Quando abbiamo iniziato a occuparci di Biciclette d’Epoca, a febbraio di quest’anno, non avevo idea di che cosa mi avrebbe aspettato.
Lo scrivo non nel senso dei contenuti di cui avrebbe dovuto trattare la rivista, che erano chiari fin dall’inizio: storie dei campioni, tecnica, restauri, biciclette di valore, ciclostoriche, novità. C’era un solco già tracciato in cui inserirsi, magari con una linea un po’ diversa, ma definito. Quello che non avevo personalmente messo in conto, invece, era il valore umano di questa avventura. Le relazioni che sarebbero nate, intendo. Mi occupo di riviste da oltre vent’anni, in vari ruoli, in vari settori, un po’ di esperienza ce l’ho. Ma quello che ho trovato, avvicinandomi a questo mondo, è qualcosa che mai sono riuscito nemmeno lontanamente ad avvertire nelle mie esperienze passate.
Lo scrivo facendo gli scongiuri, che con l’età sono diventato scaramantico. Ma lo scrivo senza pensare che siamo a Natale, per cui serva tracciare un quadro dell’anno passato come se fossimo in un libro di Charles Dickens. Lo scrivo invece perché credo che questa considerazione sia uno dei motivi che hanno portato alla nascita di questo grande interesse verso il ciclismo d’epoca, dove la ricerca è soprattutto di valori umani, sociali e culturali, legati al territorio e agli affetti. Ed è per questo che proprio la bici – con la sua grande semplicità e la sua ineguagliabile possibilità di essere alla portata di tutti – è l’unico strumento che permette a chiunque di raggiungerli e sentirsi parte di qualcosa di superiore, di migliore.
Leggerete pensieri simili al mio – condivisibili o meno – nel nostro speciale “Dove vanno le ciclostoriche?”, in cui abbiamo chiesto ad alcuni volti più o meno noti del nostro mondo di dare un parere sulla direzione che i raduni d’epoca stanno prendendo o dovrebbero prendere. Si parla molto di qualità delle manifestazioni, ma anche del fatto che possano essere accessibili da tutti e del fatto che debbano essere sorrette da una giusta dose di buoni sentimenti.
Questo mondo alternativo, sospeso nel tempo, che si accende a intermittenza in quasi tutti i fine settimana da marzo a ottobre, è diventato un mondo a cui tanti non vogliono più rinunciare e di cui molti altri vogliono far parte, magari anche solo occasionalmente. Pedalare nella natura senza l’ossessione della gara, senza i pericoli del traffico, assaporando i piaceri della grande tradizione enogastronomica del nostro paese, magari tra paesaggi mozzafiato o città d’arte che il mondo c’invidia è giocoforza un dissuasore dello stress, l’antitesi della vita frenetica di tutti i giorni, delle consegne imminenti, delle bollette, dei litigi sui social.
Ecco perché, di tutto questo anno o quasi passato a parlare di bici anche con chi la storia della bicicletta l’ha fatta davvero – non ultimi Ernesto Colnago e Aldo Gios, in questo numero – quello che mi resta negli occhi è questa grande bellezza che pervade tutto. Leggera e impalpabile, come se fosse un profumo che scende su tutti coloro che hanno voglia di essere parte di questo mondo. E che alla fine ci rende davvero più ricchi dentro.
Che sia un bell’anno questo 2019, cari amici, e viva il ciclismo d’epoca.
Alessandro Galli
info@biciclettedepoca.net