Riprendiamo il discorso iniziato sullo scorso numero per completare la sorprendente storia delle prime applicazioni meccaniche che hanno permesso al velocipede la sua rapidissima affermazione.
Gli anni che vanno dal 1865 al 1900 costituiscono il periodo d’oro dell’evoluzione, passando dal telaio forgiato e ruote in legno al telaio tubolare, regolare e ruote a raggi in ferro. Furono 35 anni vissuti di corsa con continue innovazioni e miglioramenti. Viene quasi da sorridere se pensiamo che in fondo è un lasso di tempo uguale a quello trascorso fino a oggi dalla presentazione del Macintosh Apple, il primo personal computer.
Come abbiamo già detto tutta la ricerca è sempre stata applicata per soddisfare l’esigenza di rendere più facile l’uso del velocipede, per aumentarne la fruibilità e portarlo verso un utilizzo sempre più generalizzato.
La ruota si trasforma
Le prime ruote, in particolare quelle sulle draisine ma anche quelle montante sui velocipedi degli Anni ’60 dell’800, avevano sia il mozzo che i raggi in legno. Sulla draisina le ruote presentano una sola fila di raggi con il cerchio esterno in ferro, praticamente identiche a quelle dei carri e dalle carrozze, anche se Karl von Drais, da agronomo qual era, consigliava l’utilizzo di tipi diversi di legno per le loro caratteristiche fisiche: l’olmo e il castagno erano adatti ai mozzi mentre per i raggi erano ritenuti ottimi l’acacia, il frassino, il rovere. La caratteristica delle ruote delle michaudine è quella di avere i raggi collaboranti sul mozzo disposti in modo alternato su due file.
Già prima della fine del decennio le ruote in ferro stanno soppiantando le ruote in legno soprattutto in Inghilterra. Per diversi anni ci fu una coesistenza tra le ruote di legno e quelle di ferro dovuta ai detrattori delle ruote in ferro che le giudicano poco elastiche ma soprattutto non facilmente riparabili in caso di rottura. Poi, con il primo brevetto di Louis Gonel del 1867, riproposto specificatamente per i velocipedi nel 1869, nasceranno i raggi ricavati dal filo di ferro filettato ed imbullonato ad un mozzo e ad un cerchio. Si avrà così la ruota che lavora in tensione e che, come abbiamo già raccontato su questa rivista, sarà una vera rivoluzione per le sue incredibili doti di leggerezza e robustezza.
Alla fine degli Anni ‘60 la ruota muta anche il materiale di rivestimento della sua circonferenza, dal momento che il piattino di ferro viene sostituito con il piattino di gomma vulcanizzata brevettata da Charles Goodyear nel 1844. Dalla metà degli Anni ‘70 verrà applicato il tubolare in gomma vulcanizzata alloggiato in un cerchio di ferro concavo.
Nel 1874 James Starley, il geniale costruttore di Coventry, depositerà il proprio brevetto dei raggi tangenti (patent n. 3959) che monterà sul suo modello Ariel. La ruota smetterà presto di essere a raggi radiali acquisendo ulteriore rigidità in quanto meglio sopporta le forze di spinta.
La ruota diventa libera
La pedivella solidale al mozzo comportava alcune rilevanti scomodità. Innanzitutto, l’obbligo della pedalata continua senza la possibilità di fermare le gambe per sfruttare la forza inerziale del mezzo. In caso di discesa, poi, si doveva staccare i piedi dalle pedivelle portando le gambe in avanti per appoggiarle al così detto “répos pied”, il supporto a “T” posto sopra la ruota anteriore. Soprattutto questa seconda difficoltà provocava rovinose cadute a causa della posizione assolutamente innaturale per la guida del velocipede.
I primi a teorizzare la possibilità di sganciare il movimento della pedivella da quello del mozzo furono gli inventori parigini Combes et Cecker (brev. 82711 del 30 sett. 1868) senza però dare espresse soluzioni tecniche. Si deve a François Nicolet (brev. 85439 del 15 maggio 1869) la realizzazione del meccanismo della ruota a cricco con dente di arresto liberando così i pedali dal movimento del mozzo. Suriray, titolare dell’omonima azienda produttrice di velocipedi di Parigi, otterrà anch’egli il brevetto per il mozzo a ruota libera il 2 agosto 1869 (brev. 86680) con un meccanismo del tutto identico a quello di Nicolet ma con l’unione di un’altra innovazione, come vedremo più avanti.
Sta di fatto che la stampa specializzata dell’epoca salutava con entusiasmo questa invenzione, tant’è che la rivista La Navette scriverà sul numero del 15 agosto: “Così se il velocipede è fortemente lanciato oppure se percorre un piano inclinato, con la conseguenza che non ci sia bisogno di utilizzare i pedali, i piedi restano immobili sui pedali e la ruota motrice gira follemente sul suo asse”.
Il rotolamento a sfere
Già da tempo era conosciuto il principio che il rotolamento a sfere fosse molto efficace per superare l’attrito ma non vi erano ancora state delle applicazioni meccaniche. Sarà un certo Fournier di Metz a ottenere, nell’ottobre del 1867, il brevetto n. 77887 per un sistema di cuscinetti destinato a sostituire le boccole per gli alberi di trasmissione. Il brevetto reca però delle descrizioni troppo generiche e non fa riferimento all’impiego specifico sui velocipedi. Fournier sarà comunque presente alla esposizione di Carcasonne del luglio del 1870 con un velocipede con movimenti a cuscinetti.
La definizione generica utilizzata da Fournier nella sua richiesta di brevetto, permetterà a Suriray, che sappiamo essere anche lui tra gli espositori a Carcasonne, di brevettare il movimento a sfere con il brevetto 86680, lo stesso della ruota libera, che guarda caso porta la data del 3 agosto. In effetti Suriray presenta il brevetto di un mozzo innovativo che, oltre ad avere il movimento a ruota libera con il sistema della ruota dentata e del cricco, ha le sfere annegate in due semi-scanalature, ricavate nelle due parti collaboranti, che servono a contenere le sfere.
Quasi immediatamente dopo l’applicazione delle sfere al mozzo anteriore Suriray provvederà ad utilizzarle anche per rendere più agevole lo sterzo formando le scanalature nel manicotto.
I primi ingrassatori
L’esigenza di lubrificare le parti in movimento al fine di ridurre l’attrito ma anche l’usura delle parti in sfregamento è sempre stata di primaria importanza. Già sui primi velocipedi tipo Michaux compaiono dei tentativi di far circolare l’olio sulla parte centrale del movimento, ovvero il mozzo della ruota anteriore. Sulle forcelle dei telai dritti gli ingrassatori erano nascosti, per ragioni di estetica, all’interno della forcella, ed erano costituiti da un serbatoio munito di piccolo rubinetto da aprirsi all’occorrenza per regolare la caduta del lubrificante. Sui telai curvi l’oliatore era invece ben in vista sulla parte anteriore della forcella, ciò permetteva di avvicinarsi di più al mozzo con evidente miglioramento della precisione della lubrificazione ma sempre con funzionamento manuale.
L’esigenza principale era dunque quella di eliminare l’intervento manuale per provvedere alla lubrificazione: tre furono essenzialmente le strade percorse per ottenere l’ingrassaggio automatico. Favre, Guigue e i fratelli Perrousset (brev. 81583 del 24 giugno 1868), progettisti di Lione, concepirono degli ingrassatori incorporati nel mozzo, con un sughero galleggiante mosso dalla forza centrifuga del mozzo. L’altro sistema di un certo Poncet (brev. 85953 del 6 luglio 1869) consiste in un serbatoio applicato al centro del mozzo ma non si comprende come fosse regolata la fuoriuscita del lubrificante
Il sistema che più si avvicina agli oliatori che siamo abituati a vedere sulle nostre biciclette d’epoca è quello derivante dal brevetto 85764 del 16 gennaio 1869 di Beaulavon, costruttore parigino, che concepì un mozzo con un asse centrale cavo riempito di olio il quale fuoriusciva da alcuni fori praticati nelle vicinanze del punto di attrito per effetto della forza centrifuga quando il velocipede era in movimento.
Il differenziale
A questo punto dobbiamo sforare di due anni da quel decennio 1865 – 1875, che ci eravamo prefissati di analizzare, però l’informazione è troppo ghiotta per tacerla. Uno dei meccanismi che hanno permesso l’evoluzione dell’auto è senza dubbio il differenziale, il quale permette alle ruote, vincolate dai semiassi della trasmissione, di differenziare la velocità di rotazione tra la ruote interna, più lenta, e quella esterna alla curva, che gira più veloce. Ebbene, il differenziale nasce proprio sui velocipedi o meglio sui tricicli. È un’altra geniale invenzione di James Starley, che nel 1877 lo applicherà al triciclo che viene battezzato “Salvo”, forse per sottolineare che nonostante quelle grandi ruote non c’è da temere nessuna caduta, l’evento certamente – ora come allora – più drammatico per il velocipedista.