Cambiago, in una mattina d’inverno, è avvolta dalla nebbia come non se ne vede più così spesso in val Padana. Un nebbia pitturata, leggera ma densa, che trasuda dalla terra e rimane lì, sospesa sopra i campi che riposano in attesa della primavera.
Cambiago è ancora “tutta campagna”, o quasi. Dagli Anni ’30 a oggi la popolazione è raddoppiata, ma fino al Duemila questo paese è rimasto più o meno con gli stessi abitanti, come se non fosse stato toccato dal boom del Dopoguerra e dalla grande industrializzazione del Paese.
Eppure, già dagli Anni ’50, in questa terra scura e prodiga è stato gettato il seme di un’azienda che avrebbe generato un fiore bellissimo, destinato a essere conosciuto il tutto il mondo e a rivoluzionare più volte la bicicletta sportiva. Quel fiore è l’Asso di Fiori e a seminarlo è stato l’uomo a cui tutti i ciclisti sportivi devono moltissimo. Un uomo dal fisico non imponente, ma che emerge nella storia del ciclismo con la grandezza di un gigante grazie a una serie d’innovazioni epocali e di successi sportivi che nessun altro può vantare. Quest’uomo è Ernesto Colnago, patrimonio del ciclismo e dell’umanità.
Colnago ha una storia lunghissima che parte dal 1932, quando viene al mondo, e che da lì in poi è impossibile da arrestare, incessante esattamente come durante lunga intervista che ci ha concesso il giorno di Sant’Ambroeus nella sua azienda, dove lavora ancora oggi. Parla e scrive, Ernesto Colnago, traccia disegni su un foglio, spiega geometrie e idee. Mescola italiano e dialetto come tutti i figli della sua epoca. Si accende sfogliando la nostra rivista e rivedendo con i suoi occhi il secolo di storia che ha alle spalle e che ha fortemente contribuito a plasmare. Cose di cui – parola sua – non gli chiedono ormai poi così spesso.
Da dove parte la storia di Ernesto Colnago?
Io vengo da una famiglia di contadini e a casa mia c’era tanto rispetto. Mio padre, che è stato militare come attendente dei conti Carli, era una figura di riferimento per la nostra comunità rurale. Qualche volta era uno che ne sapeva qualcosa più degli altri, come quando c’era da far nascere un vitellino di notte e lui andava gratuitamente ad aiutare. Pazienza e onestà sono le due virtù che mi ha insegnato. Virtù da portare avanti sempre, non solo quando era facile. In casa aiutavamo tutti. Io ero quello che dopo la scuola si occupava delle mucche, anzi della mucca, perché di otto che ne avevamo ne era rimasta una, le altre ce le avevano portate via. Ma andare in campagna non mi piaceva. Qui in paese c’era un piccolo negozio, di un certo Fumagalli, dove si facevano riparazioni per gli abitanti del paese, così mi mandarono lavorare lì. Era un modo per tenermi impegnato e imparare un mestiere. Non è che mi pagavano, anzi: dovevo portare io due chili di farina gialla ogni due giorni per ricambiare. A tredici anni avevo già in mano il cannello per saldare. Gh’eran minga i mascherin e tucc chi robb lì.
E come arriva, poi, la bicicletta?
Un giorno però, andando all’oratorio, vedo un cartello con scritto: “cercasi ragazzi per lavorare in fabbrica”. Era il 1945, gli uomini erano via per la guerra e le aziende assumevano i giovanissimi. La fabbrica era la Gloria di Alfredo Focesi, in viale Abruzzi 42 a Milano, che in quel momento faceva la Garibaldina, la bicicletta più bella del mondo. Ma disen: «oh quanti ann te ghe?». E mi: «Tredas». Falsificammo i documenti per dire che ne avevo quattordici, altrimenti non avrei potuto lavorare.
Mi sono presentato con un pastrano grigio verde che mio zio aveva portato a casa dalla Russia. Mia mamma aveva tagliato le maniche per farmelo andare bene e non arrivavo alle tasche. Il capoofficina dei telaisti, che si chiamava Brambilla, mi prende a lavorare. All’epoca si lavorava a cottimo, per spingere la gente a fare di più, e allora ci siamo messi a saldare i telai in due, io e un certo Sozzi: io lo mettevo sul tavolo e lui lo saldava. Era il 25 novembre 1945, il giorno di Santa Caterina, e nevicava. Mi sembrava di essere Charlot in “Tempi moderni”.
Il giorno dopo torno al lavoro. Passa vicino a me un altro ragazzo più grande che mi dà un calcio nel sedere e io per gioco gli corro dietro. Avevo tredici anni. Quando torno al banco, il Sozzi, che l’era un sacrament, per punizione mi passa la fiamma ossidrica sulla mano. «Al sa guarda minga in gir!», mi urla. Tutti gli operai accorrono, mi medicano con il poco che c’è, ma la mano è ustionata.
Torno a casa e mio padre mi chiede cos’ho fatto. «Eh», gli dico, «non sono stato attento». «Ma il lavoro ti piace?». «Sì?». «Allora la prossima volta stai più attento». Fine della lezione, allora si usava così.
Però la verità è che non volevo più stare lì a lavorare giù da basso. Dopo sette o otto giorni conosco Angelo Righi, caporeparto del piano di sopra, che ha saputo della mia mano e mi chiede se voglio andare a lavorare con lui. «Sa muntan i biclett», mi dice. Vado. A diciotto anni ero già diventato capogruppo del montaggio.
Finché non capita il famoso incidente in occasione della Milano – Busseto…
Era il ’51, pochi giorni dopo aver fatto la festa del diciottesimo con i coscritti, alla fine della gara – perché correvo con i dilettanti – mi scontro dopo l’arrivo con uno con il Guzzino. Mi aspettano quaranticinque giorni a casa con la gamba bloccata. Cosa facevo, a vent’anni, tutto quel tempo? Allora ho mandato un biglietto alla Gloria chiedendo se potevano mandarmi a casa delle ruote da montare e centrare. Accettano. Dopo qualche giorno arriva un motocarro che ci riempie la casa di cerchi, mozzi e raggi. Mi metto al lavoro e in cinque giorni guadagno più a montare ruote e a centrarle che in un mese di fabbrica. È in quel momento che decido di mettermi in proprio e stare a casa. Chiedo il permesso a Focesi, che all’inizio è scettico ma poi lo convinco perché gli dico che non voglio soldi. L’accordo è questo: io gli monto venticinque Garibaldine al mese e lui, come pagamento, mi dà tutti i pezzi di ricambio che voglio per riparare le biciclette dei contadini e dei corridori della zona. Conviene a entrambi. Così è finita la mia esperienza alla Gloria ed è iniziata la mia carriera di imprenditore.
Il merito, a ben guardare, è stato di quel ragazzo che mi ha dato il calcio nel sedere: si chiamava Ernesto Formenti e nel 1948 ha vinto l’Oro alle Olimpiadi di Londra, nella boxe. Con noi in fabbrica c’era anche il figlio del portinaio di via Abruzzi 42: si chiamava Giamaria Volontè, ed è diventato uno dei più grandi attori italiani di sempre.
Poi, nel ’55, arriva l’incontro con Magni e Masi che le ha cambiato la vita.
Lavoravo ma andare in bicicletta piaceva sempre, e quando potevo pedalavo con ciclisti in gamba. Ero amico di Giorgio Albani, un professionista. Un giorno usciamo insieme: ci troviamo a Usmate alle nove. Nel gruppo c’è anche Fiorenzo Magni, un campione che aveva già vinto il Giro d’Italia due volte, uno che metteva soggezione. Ci fermiamo all’abbeveratoio di Tartavalle e lo sento che si lamenta della bicicletta, presa il giorno prima da Faliero Masi. Ha male alla gamba. Il problema erano le pedivelle, delle Magistroni montate male. Oggi è facile, ma in quegli anni lì venivano fissate con delle chiavette che dovevano essere limate per trovare il piano. «Se passa a casa mia gliela sistemo», mi azzardo a dirgli, con Giorgio che conferma le mie doti di meccanico. Lo convinco e Magni decide di venire subito nel mio paese per aggiustarla. Gli sistemo la bici di fronte a tutto il paese incuriosito, dato che la mia bottega era davanti all’osteria, e il gruppo riparte.
Il giorno dopo, con mia grande sorpesa, arriva in paese il massaggiatore di Magni: «Mi ha detto Fiorenzo se domani mattina vai da lui in via Cavallotti a Milano». Ci vado con il Mosquito, un motorino che avevo in società con l’oste del paese: lui lo usava in settimana per lavorare e io la domenica per andare in giro. Magni m’invita in casa sua, parliamo un po’ e poi mi fa un biglietto. «Vai con questo al Vigorelli», mi dice, «e parla con Masi».
Io vado là con il motorino e questo – toscano, di carattere – appena mi vede urla: «Non si riparano motorini! Non si riparano motorini!». Ci metto un po’ a fargli capire cosa voglio e alla fine riesco a dargli il biglietto di Magni: c’è scritto che vuole portarmi al Giro d’Italia! «Figuriamoci!», s’arrabbia Faliero Masi, «ho qui cinquanta ruote da montare e si parte dopodomani per Palermo!». Mi offro di aiutarlo. Ai cinc en quart gli ho montato e centrato quarantaquattro ruote. È così che divento il suo uomo e parto come meccanico di Magni, che alla fine quel Giro lo vince.
Quando diventa telaista e porta le sue idee in gara?
Nel ’57, quando ho fatto il telaio con cui Nencini ha vinto subito il Giro d’Italia, dopo averlo perso nel ’55 per una foratura durante la quale aveva subito l’attacco combinato da Coppi e Magni al San Pellegrino. Rolly Marchi, grande giornalista e personaggio vulcanico, che era stato incaricato dal proprietario della Leocrema, Giovanni Mastracchi, di creare la squadra Leo – Chlorodont, chiese proprio a Magni di diventarne il Direttore Sportivo. Lui accettò e sì portò il suo gruppo, me compreso. I telai della squadra, però, erano fatti ancora con il vecchio stile: nessuno svettamento della sella, carro lungo, manubrio in avanti. Parlo con Gastone Nencini e decidiamo di farlo a modo mio, più compatto. Lo finisco due giorni prima di partire, non faccio nemmeno in tempo a metterci su il marchio della squadra, per cui resta bianco. Arriviamo a Milano vittoriosi. Di lì in avanti mi hanno copiato tutti, facendo un telaio con uguale inclinazione ma più basso e più rigido. Disperdeva di meno e permetteva al corridore di scaricare a terra più potenza.
Masi, Marnati, Drali, De Rosa: eravate in tanti a saper trattare bene l’acciaio, in quel periodo.
L’Italia in quegli anni era il paese del ciclismo. Tutti venivano in Italia a correre perché c’erano lo sviluppo, la creatività, la capacità di fare certi lavori. Cose che oggi la globalizzazione ha cancellato. Allora c’era una grande passione, una costante ricerca delle innovazioni. Una domenica mattina sono venuti qui Cino Cinelli e “Gepin” Olmo per vedere come piegavo le forcelle a freddo. Tutti le scaldavano e non molleggiavano più. Piegate a freddo funzionavano meglio. Poi è arrivato Enzo Ferrari a dirmi che sbagliavo. «Falla dritta», mi diceva, «che lavora meglio». Aveva ragione: l’ho fatta e tutti poi mi hanno seguito.
Cosa ha imparato dal mondo delle corse, lavorando con e per i più grandi campioni?
Io sono stato per tanti anni meccanico, ed erano anni in cui il meccanico non mangiava con i corridori. Si finiva di lavorare alle dieci di sera e poi si doveva andare a cercarsi da mangiare da soli, perché gli altri avevano già cenato. Allora sono andato da Ambrogio Molteni, titolare della squadra, e gli ho detto che non era giusto. Lui mi ha capito e questo ha cambiato le cose in meglio. Da lì in avanti c’è stato un po’ più di rispetto ma non solo: i meccanici a cena potevano parlare con i corridori, c’era confronto, c’era la possibilità di capire cosa non andava bene e la squadra migliorava, si lavorava in maniera più efficace e si trovavano soluzioni ai problemi.
Io ai corridori ho sempre detto la verità. Se era troppo alto non potevo fargli il telaio corto. Dovevo fare le cose giuste. Adesso è tutto diverso. I telai arrivano con misure standard, girano lo sterzo ed è finita così.
Cosa manca oggi rispetto ad allora?
Manca tutto lo studio dietro. Chi ha fatto il primo telaio in carbonio, nel 1985? Chi ha fatto gli studi con il Politecnico di Milano spendendo quasi un miliardo e mezzo di lire? Li ho fatti io. All’epoca facevo il telaio Master che aveva resistenza 80, diciamo. Con il carbonio dovevo farne uno che avesse lo stesso valore, perché se mi dava, per dire, 50 non andava bene. E quindi studi, test, pazienza. Poi avevo il problema di farlo fare come si deve. Provo a chiedere a un dirigente della Ferrari, che conoscevo perché andava in bicicletta, se mi può fissare un appuntamento con Enzo Ferrari. Un uomo dal nome che fa tremare. Andiamo io e Beppe Saronni, al tavolo ci sono lui e il figlio, Piero Lardi Ferrari. Mi chiede cosa sono lì a fare. Gli dico che voglio fare un telaio in carbonio. «Ti ta se matt», mi risponde in dialetto, «son già stati qui altri prima di te e non ci sono riusciti». «Ma qui alter iin graand», gli dico, «mi sun piscinin». In tre minuti gli ho detto quello che volevo e ci siamo capiti. Perché c’è carbonio e carbonio e io sapevo già che avevo bisogno quello in grado di resistere come il Master. Il carbonio va incrociato nel modo giusto, con strati di qualità, altrimenti non funziona.
Ma come le è venuta l’idea del carbonio?
Cercavo la leggerezza e il limite tecnologico. Ho iniziato a fare i telai l’alluminio ma lo volevo bello. Per farlo giusto ho mandato gli operai a Genova a imparare a saldare nel modo giusto. Poi ho fatto il titanio unito con le congiunzioni di alluminio e dopo sono passato a usare i tubi in carbonio. A quel punto mi mancava di trovare il modo di fare anche le congiunzioni. Alla fine ce l’ho fatta.
Cosa l’ha spinta sempre a voler innovare così tanto?
Il desiderio di essere il meglio. Le mie biciclette non dico che siano di lusso, ma vogliono essere il massimo perché il massimo è quello che cerchiamo. Adesso stiamo facendo delle corone in carbonio, per dire. È una questione di idee che poi diventano realtà. Parto dagli schizzi, poi cerchiamo di trovare le soluzioni facendo tutti i test.
Lo scopo è sempre risolvere i problemi che si hanno andando in bici. Faccio un esempio. La pedalata è rotonda e insiste sui due pedali. Dove c’è lo sforzo maggiore? Tanti pensano sul destro, dalla parte delle corone, invece è il sinistro, perché sforza sul perno del movimento centrale, che fa da braccio. Quando il povero Laurent Fignon è caduto alla Parigi – Roubaix e ha rotto la spalla, era perché il perno in titano era stato alleggerito dalla parte sbagliata, quella opposta alla corona. Allora ne ho parlato con Campagnolo, l’abbiamo girato e abbiamo trovato la soluzione.
Le corse ci aiutavano ma serviva anche avere la testa giusta. Io non ero solo un meccanico che aggiustava e puliva, ma ero capace di spiegare le cose ai corridori, di parlarci. Quando Eddy Merckx è venuto a casa nostra mi sono accorto subito che aveva una gamba corta e una gamba lunga, perché ci mettevo amore nelle cose. Da questo amore, da questa attenzione sono venute tante idee. L’ultima sono i freni a disco sulle bici da corsa.
È vero che la sua Colnago Super, alla fine degli Anni ’60, ha cambiato il modo d’intendere le bici da corsa?
Sì, perché ho cambiato la struttura del doppio triangolo. Prima c’erano la ruota avanzata, il manubrio lungo e la sella bassa: quanto si perdeva in trasmissione? Io ho compattato tutto e fatto uscire il tubo sella, permettendo al corridore di rendere al meglio. Oggi sono idee semplici e assodate ma all’epoca serviva pensarci. Come quando ho forato la catena per il record dell’ora di Merckx: oggi sono tutte così, ma io l’ho fatto per primo. La mia è sempre un’attività artigianale, rispetto ai colossi di oggi, ma noi la bicicletta l’abbiamo rivoluzionata.
Con le sue biciclette in carbonio, comunque, ha sancito la fine dell’epoca dell’acciaio.
Vero. Tutti pensavano che il telaio in carbonio si sarebbe rotto e invece no. Nel ’95 andiamo alla Parigi – Roubaix. Paolo, mio fratello con cui ci diamo il cambio nelle corse, porta sia i telai in acciaio sia quelli in carbonio. La sera prima mi chiama Squinzi, il patron della Mapei, e mi dice che i corridori hanno il dubbio che il carbonio non regga e vogliono correre con i telai vecchi. «Ma no, Giorgio», gli dico, «ho fatto tutti i test del mondo: non si rompe mica». Lo scetticismo resta. Qualcuno vuole addirittura mettere delle forcelle ammortizzate all’anteriore anche per via di uno sponsor. Gli spiego che è impossibile, che cambia tutta la geometria, che è un suicidio. Alla fine lo convinco. Di notte non ho dormito. Quando il giorno dopo li vedo uscire dalla Foresta Nera c’è in testa un gruppo di sei/sette corridori: tre sono nostri. Per me abbiamo già vinto lì ma alla fine facciamo Ballerini primo e Museeuw terzo. L’anno dopo la Mapei arriva in parata con Museeuw, Bortolami e Tafi. Le vinciamo quasi tutte per anni. Di lì in avanti sarà solo carbonio. Purtroppo ci ha fregato un po’ tutti quanti.
È rimasto qualche sogno nel cassetto che non è riuscito a realizzare?
Nel ’94 ho fatto una bicicletta che ancora oggi avrebbe molto da dire: è quella che avevo preparato per il Record dell’Ora di Rominger. Era talmente avanzata che la UCI me la bocciò, altrimenti Tony avrebbe fatto 57 km/h e non 55. Aveva addirittura le pedivelle in titanio e il plateau in carbonio, una spesa notevole. Noi siamo sempre dei creativi, degli artigiani che sfidano i colossi: la globalizzazione ha portato dei grandi cambiamenti e oggi abbiamo a che fare con gruppi potenti. Ma mi ricordo sempre quello mi diceva Bruno Raschi, grande amico e giornalista: «Tieni duro, perché la bicicletta che fai te è come una barca che resta sempre a galla nel fiume».
Dove va Colnago, oggi?
Andiamo avanti a fare cose belle, sempre puntando al top. Chi vuole fare le cose su misura viene da noi come andare dal sarto e noi cerchiamo di trovare sempre le soluzioni giuste. Ancora oggi mi occupo personalmente di certi progetti, prendo le misure, decido gli angoli, le componenti. Mi basta dare un’occhiata a ciclisti per capire quanto sono alti, che numero di scarpre portano. Poi misuriamo il cavallo, l’anca, il palmo delle mani e facciamo la bici. Vittorio Colao – l’AD di Vodafone, ndr – ne ha volute quattro: una a Milano, una a Desenzano, una a Londra, una in America. Pedala sempre su Colnago. La bicicletta se è brutta non funziona. Ecco perché le facciamo belle.
Tanta tecnologia però avente ancora in catalogo dei grandi classici di acciaio.
Ancora oggi facciamo i telai Master e Arabesque perché ce li chiedono e li sappiamo fare bene. Ne facciamo un migliaio e la maggior parte vanno in America e in Giappone. Recentemente un nostro cliente mi ha detto di aver venduto un Master a 20.000 dollari. Ha fatto bene.
Ci racconta la storia dell’Asso di Fiori?
Ci fermavamo sempre a mangiare alla Laigueglia, per la Milano – Sanremo, in un ristorante che adesso è gestito dall’ex-professionista Bruno Zanoni. Qualcuno tornava a casa di notte, qualcuno dormiva lì. Nel 1970 eravamo lì con la Molteni e tutti quelli della Gazzetta, tra cui il già citato Bruno Raschi, che era un uomo di grande cultura. Quell’anno aveva vinto Michele Dancelli con una bici mia ma marchiata Molteni. Lì in un angolo, con la macchina da scrivere, Raschi stava preparando il pezzo per il giorno dopo. Titolo: “Una bici in fiore a Sanremo”. «Sto scrivendo di te», mi dice. Vede un mazzo di carte e mi fa: «Perché non registri il marchio con l’Asso di Fiori, che oggi sei stato fortunato? Magari funziona ancora». E così ho fatto. Da allora ogni anno paghiamo la registrazione in tutto il mondo. Costa, ma ne è valsa la pena.
Ultima domanda che forse doveva essere la prima: Coppi o Bartali?
Io sono stato amico di tutti ciclisti. Gino Bartali era più ciarliero, Fausto Coppi mi metteva più soggezione. Due corridori differenti e due caratteri differenti, uno l’opposto dell’altro. Con Magni, invece, ho lavorato direttamente per dodici anni anche se lui sapeva che ero coppiano. Io però volevo bene a tutti. «Madonna… te tu tieni a quello là?», mi ringhiava Bartali ogni tanto, ma poi c’era amicizia. Una volta nel ’55, a Cologno Monzese, Coppi mi chiese se gli sistemavo la bici. Magni, che era Maglia Rosa, mi disse: «mi raccomando, guardala come la mia!». Fausto per ringraziarmi mi diede mille lire. Le ho tenute nel portafogli per trent’anni.
Quello che rispettavo di più, comunque, era Magni, perché ha dovuto soffrire veramente tanto per vincere quello che ha vinto, contro quei due. E poi era uno che non cercava sempre l’approvazione da parte di chi lavorava per lui, ma voleva sentire anche pareri differenti. È stato un vero maestro. Ha lottato anche per far arrivare gli sponsor nel mondo del ciclismo, minacciando anche di non andare al Tour de France, e lì ha salvato questo sport.
Uno sport la cui storia è rappresentata perfettamente nel museo della Colnago presente in azienda, non distante dalla prima bottega da cui tutto è partito e dall’altra parte della strada rispetto a casa sua. Un’esposizione pazzesca che parte dalla Garibaldina personale di Ernesto da giovane, una di quelle montate da lui, e arriva fino a quella con cui Fabio Aru è diventato campione italiano nel 2017, passando per le bici di Mercxk, di Olano, di Rominger, di Saronni, di Nencini e tantissimi altri. Nomi che sono entrati nella leggenda di questo sport insieme a tanti altri personaggi di cui Colnago può raccontare direttamente grazie ai trionfi in 61 Campionati del Mondo, 11 Olimpiadi, 18 Coppe del Mondo, 21 tra grandi giri e corse a tappe. Nessuno ha vinto così tanto.
In uno degli uffici di servizio, tra i tanti cimeli, c’è una foto dove ci sono tutti i grandi protagonisti degli Anni ’50: Fausto Coppi, Gino Bartali, Fiorenzo Magni e tanti altri. Volti distanti nel tempo ma sempre così attuali, ed è incredibile pensare che Ernesto Colnago li abbia conosciuti e aiutati nella loro carriera, e possa raccontarcelo ancora oggi. È lui, l’uomo del secolo che abbiamo alle spalle.