosi su due secoli e oltre di storia, da quando Karl von Drais iniziò a sgambettare nel prato davanti a casa sul suo cavallo di legno a ruote. La nostra missione è raccontare tutto quello che è successo nel mezzo, fermandoci – più o meno – nel momento in cui il carbonio ha significativamente cambiato questo mondo. Alcune cose sono più semplici di altre. La storia del ciclismo sportivo, per esempio, da un certo punto in avanti ha una serie infinita di fonti certe, basta andare a recuperare gli articoli dei giornali o i libri. Ma questo vale quando raccontiamo di eventi mainstream o di grandi campioni. Che succede, invece, quando andiamo a cercare storie meno note o addirittura sconosciute? Che succede quando parliamo di campioni come Arthur Zimmerman, vissuto alla fine dell’Ottocento, o delle rincorse di Bartali alla maglia iridata, iniziate nel 1936? O ancora delle radici del Vigorelli, che vanno ben al di là di quanto lo storico impianto sia entrato nella cultura di massa? Su queste cose andiamo in profondità, addentrandoci in territori dove le certezze sono di meno, provando a ricostruire per quanto possibile le “verità fragili”, magari proponendo cose mai viste prima, come la foto del pistard Giuseppe Vigorelli, che l’impianto l’ha pensato, oppure andando a scovare chi si sia inventato il termine “fucilata” per descrivere il finale di Saronni a Goodwood. Quest’ultima curiosità l’abbiamo svelata grazie a Marco Pasquini, mentre per andare indietro nel tempo con contenuti che altrove sarebbe impossibile trovare, e che ci aiutano a ricostruire i fatti, abbiamo la fortuna di poter contare sul favoloso archivio di Carlo Delfino, fratello maggiore e mentore di tutti noi, che ci ha permesso di supportare, come sempre, diversi articoli che leggerete in questo numero. È con questa cultura, con questi documenti spesso unici, che pensiamo di proporre contenuti di valore ai nostri lettori.
Ancora più complesso e avvolto nelle nebbie è il mondo a cui guardiamo quando si parla di biciclette. Tutto quello che esiste prima dell’avvento dei cataloghi è un territorio in cui le verità fragili abbondano e nel quale bisogna addentrarsi come esploratori intrepidi, mettendo a volte in discussione le proprie certezze e sapendo che può bastare un documento o una foto a cambiare opinioni consolidate.
È un passaggio fondamentale, perché anche solo un decennio fa, quando Biciclette d’Epoca è nata, la coscienza dell’approccio “scientifico” anche sulle biciclette non era così diffusa. Noi, per quanto possibile, cerchiamo di andare a fondo nelle cose, cerchiamo riscontri, non ci accontentiamo del primo parere. E nonostante questo sappiamo che su certe cose possiamo sbagliare. Ma è un rischio che corriamo, da indagatori del passato quali siamo, consapevoli che il nostro compito è quello di rendere meno fragili le verità tra le quali ci muoviamo.
Alessandro Galli
info@biciclettedepoca.net