Questo racconto è basato su precisi riscontri storici ma lascia anche un poco correre la fantasia per indugiare su come si svolse l’evento velocipedistico, cercando di creare un’immersione in quella Milano degli inizi di gennaio del 1871.
I personaggi sono tutti realmente esistiti a eccezione di Poli, Rizzini e Negretti, in quanto le cronache dell’epoca non danno i nomi dei partenti ma solo i nomi dei 9 giunti all’arrivo, mentre dei tre ritirati non si è riusciti a conoscerne l’identità. Gli abbinamenti tra i corridori e i velocipedi sono di pura fantasia mentre le marche dei velocipedi sono reali.
CONTESTO STORICO
Per capire il racconto è necessario dare alcune brevi notizie storiche. I bastioni di Milano corrispondono alle mura erette, tra il 1548 e il 1562, durante la dominazione spagnola, dal Governatore Ferrante I Gonzaga. Sino ad allora la città aveva come unica difesa un fossato.
La prima testimonianza dei lavori di costruzione ci giunge dall’arcivescovo di Zara, Andrea Minuti, che nell’ottobre del 1549, visitando Milano nel viaggio da Venezia a Parigi, ricorda nel suo diario che: «Questa popolosissima e ricchissima città [non era] cinta da alcuna sorta di muraglia, ma solamente da un piccolo argine di terra difesa, ond’è stata per ogni tempo esposta alle invasioni di barbari. Ora don Ferrante ha dato principio a cingerla di buona muraglia: al passar nostro ne era già in opera un buon pezzo». La demolizione delle mura per dar luogo ad una circonvallazione iniziò nel 1859 e si protrasse per molti anni. Nel 1871 ancora ampi tronconi delle mura erano in piedi, per cui il percorso si sviluppava sui tratti di strada pianeggianti alternati ad altri costituenti l’antico passeggio situato sulla sommità delle mura. Ciò contribuì a creare quel sali-scendi che rese la gara particolarmente impegnativa.
Infine, va ricordato che nell’aprile del 1869 l’allora sindaco di Milano, il conte Giulio Belinzaghi, aveva proibito la circolazione dei velocipedi «in tutta la zona della città racchiusa entro la cerchia dei Navigli, più lungo tutti i corsi, e lungo via Principe Umberto, nei pubblici giardini, lungo il Bastione da Porta Nuova a Porta Venezia e anche lungo i viali di Foro Buonaparte». Ecco perché i nostri eroi ripetono spesso, nel racconto, di non poter circolare in bicicletta.
Sabato 7 gennaio 1871: il giorno prima della corsa
Il presidente del Veloce Club, con un paio di consiglieri e tre commissari, si diedero appuntamento all’osteria del Polpetta in corso Monforte per le 8.30. Approfittarono dell’occasione di poter girare nel centro città perché il club aveva ottenuto dal comune una speciale dispensa dal divieto di circolazione dei velocipedi all’interno dei bastioni. Dispensa circoscritta ai membri del club impegnati nell’organizzazione della prima corsa milanese. La giornata era fredda ma serena, con un cielo terso e finalmente sgombro da nubi e senza nebbia.
Arrivarono puntuali con i loro velocipedi, ben difesi dal pungente freddo con guanti di pelle foderati di pelo di agnello, indossando pesanti giacche di fustagno, con i colli di velluto. Solo il presidente si distingueva per un’impeccabile giacca in pesante knickerbocker con i profili di velluto alle quattro tasche e un caldo collo di pelo di astrakan. In testa una bombetta di pesante panno. Gli altri indossavano berrettoni di lana cotta. Gli stivali particolarmente tesi facevano intuire che indossavano pesanti calze di lana.
Appoggiarono i velocipedi all’esterno dell’osteria stando attenti a non urtare i due cavalli da tiro che, legati alla bell’e meglio agli anelli di ferro infissi nel muro, avevano ancora la schiena fumante per il sudore emanato dallo sforzo di trainare quei due carichi di pietre. Con ogni probabilità i carrettieri erano all’interno dell’osteria a farsi qualche bicchiere di rosso. Entrarono nel fumoso, grande e unico ambiente riscaldato da un camino. Quando il Polpetta li vide, si avvicinò immediatamente al tavolo dove si erano seduti e prese l’ordinazione di cinque Vermouth con dei dolcetti di Saronno, che l’oste garantì essere freschissimi.
Il Polpetta era un personaggio molto popolare in quella parte di Milano. Il soprannome non lo doveva alle polpette, che comunque sapeva fare in modo impeccabile, ma a quella capigliatura nera con un ciuffo schiacciato, anzi incollato, alla fronte, che lo faceva assomigliare proprio a una delle sue polpette.
«Per fortuna non nevica come a metà dicembre, speriamo che questo tempo secco si mantenga ancora per domani, non vorrei rinviare la gara un’altra volta», disse il presidente.
«Penso che la nevicata di due settimane fa abbia spazzato via nuvole e nebbia e per fortuna non si è gelata», rispose uno dei consiglieri. «Sono certo che domani sarà bello e secco, almeno potremo seguire la corsa sui landò senza gelare, perché dovremo per forza tenere i mantici aperti e ci dovremo vestire molto pesante. Speriamo almeno che non si abbassi troppo la temperatura».
«Ah non c’è problema per il vestiario: quello che abbiamo indosso oggi sarà più che confortevole, la carrozza ci offrirà comunque più riparo dei nostri Michaux», rispose uno dei commissari.
La comanda arrivò, immediatamente consumarono quanto ordinato e in fretta uscirono. Pedalando si diressero verso Porta Venezia e il vicino Borgo di Santa Francesca. L’acqua della roggia Gerenzana scorreva lenta al lato della strada ed esalava una leggera nebbia che nel controluce del primo sole si tingeva di rosa. Lungo la riva più in ombra, un sottile strato di ghiaccio, a ridosso dell’argine, sembrava divertirsi a creare fantasiosi arabeschi. Dal vicino stabilimento della Società degli Omnibus giungevano insistenti nitriti e un forte odore di cavallo.
«Allora, come avevamo stabilito la linea di partenza sarà qui tra i due caselli del dazio. Alla partenza i corridori dovranno tenere una direzione un poco obliqua verso sinistra così potranno più facilmente imboccare la strada per la circonvallazione e poco più avanti avranno la salita per prendere il percorso sulle mura», disse uno dei commissari.
«Sono d’accordo», affermò il presidente, «Però quei solchi lasciati dai carri sono molto profondi e questo fondo stradale non mi sembra il punto migliore per dare la partenza».
«Non si preoccupi signor presidente: domani mattina, di buon ora, ci sarà qui una squadra di braccianti del Borgo per sistemare il fondo, dandogli anche una rullata. Al momento della partenza sarà come un biliardo».
«Cosa pensate?», intervenne Sandrino, uno dei consiglieri. «Non sarebbe opportuno dare due partenze per differenziare due categorie di velocipedi in relazione all’altezza della ruota motrice? In Francia già lo fanno e la cosa sembra essere molto gradita».
«Non preoccuparti», rispose il presidente. «Hai mai visto uno dei nostri soci o anche un corridore scegliere un velocipede più basso di quello che gli permette la gamba? Vedrai che tutti arriveranno con la ruota più alta che possono, poi se uno è piccolino di statura non sarà mica colpa degli organizzatori». Tutti sorrisero alla battuta a eccezione di Sandrino, la cui altezza superava di poco il metro e mezzo.
«Preocupét no, Sandrin, che tant ti te curét minga!», esclamò il presidente e allora anche sul viso di Sandrino comparve un sorriso.
Il gruppo si avvicinò agli operai che stavano pesantemente martellando sulle assi per realizzare la tribuna destinata alle autorità e agli ospiti davanti alla quale sarebbe stato collocato l’arrivo. Subito, un uomo piuttosto tarchiato, vestito con un paio di pantaloni di pesante fustagno, un maglione di lana grezza e un gilet di velluto marrone scuro, lasciò il lavoro e, togliendosi il berretto, si avvicinò al gruppo dei velocipedisti dicendo: «Buongiorno signor presidente, abbiamo appena iniziato a mettere le assi, penso che per la metà pomeriggio sarà tutto finito».
«Mi raccomando», rispose quest’ultimo, «che al centro della tribuna dovrà esserci una specie di balconcino dove metteremo le poltrone per il Prefetto, il Sindaco e le loro consorti. Fate attenzione a mettere delle balaustre solide e soprattutto ricordati che domani mattina su tutto l’andito più basso ci dovrai mettere una passatoia in “Pezzot Valtelinées” su cui andranno appoggiate le poltrone. Sbagliét minga, me racumandi!».
Con i bicicli a mano fecero il giro del piazzale per verificare la linea migliore da tenere in partenza, per poter così dare qualche consiglio ai corridori. Poche decine di metri dopo, nella via verso Porta Tosa, entrarono nell’ampio androne dei Bagni Diana, dove appoggiarono i bicicli al muro. I bagni erano ancora chiusi, apriranno più tardi. In quel periodo il circolo dei nuotatori era perfettamente funzionate ed efficiente perché l’ampia piscina ghiacciata veniva utilizzata per lo schettinaggio. L’altro consigliere, che era socio di quel circolo, li invitò a sedersi al tavolo e li convinse a ordinare un Elisir al Borducan, un nuovo elisir a base di arance che veniva prodotto a Varese nei pressi del Sacro Monte. «Molto buono!», disse il presidente sorseggiando il liquore. «Potremmo organizzare in estate una bella gita a Varese, e se non ce la faremo a salire al Sacro Monte con i velocipedi noleggeremo un Omnibus».
Discussero ancora un poco dei problemi che avrebbero potuto avere alla partenza e uno dei commissari disse: «Come le dicevo, signor presidente, sarebbe opportuno inserire nel regolamento l’obbligo di indossare delle maglie colorate, come quelle dei fantini, affinché il pubblico possa identificare i corridori anche da lontano senza bisogno di guardarli in faccia o di leggere il numero sul bracciale. Pensate che a Parigi ci sono così tanti partecipanti che se non comunicano con largo anticipo i colori delle maglie non vengono ammessi alla partenza. Addirittura, ci sono velocipedisti che hanno in dotazione maglie di diversi colori per evitare di non essere ammessi e spetta agli organizzatori confermare i colori con cui correranno».
«Ma qui a Milan non abbiamo quei problemi, i partecipanti non sono molti. Però l’idea della maglia per identificare il corridore a la mé piaas un bot!», chiosò con un gran sorriso il presidente.
Uscirono, presero i loro velocipedi e pedalarono per i tre chilometri e mezzo passando per via Senato arrivando alla Piazza d’Armi, dietro al Castello Sforzesco e poco lontano da Porta Tenaglia.
Discussero su dove mettere il servizio d’ordine perché in Piazza d’Armi era previsto il maggior assembramento di pubblico. Purtroppo la vicinanza della caserma portava con sé molti cani randagi, che erano un pericolo per i velocipedisti.
«Domani bisognerà che il servizio d’ordine stia molto attento perché qui abbiamo molti problemi per la sicurezza dei corridori», disse un commissario. «Ci sono i carretti provenienti dal Borgo degli Ortolani che potrebbero intralciare il passaggio da Porta Tenaglia. Inoltre, ci saranno da allontanare un po’ di cani».
«Certo», rispose il presidente. «Però all’ora dell’arrivo dei corridori tutti gli ortolani saranno già passati e non saranno di nessun intralcio. Per i cani, i nostri soci che faranno il servizio d’ordine saranno muniti di revolver a salve così vedrà quei randagi come se la daranno a gambe!»
«A proposito», continuò il presidente rivolgendosi ai due consiglieri, «avete visto che bel percorso che abbiamo fatto per venire qui? Via Senato è proprio bella. Se la corsa di domani andrà bene, potremmo proporre una gara in linea da Porta Venezia a Porta Tenaglia, così el Siür Sindec si convincerà che i velocipedi non sono pericolosi».
«Mi sembra un’ottima idea», rispose uno dei consiglieri. «Così potremmo passare dal centro de Milan senza girarci intorno come domani. Sperem che el Bellinzaghi el fasa no el bislach e el me dia minga i permès!».
Domenica 8 gennaio: il giorno della gara
Alle sette del mattino un “brum”, la carrozza del servizio pubblico milanese, attraversò Porta Venezia fermandosi vicino al gruppetto di uomini che stanno sistemando il fondo stradale. Alcuni di essi erano impegnati a tirare, con l’ausilio di stanghe e bretelle in cuoio, un pesante rullo di pietra serena. Il presidente scese dalla carrozza e si rivolse subito agli uomini: «Chiudete bene quei maledetti solchi che sembrano fatti con l’aratro. Poi, mi raccomando, togliete tutte le pietre e i sassi più grossi lungo la strada, sia di là verso la strada di Circonvallazione che di qua verso Porta Nuova».
La gara sarebbe iniziata solo alle 14.30 ma il presidente non aveva chiuso occhio tutta la notte, pervaso da quello strano sentimento di preoccupazione ed entusiasmo che si impossessa di ogni organizzatore alla vigilia di un evento. Quel giorno si sarebbe svolta una delle prime corse italiane di velocipedi: «Solo quei maledetti fiorentini», aveva pensato, «hanno già fatto una gara undici mesi fa, ma si sa Firenze l’è la capital ah no, l’era giamò la capital, perché adèss la sarà Roma. Facil per chèi tuscaan, cun tüti i diplumatic che i tégn, vègn a dìi che i ga fat la gara intenaziunaal, ma Milan a l’è semper un grand Milan e el pö no sta indrée!».
Così alle cinque e mezza era già di passaggio nella cucina, cosa inusuale per lui, dove la Rosina, l’anziana cuoca, nel vederlo a quell’ora e in quel luogo, aveva spalancato gli occhi e subito si era precipitata a mettere il bricco del latte e il tegamino del caffè sulla stufa, che già funzionava a pieno regime. Aveva fatto colazione assorto nei suoi pensieri, pervaso da quei due opposti sentimenti, più passavano le ore e più la preoccupazione sembrava prendere il sopravvento sull’entusiasmo. Quando era uscito di casa, verso verso le sei, era ancora buio, e aveva camminato di buon passo sino davanti alla Ca’ Granda, dove sapeva che anche a quell’ora avrebbe trovato una carrozza. Salendo, aveva ordinato al brumista di portarlo a Porta Venezia.
Intanto sulla piazza erano arrivati anche i carri con i loro carichi di stoffe e con la passatoia da mettere sull’assito, dove le autorità si sarebbero sedute sulle poltrone che, in quel momento, si trovavano ammonticchiate sul secondo carretto. Il Sole ormai si intravedeva tra i filari degli enormi e lontani pioppi che chiudevano la linea dell’orizzonte dietro i caselli del dazio. Il cielo stava perdendo piano piano la sua dominante rosa per prendere quella di un azzurro tenue, il freddo era intenso e l’aria piuttosto secca. Sull’erba, ai margini della strada e sulle rive della Gerenzana, persisteva ancora la galaverna.
Arrivarono altri sei consiglieri, anche loro molto in anticipo rispetto all’ora della riunione fissata per le dieci al circolo del nuoto. Essendo tutti presenti decisero di anticiparla, così già prima delle nove e mezza erano tutti seduti in una saletta riservata del circolo che presentava, sulla la parete di fondo, un grande dipinto di un nuotatore in costume a righe nell’atto di lanciarsi per il tuffo, cosa che certamente strideva con il freddo che ancora tutti sentivano nelle ossa. Ordinarono subito sette punch all’arancia caldissimi.
Passarono in rassegna i punti critici dell’organizzazione. I consiglieri avrebbero poi raggiunto Porta Romana, Porta Ticinese, Porta Vercellina, Porta Comasina, Porta Tenaglia e Porta Nuova, da dove ognuno di loro avrebbe gestito, con l’aiuto dei soci e dei volontari, la parte concordata del percorso.
L’ordine generale era quello che ognuno avrebbe dovuto prendersi in carico un tratto del percorso per tenerlo pulito dalle pietre, dai sassi più grossi e allontanare i cani randagi, ma soprattutto stare attento che nell’imminenza del passaggio dei corridori la sede stradale fosse sgombra dalle persone.
Prima di lasciarsi, si abbandonarono a qualche considerazione e uno dei consiglieri suggerì: «Presidente, dobbiamo imitare i francesi: sa che per avere tanto pubblico fanno correre anche le donne, dicono sia uno spettacolo!».
«Giacumin, se facciamo una cosa del genere a Milan riceviamo la scomunica papale. Già il sindaco ci ha cacciati dal centro città, se poi facciamo correre le donne ci tiriamo addosso anche l’Arcivescovo Calabiana. No! Lasa stàa e tirem innanz».
Uscirono per salire sui due landò che, per l’occasione, avevano gli attacchi di un tiro a quattro cavalli, in modo da poter salire sui bastioni. Per abbreviare i tempi, sarebbero partiti nelle due direzioni opposte, l’uno verso Porta Tosa e l’altro verso Porta Nuova. Il presidente si sarebbe fermato a Porta Venezia assieme a Sandrino e ad altri volontari.
Appena varcata la porta per uscire sulla piazza il presidente sbiancò in volto: nell’aria aleggiava un denso fumo tipico del fuoco che si stava attizzando. Tutta la strada era occupata da bancarelle e venditori ambulanti. La riunione era durata poco meno di un’ora, ma tanto era bastato perché i commercianti prendessero il sopravvento su tutti gli spazi e occupassero ogni anfratto con le loro mercanzie.
«Aspettate un attimo a partire», disse il presidente. «Datemi una mano a far spostare questa gente altrimenti non avremo spazio per i velocipedi».
Tutti gli ambulanti si dimostrarono collaborativi. Solo il venditore di croccanti e tira-molla si lamentò perché aveva già in cottura i suoi prodotti e spostare le fornacette bollenti era difficoltoso, ma vedendo il presidente adirarsi disse: «Va bene! Va bene! Mi sposto, ma mi faccia mettere là a ridosso degli alberi, così ho più spazio per servire la clientela, perché chi l’è minga na ciribicciaccola ne parlen tüti e ghe sarà pièn de gent!».
A udire quella previsione il presidente si calmò, fece un gran sorriso e con la mano indicò il posto che il commerciante doveva andare a occupare. Proveniente dalla strada Circonvallazione vide arrivare un biciclo montato da un giovane seguito da una carrozza. Quando fu vicino, riconobbe i passeggeri della carrozza: erano Giovanni Greco e la moglie, mentre il biciclo era guidato dal figlio Luigi. Greco era il titolare dell’unica fabbrica di bicicli degna di questo nome a Milano.
Giovanni scese dalla carrozza e si accinse a salutare il presidente con una cordiale ed energica stretta di mano: «Buona giornata signor presidente» disse l’imprenditore. «Bella giornata e bella idea quella di fare una corsa. Per l’occasione ho fatto questo biciclo e l’ho dipinto coi colori di Milano».
«Signor Greco», rispose il presidente, «mi aspettavo che qualcuno di voi, magari suo figlio Luigi si iscrivesse, invece…».
«Eh, vede, il problema sono le madri: mio figlio e io abbiamo fatto di tutto per cercare di convincere mia moglie che queste gare non sono pericolose, ma ghè minga stat vèrs, la signora ha detto che prima di dare il suo assenso voleva vedere cume fan già mò a cür e allora eccola là la mia consorte in funzione di osservatrice!». Così facendo indicò in direzione della carrozza una signora vestita con una pesante gonna in velluto blu ricca di nastrini color ocra, lo stesso colore del corsetto pesante sotto al quale si intravedeva una camicetta bianca dal collo alto finemente ricamato di blu. Sopra portava un’ampia mantellina di pelliccia di martora che dalle spalle scendeva fino appena sotto i fianchi.
«Però siür Pesident», disse Greco, «guardi che velocipede che abbiamo fatto da mettere qui in mostra. Telaio di basso spessore ma con acciaio temprato, sella imbottita di crine, manopole in legno rivestite in pelle, catenella per l’azionamento del freno e repos pied avanzato per una migliore distensione delle gambe. Poi guardi che bei colori, lo abbiamo dedicato a Milan».
Il biciclo era dipinto con i colori di Milano: il telaio bianco e i filetti color rosso vivo come i raggi delle ruote mentre i cerchi e i mozzi erano rossi con dei filetti bianchi. Al presidente venne una irresistibile voglia di provarlo ma l’abbigliamento che indossava non gli permetteva di osare tanto.
«È splendido, verrò a trovarla per provarlo», disse. «Però mi deve promettere che alla prossima gara suo figlio Luigi si iscriverà, so che ha una buona gamba».
«Sperem», rispose Greco, «ma ghè tüt in de li man de la mi miée». Così dicendo portò la mano al cappello accennando a un reverenziale saluto.
A mezzogiorno tutti i velocipedi in gara, assieme a quello di Greco, erano già schierati in mostra nell’ampio spazio davanti ai Bagni Diana, ognuno appoggiato a un cavalletto di legno costruito per l’occasione.
I corridori iscritti erano: Belloni Felice, Belloni Giovanni, Bagatti Valsecchi nob. Giuseppe e suo fratello nob. Fausto, Borromeo conte Federico, Pasta Giuseppe, Verga Cesare, Andreoli Mosè, Ascoli Giulio, Poli Carlo, Negretti Duilio, Rizzini Piercarlo. I due fratelli Conti Bagatti Valsecchi avevano due bicicli Michaux & C.ie con la ruota anteriore di 90 cm che, come recitava la targa in ottone, erano stati costruiti a Parigi in Rue Montaigne, uno di colore giallo e filetti blu e l’altro verde con filetti rossi. Il Conte Fausto era quello tra i due fratelli che si interessava alla cura dei mezzi, infatti con gesti quasi cerimoniosi andava ogni tanto a prendere l’ampolla dell’olio dalla loro carrozza-appoggio e lo metteva con cura nell’oliatore del mozzo anteriore.
Altro modello francese era il Poncet presentato dal conte Borromeo. Con la ruota anteriore di 95 cm e quella posteriore di 89 era senza dubbio il più imponente di tutti, aveva un bel colore rosso scuro con filetti neri, e il comando del freno veniva trasmesso a mezzo di una catenella a differenza di tutti gli altri che avevano il cuoio o la corda. Inoltre, presentava un parafango alla ruota anteriore. Ma la finezza assoluta stava nella sella sul cui cuoio era impresso lo stemma nobiliare di famiglia.
Andreoli avrebbe usato il suo velocipede Bennon anch’esso di colore rosso. Un velocipede Greco era invece quello usato da Giuseppe Pasta, di colore azzurro chiaro con filetti blu.
I fratelli Giovanni e Fausto Belloni si presentavano con i bicicli realizzati a Milano dalla ditta del padre Francesco, entrambi di colore giallo ocra senza filetti e muniti di parafango alla ruota anteriore di 95 cm di diametro.
Ascoli aveva un biciclo dei Fratelli Galletti di Verona di colore blu. Il biciclo montato da Verga era un Gallizio di Firenze di colore verde chiaro per il telaio e dalle ruote marroni, l’anteriore di 95 cm. Il suo proprietario, da quando era arrivato, non aveva mai abbandonato il velocipede e a tutti quelli che si avvicinavano descriveva i particolari del suo mezzo, concludendo puntualmente con: «È uguale a quello del Re!».
Poli, proveniente da Crema, esibiva un velocipede Vellani costruito a Modena; Rizzini di Cremona ne aveva uno costruito dal torinese Challiol; Negretti, proveniente da Como, aveva un Bestretti costruito a Monza.
Tutti erano venuti per prendere parte a quella che sarebbe stata la prima gara velocipedistica a Milano: un vero evento storico di cui volevano assolutamente essere protagonisti.