Ancora oggi rivedere i film ispirati dalla sagace penna di Giovannino Guareschi è sempre divertente, tuttavia vi è un passaggio nel primo “Don Camillo”, per la regia di Julien Duviver, che si fatica a cogliere in tutta la sua ampiezza.
Ci riferiamo alla lite che il prevosto innesca al bar allorquando gli avventori lo irridono per l’uso della bici da corsa. In effetti quel momento lo possiamo capire a fondo solo se consideriamo quel lungo percorso iniziato dal clero, quasi sessant’anni prima, per l’uso del velocipede e che ci riporta all’avvento delle safety-frame.
L’affermarsi del velocipede durante quel periodo irripetibile che fu la Belle Epoque, fa assumere alle due ruote un forte valore simbolico legato alla sua modernità che diviene l’espressione stessa di quella fiducia nella tecnologia e nel futuro che caratterizzarono quegli anni.
Le problematiche dell’uso della bicicletta da parte dei preti sono figlie di quelle forze e di quei modi di pensare avversi alla modernità, all’epoca definiti oscurantisti, che si opponevano all’uso e al diffondersi del velocipede e il cui sorgere coincide con l’affermarsi delle bicicletta di sicurezza. Non si hanno, infatti, notizie in merito all’uso dei bicicli a ruota alta da parte di preti, e neanche di censure, prima dell’avvento delle bici come le conosciamo oggi.
UN INIZIO DIFFICILE
Oggi la televisione ci propone le immagini di Terence Hill nelle vesti di don Matteo che gira in lungo ed al largo con la sua bicicletta da uomo con l’abito talare svolazzante. Ebbene, verso la fine del XIX secolo quelle sarebbero state immagini sconvenienti se non addirittura blasfeme. Infatti, il divieto dell’uso della bicicletta da parte degli ecclesiastici è inizialmente essenzialmente legato alla sconvenienza dell’immagine che il povero prete trasmette pedalando con la veste al vento. Solo successivamente, verso la fine del secolo XIX, il divieto assumerà connotazioni ideologiche, che, come sempre succede, sono le peggiori da combattere e le più difficili da superare.
Sin dagli inizi degli Anni ’90 dell’800 si hanno notizie di preti che fanno uso dei velocipedi per l’esercizio del loro ministero. La bicicletta però non è ancora universalmente accettata né da parte delle autorità, che ne regolamentano in modo restrittivo l’uso, né da una cospicua parte dell’opinione pubblica, ancora piuttosto avversa alle due ruote. Per queste ragioni, i più solerti tra i sacerdoti iniziarono ad avanzare richieste ai loro superiori per essere autorizzati all’uso della bicicletta.
Fu così che il parroco di Trezzo sull’Adda, in provincia di Milano, rivolse un’istanza alla curia Milanese per conoscerne il pensiero in proposito all’utilizzo dei velocipedi in cura d’anime. «Non sunt in inquietandi» – ovvero “nulla da eccepire” – è la risposta che arriva dalla curia. Quindi sono tranquillamente utilizzabili per l’esercizio del ministero sacerdotale e questa è anche la conclusione che si trova espressa nell’articolo “I preti in bicicletta” della rivista “Il Ciclo” dell’11 ottobre 1893.
Però, appena quattro mesi dopo, quel periodico avverte la necessità di ritornare sull’argomento e a metà del mese di gennaio 1894, ribadisce che la legittimità dell’uso non deve diventare abuso, segno questo che l’argomento non è pacifico, anzi è di notevole attualità. Con ogni probabilità le alte sfere clericali hanno fatto pressioni per una opportuna precisazione.
Sul mercato si trovano già delle bici che tendono a far mantenere ai prevosti il massimo del contegno, parliamo delle biciclette denominate “levite”, che sono sostanzialmente delle bici da donna, con pedivelle e passo tipici delle bici maschili e con le ruote da 28 pollici. Addirittura, Umberto Dei produrrà una serie di 500 biciclette levite con sella girevole per agevolarne la salita e la discesa. Anche il “Manuale del perfetto ciclista” inizia a trattare l’argomento e ad accennare all’uso dei velocipedi da parte del clero dando consigli e suggerimenti.
Il 28 luglio 1894 esce il supplemento della rivista “La Bicicletta” dal titolo “I preti in bicicletta” ispirato da don Luigi Turconi, della parrocchia di Vuittone in provincia di Milano, che con altri venti clericali ha costituito un comitato pro-bicicletta. Il supplemento provoca però una levata di scudi da parte del Cardinale Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia e Vescovo di Mantova, che nel 1903 salirà al soglio pontificio con il nome di Pio X. Egli afferma, nella lettera al “venerando clero della diocesi di Mantova” che il velocipede «diffuso a tal punto che non pare si possa più vivere senza di esso» non è consentito al clero «in quanto ogni cosa […] che tende e si avvicina alle abitudini dei secolari, accusa il prete di vanità e leggerezza» quindi non ci sono più solo argomenti estetici a opporsi all’uso, ma ragioni filosofiche e questo sarà il vero motivo del divieto dell’uso che seguirà sotto il suo pontificato.
Sempre nel 1894 la Sacra Congregazione dei Vescovi, l’ente della curia romana che ha lo scopo di regolare la vita clericale, nel rispondere ai quesiti di alcuni vescovi si esprime decisamente a sfavore dell’uso della bicicletta da parte dei preti: «non solo salva gli stessi [preti – n.d.a.] dai pericoli del corpo ma distoglie gli scandali dai fedeli e l’irrisione dei sacerdoti stessi».
La Congregazione del Concilio, l’organo, sempre della curia romana, cui spetta di vigilare sulla applicazione e l’osservanza della disciplina del clero, associa il divieto dell’uso del velocipede al divieto di frequentare osterie e teatri o di praticare la caccia ed il gioco d’azzardo, facendo però un’unica eccezione nel caso in cui si debba somministrare d’urgenza l’estrema unzione. Se però l’uscita fosse notturna, è consentito l’uso del velocipede solo se accompagnato da un altro confratello.
UNA SCELTA NECESSARIA
Nel 1897 le polemiche sulla legittimità dell’uso delle bici da parte del clero prendono ulteriore vigore con l’articolo dei cattolici liberali pubblicato il 17 dicembre sulla Rassegna Nazionale nel quale si menziona il diverso atteggiamento che si riscontra all’estero nei confronti del clero in bicicletta, soprattutto negli Stati Uniti, dove ne è concesso l’uso. In particolare si pone l’accento sulla spaccatura che questo argomento sta provocando tra il basso clero, che per necessità deve far uso dei velocipedi, e l’alto clero che non ha questa esigenza.
In effetti la spaccatura esiste, ed è profonda, perché in diverse diocesi l’uso del velocipede è talmente avversato dal vescovo da provocare delle sospensioni “a divinis” dei preti, come avviene a Piacenza, dove il vescovo lamenta che alcuni preti, qualificati come modernisti, si sono comprati delle biciclette per dimostrare questa loro filosofia. Invece, nella vicina Cremona, il vescovo Geremia Bonomelli, già nel 1894, aveva indirizzato una lettera a sostegno di preti in bicicletta, difendendone l’uso per l’esercizio del loro ministero legato alla notevole dimensione delle parrocchie. Teniamo presente che il territorio cremonese era caratterizzato dalla presenza, fuori dai centri abitati, di molte cascine nelle quali vivevano a volte più di ottanta nuclei familiari che sommavano anche più di cinquecento persone e spesso queste cascine ospitavano chiesette per le funzioni domenicali.
Con l’elezione di Pio X si assiste a una recrudescenza del divieto perché l’avversione verso il velocipede non è più una mera questione estetica, ma diventa la bandiera della negazione del modernismo inteso come smisurata fiducia nelle scoperte scientifiche. La chiesa, in quegli anni, è totalmente avversa alla modernità ritenuta un elemento di perdizione dell’uomo e particolarmente era combattuto il modernismo cattolico che tendeva a conciliare gli insegnamenti neotestamentari con le innovazioni della tecnica ma anche con nuove teorie sociali sostenute, nel periodo a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, dai primi movimenti dei lavoratori che reclamavano più umane condizioni lavorative.
Il Vescovo Geremia Bonomelli resterà sempre un coerente sostenitore dei preti in bicicletta infatti, nella lettera del 25 luglio 1911 in risposta alla richiesta dei Presuli Lombardi che volevano generalizzare il divieto dell’uso della bicicletta a tutta la Lombardia, così scrive: «Noi andiamo in carrozza, e anche in automobile – noi vescovi – e non vogliamo che il povero prete usi della bicicletta, cavallo suo, talora necessario per le distanze».
Tra i sostenitori della bicicletta non poteva mancare Don Primo Mazzolari discepolo di Mons. Bonomelli, che nella sua parrocchia di Bozzolo, nel mantovano, ma rientrante nella curia di Cremona, faceva un uso quotidiano della sua “Giannina”, come infatti egli era solito chiamare la sua bici. Quella due ruote gli permetterà di muoversi velocemente negli ultimi anni di guerra in cui sposa la causa partigiana e lo farà divenire davvero inafferrabile.
Negli anni immediatamente antecedenti la Grande Guerra ci saranno sempre più preti disobbedienti che incitano i loro confratelli a non essere dei “Don Abbondio” malgrado le autorità ecclesiali continuino a conferme i divieti.
Tra gli interventi a favore dell’uso dei velocipedi spicca, nel 1912, quello di Mons. Giacomo della Chiesa, arcivescovo di Bologna, che sarà eletto Papa col nome di Benedetto XV nel 1914 e proprio sotto il suo pontificato la questione dei preti in bicicletta si attenua perdendo quella valenza di battaglia anti-modernista. Tuttavia non ci saranno ancora espressioni ufficiali di palese consenso in quanto viene lasciata alle varie diocesi la regolamentazione dell’uso del velocipede.
Questa libertà di regole produrrà una serie di norme, spesso di difficile comprensione se non addirittura inattuabili. Infatti viene introdotta nel 1920 a Padova, e successivamente anche e Milano, una tessera per l’autorizzazione all’uso del velocipede solo per i preti di campagna purché non se ne protragga l’uso oltre l’ora dell’Ave Maria.
L’utilizzo del velocipede è però sempre condizionato al rispetto del decoro e all’impiego di biciclette adatte a mantenerlo. Si diffonde così l’uso della bicicletta levita o più comunemente denominata “del prete”. Impossibile quindi per il clero usare biciclette da uomo e meno ancora da corsa.
DON CAMILLO RIBELLE
In questo modo riusciamo così meglio ad inquadrare quella scena del film “Don Camillo” quando l’indomito curato passa dinnanzi al bar con la sua bicicletta Stucchi da corsa suscitando l’ilarità degli avventori, che lo apostrofano come prete da corsa o come Bartali, tant’è che il vivace prete non si fa prendere dal timore, ferma la bici poggiandola a terra e inizia un parapiglia che lo porterà addirittura a alzare un tavolo per scaraventarlo contro gli avversari.
Quella reazione di don Camillo, che vista con gli occhi di oggi sembra molto sopra le righe, è solo apparentemente esagerata: in realtà egli sta semplicemente difendendo quel suo diritto ad andare in bicicletta conquistato, dai preti, dopo tanti decenni di divieti. Decisamente più ortodossa invece la scena finale del terzo film: “Don Camillo e l’Onorevole Peppone”, per la regia di Carmine Gallone, dove i due protagonisti fanno ritorno al paesello in bicicletta con il reverendo che, consentiteci la battuta, in modo ortodosso usa una bicicletta da donna.
Ma come spesso succede la realtà supera la fantasia, ed ecco così che nel maggio del 1952 don Danilo Cubattoli, sacerdote tifoso di Bartali che esercita il suo ministero nel popolare quartiere fiorentino di San Frediano, tanto caro a Vasco Pratolini, lancia la sua sfida ciclistica a un gruppo di giovani comunisti. Non volendo infierire contro i ragazzi, concede loro anche il vantaggio ma a metà gara l’intrepido prelato sarà già primo e tale arriverà al traguardo.
Solo dalla metà degli Anni ‘50 la bicicletta sarà uno strumento d’uso quotidiano per i preti. Siamo però ormai nell’era della motorizzazione e nessuno si meraviglierà più se il prete si presenta con un Guzzi Galletto.