Nella prima parte abbiamo affrontato l’aspetto tecnico analizzando tutta l’attrezzatura meccanica e personale che doveva avere il perfetto cicloturista a cavallo dei due secoli. Ora è il momento di vedere la logistica del viaggio e il suo svolgimento
6) pianificare il viaggio
Una volta attrezzata la bicicletta, acquistati gli effetti personali, procurati gli accessori indispensabili e con nell’armadio gli abiti più opportuni, si poteva finalmente pianificare il viaggio. Questa operazione non consisteva solamente nell’identificare i luoghi da visitare, stabilire la miglior strada per raggiungerli, prenotare gli alberghi dove soggiornare, approntare il bagaglio leggero da portare con sé e il bagaglio pesante da spedire, si doveva anche scegliere gli eventuali compagni di viaggio.
Quest’ultima attività non era delle più semplici, dato che la scelta dei compagni di viaggio era determinante per il buon esito dell’avventura ciclistica. Solitamente la scelta avveniva tra gli amici del club con cui si era usi fare passeggiate o piccole escursioni. Vi fu però chi metteva in guardia sulla scelta dei compagni consigliando che gli stessi fossero rigorosamente maschi: la parità di genere era cosa sconosciuta, infatti le compagne era meglio evitarle. I componenti del gruppo non dovevano mai essere più di tre, perché se si era di più era più difficile andare d’accordo (ecco la prova che il mondo evolve ma non cambia) ma soprattutto la cosa irrinunciabile era condividere l’itinerario prima di partire. Questi consigli, presenti soprattutto sui baedeker inglesi, non erano troppo praticati dagli italiani che, rivolti probabilmente a maggiore giovialità, sostenevano che «Il motto dei misantropi “Poca brigata, vita beata” non è stato creato per i ciclisti». Infatti numerose erano le escursioni organizzate in comitiva, come avveniva con i convegni ciclistici del Touring Club Ciclistico Italiano.
Esisteva, e crediamo esista ancora oggi, una solidarietà ciclistica che già il Grioni così rilevava nel suo manuale del 1910: «Se ad un ciclista capita di litigare per istrada, state pur certi che si trovano subito dieci altri ciclisti disposti – almeno – a dargli il minor torto possibile. Il fenomeno ha ragioni storiche. Il velocipedismo è passato a traverso un’epoca di persecuzione e di odio, tanto ingiustificato ed irragionevole quanto profondo».
Le escursioni e ancor di più i lunghi viaggi avevano bisogno di un soggiorno alberghiero la cui prenotazione avveniva tramite lettera e più raramente tramite telegramma. Il bagaglio leggero di uso quotidiano veniva riposto nelle borse di tela poste a cavallo della canna orizzontale del velocipede e sul manubrio. Il bagaglio contenente il cambio dei capi intimi, le scarpe di scorta e l’abito per le soirée era invece inviato al fermo posta o presso gli alberghi dei maggiori centri visitati, quelli muniti di ferrovia, dove solitamente erano previste le più lunghe soste.
Il periodo di sviluppo del velocipede coincise quasi esattamente con quello della nascita ed evoluzione di un’altra grande invenzione: la fotografia. Risalgono infatti al 1816 i primi esperimenti di Nicéphore Nice per ottenere la riproduzione di immagini su lastre. A fine Ottocento la fotografia aveva fatto passi da gigante per cui molti velocipedisti amavano documentare i loro viaggi con scatti fotografici dell’epoca. L’esigenza del ciclista era puramente documentaristica e hobbistica, per cui dovette adattare al meglio il poco spazio a disposizione per porre sul mezzo l’ingombrante attrezzatura, che però si stava già compattando grazie alla costruzione della Kodak Model Eastman 1 a partire dal 1888 e della Model 2 a partire dal 1896.
A parte il trasporto con lo zaino caricato sulle spalle del ciclista, vennero consigliati svariati altri modi per portare con sé in bicicletta la preziosa attrezzatura fotografica. Se si facevano viaggi brevi si poteva riporla in una borsa appositamente costruita e applicata alla canna orizzontale della bicicletta. Ma se il viaggio era lungo, essendo quello lo spazio destinato ad accogliere la valigia principale, alla macchina fotografica non restava che passare su un portapacchi posto sulla forcella anteriore o posteriore. «È certo preferibile la posteriore, poiché l’apparecchio è esposto a meno forti scosse», come diceva il Grioni.
Le macchine fotografiche dell’epoca utilizzavano tempi di esposizione lunghissimi per cui era impossibile effettuare scatti a mano libera. Vi era quindi la necessità di uno stativo e la bicicletta si prestava benissimo a questa funzione, bastava mettere sulla canna orizzontale del telaio un supporto verticale di sostegno della fotocamera e un altro obliquo poggiante a terra con funzione di cavalletto. Franz Lenz, il pedalatore americano che iniziò il viaggio intorno al mondo nel 1892, utilizzò proprio la fotocamera Kodak per documentare la sua impresa. La macchina era posizionata in uno zaino rigido. Per la cronaca, Lenz non fece mai ritorno in patria e si persero le sue traccie in Armenia, ma questa è un’altra storia.
Il viaggio poteva prevedere anche la percorrenza di tratti in treno. Le biciclette potevano essere trasportate come semplici bagagli senza necessità della contemporanea presenza del ciclista sul treno: in questo caso la tariffa applicata agli inizi del XX secolo era la stessa dei bagagli. Se la bicicletta era invece al seguito del ciclista sullo stesso treno, vi era una tariffa differenziata che era progressivamente decrescente oltre i 151 km di percorrenza. Solo i soci del Touring Club, grazie alla convenzione con le Regie Ferrovie Italiane, potevano spedire la bicicletta completa dei seguenti accessori: fanale, targhetta della tassa sui velocipedi, borsetta, pompa e campanello. In caso di rottura o furto il risarcimento avveniva nel rispetto di massimali anche piuttosto alti che però non coprivano il costo di sostituzione dell’oggetto rotto o sottratto.
7) Finalmente in viaggio
Sia la stampa periodica che le guide erano prodighe di consigli su come affrontare il viaggio anche sotto l’aspetto della forma fisica: «Una delle condizioni principali per compiere un viaggio senza stancarsi è quella di ben regolare la marcia. […] Il proporzionare quindi la via da percorrere, cioè il lavoro che si deve fare, alle proprie forze, è della massima importanza per velocipedista».
Durante il viaggio era consigliato ridurre l’affaticamento con soste, almeno ogni 25 chilometri, della durata anche di soli dieci o quindici minuti. Fondamentale era la tempistica del viaggio. «Per la marcia si sceglieranno le ore meno calde della giornata: la primavera e l’ottobre sono per questo riguardo le stagioni più convenienti. […] Nell’estate si potrà viaggiare nelle prime ore del mattino, e in quelle verso il tramonto perché altrimenti nelle ore calde, oltre non gustare il viaggio per l’eccessivo calore, si corre pericolo di un’insolazione».
Anche la gestione dei pasti era di primaria importanza per il ciclista turista. Si sconsigliava di partire a stomaco vuoto e di mettersi a pedalare subito dopo aver assunto un pasto in quanto «Tanto nell’un caso quanto nell’altro, sono facili le vertigini, gli svenimenti ed i gravi disturbi della circolazione». Una pedalata costante e prolungata porta, senza dubbio, anche un notevole appetito. Ecco quindi gli opportuni consigli per la qualità del cibo che doveva essere «Un nutrimento sostanzioso, ma facilmente digeribile, senza aggravarsi lo stomaco con cibi indigesti, che contengano quantità eccessiva di fecole e di sostanze grasse. La carne arrostita, le uova ed il latte, che si trovano facilmente ovunque, potranno essere una risorsa per il turista in viaggio. Alle bevande alcooliche, che aumentano apparentemente la resistenza alla fatica, non consigliamo di ricorrere”.
Il pasto più sostanzioso era da farsi alla sera. E finalmente, dopo aver acquistato riviste e manuali, averne seguito i numerosi consigli, allestito l’anticavallo, per dirlo alla Gianni Brera, essersi abbigliati, essersi attrezzati, aver scelto i compagni di viaggio ed essere partiti attraverso strade polverose senza indicazioni stradali, con uno sforzo notevole, il nostro velocipedista giungeva all’agognata meta in perfetta eleganza con tanto di gilet, giacca e scarpe pulite, perché se solo fosse entrato in albergo con le scarpe sporche o peggio ancora in maniche di camicia, avrebbe rischiato di non vedersi consegnare le chiavi della stanza anche se già prenotata.
8) Non tutti erano uguali
I ciclisti di oggi, per evoluzione naturale, si sono diversificati in base all’uso che fanno della bicicletta, la quale si è essa stessa differenziata per adattarsi alle diverse esigenze. Così abbiamo bici da corsa, da cicloturismo o ancora le Mountain Bike, le down hill bike, le gravel, le citybike, ecc. Nel XIX secolo i ciclisti si suddividevano solo in due grandi categorie, corridori e turisti, con differenze minime tra le due categorie di biciclette. Chi organizzava eventi turistici, magari anche di più giorni, aveva però l’esigenza di identificare le capacità pedalatorie dei vari partecipanti per poterli opportunamente gestire. Il problema fondamentale era quello di riunire persone con capacità omogenee di resistenza onde evitare ritardi ai più esperti, difficoltà ai meno esperti e tensioni per tutti. Sarebbe stato assolutamente impossibile gestire un tour unendo ciclisti esperti e veloci con altri inesperti e lenti. Tanto meno si poteva far affidamento su quelle che oggi chiameremmo autocertificazioni, perché si era certi che tutti si sarebbero autocertificati esperti, veloci e veterani. L’organizzatore: «Deve soprattutto tener conto della forza di resistenza media dei componenti la comitiva, in modo da non costringere i propri compagni meno abili e resistenti a sforzi penosi, evitando al tempo stesso di obbligare i più forti a un incesso funebre».
Per ovviare a queste difficoltà organizzative nacquero i cosiddetti brevetti, una sorta di certificazione ufficiale, che veniva data da un’associazione come il TCCI o l’Audax al candidato che superava prove ciclistiche basate sul tempo impiegato a percorrere un certo chilometraggio. I brevetti del Touring si basavano sul tempo impiegato a percorrere 100 km mentre per l’Audax la percorrenza era di 200 km. L’attività dell’Audax prese avvio il 12 giugno 1897, quando lo scultore Vito Pardo (Venezia 1872 – Roma 1933) con un gruppo di 11 amici partì da Roma all’alba con l’intento di raggiungere Napoli entro il tramonto. L’impresa ebbe successo e alcuni giorni dopo un gruppo di una ventina di ciclisti napoletani replicò il percorso in senso inverso.
L’evento non passò inosservato in quanto rispondeva alle esigenze di quella parte di velocipedisti che intendevano certamente fare turismo, come dal 1894 proponeva il Touring Club, ma non disdegnavano nemmeno l’impegno pedalatorio.
Insomma misero le basi dei randonnée, termine non a caso francese. L’Audax, che era una invenzione totalmente italiana, successivamente, grazie all’impegno dell’ideatore del Tour Henri Desgrange, divenne anche un club francese.
In effetti il risultato di quella pedalata Roma-Napoli portò lo scultore Vito Pardo a cogliere le numerose istanze di incentivare questi audaci eventi. Da lì alla fondazione dell’Audax il passo fu breve e già nel 1897 sorsero le prime sezioni. L’Audax venne fondato il 16 gennaio 1898, con sede centrale a Roma in via Piemonte 121. L’attività dell’associazione fu subito effervescente e Vito Pardo venne chiamato a svolgere le funzioni di direttore generale. Le adesioni crebbero rapidamente e nel 1903, con l’apertura della sezione di Rovereto, allora in Austria, si festeggiò l’apertura del club n° 100. Ma alla fine di quell’anno le sezioni saranno 111 e i soci 2.929. Le sezioni estere erano invece ben sette, di cui tre in Svizzera, una in Francia e tre in quell’Austria che diverrà poi italiana: Trento, Trieste e Rovereto.
L’attività dell’Audax consisteva essenzialmente nell’organizzazione di escursioni, o convegni come li chiamavano allora, da parte delle varie sezioni che andavano spesso a far visita alle città sede di altre sezioni. Vi furono poi degli eventi più rilevanti che coinvolsero molte sezioni a cui venne dato il nome di Marce. Un esempio fu quella organizzata dalla sezione milanese e dalla torinese, che prese avvio il 18 maggio 1902 da Milano alle 4 di mattina e che prevedeva una marcia di 540 km in 36 ore di cui 27 ore e 50 minuti di marcia e 8 ore e 10 minuti di soste. Le città toccate furono Crema, Brescia, Verona, Mantova, Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Alessandria e arrivo a Torino.
Il 17 e 18 maggio 1903 la direzione centrale Audax organizzò un convegno nazionale a Roma di tutte le sezioni. L’arrivo nella capitale era previsto dopo aver percorso tappe giornaliere di 200 km. Dal 30 maggio al 2 giugno del 1911 si tenne la Gran Marcia del Ciclismo Nazionale con partenza da Torino in Piazza Castello e arrivo a Roma sul Ponte Milvio dopo aver percorso 825 km nel tempo massimo imposto di 47 ore e 50 minuti di marcia. Un’impresa che farebbe ancora oggi impallidire molti ciclisti. Nel primo Dopoguerra, questa associazione perse sempre più vigore e si estinse. Dalla seconda metà degli Anni ’20 l’attività di promozione del ciclismo divenne una prerogativa della più generale attività di propaganda dello sport svolta dal fascismo.
A conclusione di questo lungo excursus sui viaggi in bicicletta possiamo dire, con una punta di orgoglio per noi appassionati di storia dei velocipedi, che il turismo di massa si è sviluppato grazie alle due ruote pedalate. Il turismo, inteso come “lo spostarsi per diletto”, nacque in Italia grazie agli antichi romani che passavano le loro vacanze nel golfo di Napoli, o se erano al Nord sul Lago di Garda. Ricordiamoci che le grotte di Catullo sono una villa romana. Decadde poi nel Medioevo per essere rilanciato nel ‘700 come Grand Tour, ma solo verso la fine del XIX secolo si affermò come movimento di massa grazie proprio all’uso della bicicletta.