Se c’è un aspetto che colpisce, quando ci si addentra in ciò che ruota attorno alla produzione di una bicicletta, è la distanza corta che separa le idee dei protagonisti dal risultato finale. E corte – anzi cortissime – sono anche le distanze che separano tra loro i protagonisti stessi, tutti legati da un filo conduttore (rosso, rosa o iridato, fate voi) che ne tesse le storie lasciandole scritte per sempre nel tempo, come racconti sulle vite dei santi stesi su un arazzo rinascimentale.
Nel nostro caso la storia è quella di un uomo il cui nome non in prima battuta non dirà ai più quasi niente, poco noto al punto che non si riesce a trovarlo nemmeno su Google. Ma chi sa associare il nome di Maurizio Marzorati al marchio Ambrosio, il più prestigioso tra tutti i produttori di cerchi italiani, vedrà immediatamente una luce accendersi davanti ai propri occhi. E per chi questa luce non riesce proprio a vederla ecco allora un aiutino. Uno di quelli che non possono che far venire la pelle d’oca a qualsiasi italiano con più di quarant’anni. L’aiuto è una data, un luogo, un nome: 23 gennaio 1984, Città del Messico, Francesco Moser. Sì, proprio quel giorno lì: quello del Record dell’Ora staccato a 51,151 km.
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IL CERCHIO DELLA STORIA
“Il Moser era sempre qui”, esordisce Maurizio non appena ci accoglie nella sala riunioni di Ambrosio a Solaro, a nord ovest di Milano, mettendo l’accento rigorosamente sulla «ò». Lo fa perché siamo stati noi a partire subito dritti parlando del Record dell’Ora, ma la storia di Ambrosio, che dagli Anni ’70 agli Anni ’90 ha associato i propri prodotti alle vittorie di grandissimi campioni come Bernard Hinault, Moreno Argentin e Gianni Bugno, parte da molto più lontano.
“L’azienda nasce nel 1940, quando sono nato io”, inizia a raccontare il padrone di casa. “La «Marzorati Cerchi» era un’azienda che produceva cerchi per bicicletta senza avere mai provato a ritagliarsi uno spazio nel mondo delle corse. Fu alla fine degli Anni ’60 che, grazie all’acquisto dello storico marchio Ambrosio di Torino, iniziammo ad addentrarci in quel mondo per noi allora sconosciuto”. Già, perché Ambrosio, fondata nel 1932, era stata per anni una specie di fornitore unico di cerchi e manubri per chiunque volesse correre in bicicletta. Anche se non erano marchiati, si sapeva che erano loro. L’arrivo della famiglia Marzorati – di Maurizio e del fratello Marzio, prematuramente scomparso – portò però nuova linfa alla casa della fiaccola.
i consigli arrivavano da colnago, de rosa ma soprattutto dai meccanici
“Io sono sempre stato il progettista, ho iniziato fin da piccolo”, continua Marzorati, “mentre mio fratello si occupava di promuovere il prodotto. Cosa che gli è riuscita benissimo dato che siamo arrivati a proporre in nostri cerchi ai più grandi marchi e alle più grandi squadre del mondo. A un certo punto eravamo i fornitori di 18 squadre professionistiche e le vittorie non si contavano”. La partenza fu bruciante. Il primo cerchio Ambrosio da corsa, fornito ad alcuni artigiani lombardi, finì per equipaggiare la bicicletta di Pierfranco Vianelli che grazie ad essa vinse l’Oro alle Olimpiadi di Città del Messico del ’68, (e per questo fu commercializzato con il nome Olimpic Champion).
Erano anni diversi, ruggenti o operosi, e la Lombardia fremeva di marchi che avrebbero fatto la storia del ciclismo, come Colnago e De Rosa, con cui Ambrosio si confrontava con franchezza per trovare le soluzioni migliori. La ricerca scientifica sul prodotto era ancora di là da venire. Erano i consigli dei produttori, dei ciclisti e soprattutto dei meccanici a indicare la direzione verso la quale si dovesse andare, sperimentando leghe e profili differenti. E fu proprio Edoardo Fucacci – detto Ciaren – storico meccanico di Moser a dare il consiglio giusto.
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LA SVOLTA AGONISTICA
“Con Francesco Moser e con il fratello Aldo, che gli faceva da manager, c’è stato un rapporto unico”, racconta Maurizio Marzorati. “Iniziammo a fornirgli i cerchi quanto stava alla Sanson, nella seconda metà degli Anni ’70. E Francesco con quei cerchi vinceva tanto, anche se il nostro cerchio Syntesis era troppo rigido a causa del profilo quadrato e dell’ossidazione Durex in superficie, che lo rendeva durissimo ma anche fragile come il vetro. Fu Ciaren a consigliarci di utilizzare un profilo più morbido, tradizionale, che lo rese molto più resistente. Il bello fu farlo in collaborazione con la Mavik”.
Perché in quegli anni il mondo era molto più ristretto, e anche se la competizione era durissima era una prassi abituale lavorare insieme agli altri per cercare di migliorare la tecnologia esistente. “Grazie all’aiuto dei francesi iniziammo a utilizzare una doppia boccoletta sul cerchio, sfruttando un brevetto della Fiamme appena diventato di dominio pubblico. Il problema era che con quel sistema non riuscivamo a costruire più di 2/300 cerchi al giorno, ma grazie alla Mavic costruimmo un macchinario dedicato in grado di portare la produzione a 1500 pezzi”.
Fu qui che Ambrosio iniziò ad attaccare il mercato e a mettere in crisi tutti i produttori, soprattutto nazionali, puntando sempre sull’innovazione in modo da offrire un prodotto migliore ottimizzando i costi. L’azienda lombarda fu anche la prima a far sagomare i profili direttamente al produttore, saltando un passaggio e accorciando così i tempi di realizzazione.
“Il vero salto di qualità, però, l’abbiamo fatto quando abbiamo iniziato a vincere le Parigi-Roubaix”, spiega Marzorati. “A un certo punto per vincere dovevi montare i nostri cerchi e ancora oggi in Belgio siamo conosciutissimi per quei successi. Il segreto era essere riusciti a raggiungere un elevato standard di robustezza, grazie a una lega che permetteva di avere un cerchio che fosse al tempo stesso rigido ma anche sufficientemente elastico da sopportare le sollecitazioni più estreme senza fratturarsi”.
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IL FUTURO LENTICOLARE
C’è però un momento in cui la storia dei cerchi Ambrosio esce dalle officine delle grandi squadre professionistiche e dai capannoni industriali lombardi ed entra nell’immaginario collettivo, diventando «epica». E qui bisogna tornare all’inizio del nostro racconto, a quel 23 gennaio del 1984 a Città del Messico quando il mondo, per la prima volta, vede un oggetto che sembra essere venuto da un altro pianeta. Era argentato, aerodinamico e a forma di disco ma non era un UFO: si chiamava «ruota lenticolare» e avrebbe cambiato per sempre il mondo del ciclismo.
“Iniziammo a lavorare alle ruote lenticolare circa un anno prima dell’impresa di Città del Messico”, continua Marzorati. “L’idea era nata un po’ per caso, a Zelbio, dove avevamo la casa in montagna e dove aveva sede la Enervit del dottor Paolo Sorbini, con cui ci frequentavamo abitualmente. Sorbini voleva associare il proprio nome a una grande impresa. E il Record dell’Ora lo era senz’altro. Moser iniziò a provare diverse soluzioni per le ruote, in cerca della più efficace. Alla fine sono rimaste solo le nostre”.
“Va por la hora! Va por la hora!”, gridava lo speaker della televisione di stato messicana mentre moser costruiva l’ultimo record riservato agli umani
Il segreto del successo della ruota lenticolare – dalla forma simile appunto a quella di una lente – era duplice. Ideata dal professor Antonio Dal Monte e ispirata da concetti aeronautici, la Ener D.M. dava due vantaggi al ciclista: il primo era quello di fendere meglio l’aria, il secondo quello di essere particolarmente pensante, superando i 2,6 kg. Anche se quest’ultimo aspetto può sembrare uno svantaggio, in realtà fu la chiave per migliorare significativamente le prestazioni di Francesco Moser.
“All’inizio abbiamo lavorato con semplici ruote a raggi”, racconta Marzorati, “rendendole via via sempre più pesanti in modo che, una volta messe in moto, garantissero alla bicicletta un’inerzia tale da rendere più facile mantenere una velocità costante. Ovviamente, servivano le gambe di Moser perché fosse una soluzione vincente. Anche le lenticolari, all’inizio, erano semoplici ruote a raggi ricoperte per essere più aerodinamiche. Solo in un secondo momento siamo arrivati a realizzarlecosì come tutto il mondo le ha vista a Città del Messico. Ma fu il peso a essere determinante”.
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OLTRE L’UMANO
L’impresa di Moser fu un vero e proprio spartiacque e lo zenith per la popolarità del Record dell’Ora, che di lì in avanti visse stagioni altalenanti anche a causa di un impiego sempre più sfrenato della tecnologia al punto che la bicicletta cominciò a sembrare più determinante del ciclista che la muoveva. Lo dimostrò la famosa «lavatrice» di Gream O’Bree, sconosciuto corridore britannico che nel 1993 superò i famosi 51,151 km del campione trentino a bordo di un mezzo decisamente poco convenzionale. Che anche in quel caso, comunque, era marchiato Ambrosio.
“Gli Anni ’80 furono per noi il momento più alto per quanto riguarda i successi sportivi”, chiosa Maurizio Marzorati. “Continuammo a essere presenti nelle gare in maniera pervasiva fino agli Anni ’90, raggiungendo grandi successi anche con Gianni Bugno, un vero signore. Poi il mercato prese una piega diversa e il cerchio passò in secondo piano rispetto alla ruota completa, che divenne più richiesta dalle squadre. Quello che abbiamo fatto nella storia del ciclismo, però, resta un ricordo indelebile e un patrimonio per la nostra azienda e tutto il nostro territorio”.
Già, perché a guardare bene in quella giornata di gennaio passata sulla pista del Centro Deportivo di Città del Messico, a 2160 metri sul livello del mare, c’erano tutti. Ma proprio tutti. Tutti quelli che avevano costruito e attraversato l’epopea della bicicletta da corsa d’acciaio, rimasta così simile a sé stessa per così tanti anni e che la bici di Moser, con le sue geometrie innovative, le sue futuristiche ruote lenticolari e persino con la neonata scienza dell’alimentazione che ne aveva supportato il successo, aveva in un’ora soltanto iniziato a condurre verso l’inesorabile declino. C’era tutta la forza creatrice di una generazione di telaisti, progettisti, costruttori legati tra loro dal quelle distanze corte che li avevano aiutati a crescere l’uno con l’altro, legati da fili invisibili ma reali, e ad essere tutti in qualche modo tutti al servizio dell’eccellenza italiana in quel giorno che sarebbe stato impossibile dimenticare.
“Va por la hora! Va por la hora!”, gridava lo speaker della televisione di stato messicana mentre il campionissimo di Palù di Giovio costruiva, con le sue poderose gambe, l’ultimo record riservato agli umani.
Collezione e foto: Michele Lozza Instagram: thebikeplace // Foto storiche: Ambrosio
SCHEDA TECNICA
- Marca: Francesco Moser
- Modello: Va Por la Hora
- Anno: 1984
- Gruppo: Campagnolo Super Record
- Telaio: tubi Columbus SLX.
- Ruote: Ambriosio Ener D.M. Lenticolari 26″ ant. e 28″ post.
- Pipa: 3ttt pantografata Moser.
- Piega: 3ttt modello crono Moser 51.151