«L’Inferno è qui. Irreale. Fantastico. Ha il profilo di una montagna che sorge in una Siberia infinita.
Le bolge sono strisce d’asfalto, di neve, di vento. I dannati vanno a pedali nella tormenta. Sono spettri che si muovono senza densità e senza contorni. Ieri l’immensità del Giro è rimasta sospesa tra la gloria e la tragedia. E la nostra, per una volta, è una cronaca dell’Inferno».
Così iniziava l’emozionante articolo di Claudio Gregori sulla Gazzetta dello Sport del 6 giugno 1988. Il giorno prima si era disputata la Chiesa Valmalenco – Bormio, la quattordicesima tappa del 71° Giro d’Italia, la frazione più epica e drammatica della Corsa Rosa di tutto il Secondo Dopoguerra. La minuziosa descrizione degli eventi che precedettero e caratterizzarono la terribile giornata è fatta dal giornalista Giacinto Bevilacqua nel libro “La leggenda del Gavia”, pubblicato da Alba edizioni.
La prima volta che il Giro d’Italia scalò il Passo del Gavia, che unisce le province di Sondrio e di Brescia a 2618 metri di altitudine, fu l’8 giugno 1960 con il francese Jacques Anquetil in Maglia Rosa, lo scalatore Imerio Massignan, detto “Gamba secca”, sfortunato eroe appiedato da una doppia foratura in discesa e il lussemburghese Charly Gaul trionfatore a Bormio. La Corsa Rosa ritornò sul Gavia l’anno successivo, esattamente il 10 giugno 1961, in occasione della penultima tappa Trento – Bormio. O almeno ci provò, visto che a causa della neve i corridori non attraversarono più quel passo che venne sostituito dallo Stelvio.
Forse a causa di quella lezione impartita dal meteo, trascorsero ben 27 anni prima che gli organizzatori del Giro d’Italia decidessero di riprovarci. La Corsa Rosa del 1988 avrebbe voluto omaggiare la Valtellina, territorio tragicamente colpito dall’alluvione del luglio 1987 che provocò una serie di disastri naturali e la morte di 53 persone, lo sfollamento di migliaia di residenti e danni per circa due miliardi di euro. Transitare per il Gavia avrebbe significato riportare l’attenzione degli sportivi di tutto il mondo sulla Valtellina, contribuendo al suo rilancio turistico.
CICLISTI NELLA NEVE
Alla partenza a Chiesa in Valmalenco pioveva e una nevicata aveva imbiancato il Passo Gavia. Il direttore di organizzazione Vincenzo Torriani effettuò le dovute verifiche e garantì che non sussistevano ostacoli al transito sul Passo. Ad animare la tappa nella prima parte ci pensarono due attaccanti nati come lo svizzero Stephen Joho della Ceramiche Ariostea e il veneziano Roberto Pagnin della Gewiss – Bianchi. Alle prime pedalata verso il Gavia si staccò Joho, quindi rallentò Pagnin e dalle retrovie emerse a tutta l’olandese Johan Van der Velde in maglia ciclamino a maniche corte.
Il “tulipano” della Gis Gelati Ecoflam, leader della classifica a punti, si lanciò verso l’ignoto imboccando la nebbia mista a pioggia. Nemmeno la neve, che più in alto cadeva copiosa, risvegliò Van der Velde dalla tranche agonistica. Al GPM del Gavia il termometro segnava -5°C e l’olandese si gettò a capofitto in discesa senza berretto senza occhiali senza gambali senza mantellina. La discesa, buia, sterrata e senza guard-rail, si trasformò in una via crucis di fango scivoloso così Van der Velde a un certo punto sparì. Ricomparve solo dopo 45’ trascorsi nel camper di un tifoso che lo salvò dall’assideramento.Per la cronaca la tappa la vinse un altro olandese, Erik Breukink (Panasonic), e in rosa finì l’americano Andrew Hampsten (7 – Eleven) che finirà per vincere il Giro d’Italia.
Quante tragedie si consumarono nella discesa del Gavia? Almeno 139, quanti furono i ciclisti contati all’arrivo di Bormio. La giuria elevò ben 32 sanzioni, anche se nell’invisibilità più di un corridore accettò passaggi motorizzati per salvare la pelle. Il resto è colmato dagli incredibili ricordi dei “sopravvissuti” del Gavia, dalla maglia bianca Franco Vona della Chateaux d’Ax («Scesi più volte di sella nel tentativo disperato di riscaldarmi, facevo le flessioni, provavo a frizionarmi: i colleghi che mi passavano avranno pensato di vedere un matto. In camera trovai il mio compagno di stanza Ennio Vanotti che, sebbene già in pigiama, continuava a tremare dal freddo a tal punto da non riuscire a infilare il phon nella presa elettrica») al velocista Silvio Martinello dell’Atala («Non si riusciva a indossare gli occhiali per cui dovemmo percorrere la discesa del Gavia con una mano sulla fronte, per ripararci dalla neve, e con l’altra sul manubrio. Vidi corridori risalire dalla disperazione: tornavano indietro non riuscendo a fare la discesa! Se qualcuno, bloccato dal freddo, fosse precipitato in un burrone, non lo avrebbero trovato più») al fotografo Roberto Bettini («Non c’erano le macchine fotografiche digitali allora. Quando la situazione si fece più critica, a causa del congelamento delle dita non riuscii a cambiare il rullino così di quella tappa mi sono rimasti solo pochi scatti. Dopo il traguardo, scesa la tensione, nonostante fossi protetto adeguatamente dal freddo, partii a battere i denti e non riuscii a calmarmi»).
E ancora Renato Piccolo, Ennio Salvador, Roberto Pagnin, Marco Giovannetti, Marino Amadori, Sylvain Lorenzon, Giampaolo Fregonese tutti testimoni della “leggenda del Gavia”.