Fake news, ecco un termine molto usato, forse abusato, di cui solo pochi anni fa ignoravamo l’esistenza: la solita espressione anglofona sotto cui si nascondono gli italici termini di menzogna, falsità, panzana, frottola, impostura, insomma quello che nel gergo di strada si chiamano “balle”.
Oggi, con il proliferare dei social, le fake news hanno trovato il loro terreno più fertile, così assistiamo a una schiera di indomiti coltivatori che sono perennemente intenti a dissodarne il fertile humus per seminare, coltivare e far crescere “balle spaziali” che trovano poi consumatori, a volte ignari a volte in malafede, pronti a propagarle e amplificarle. D’altra parte il ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels aveva già capito, quasi cento anno fa, che “se dici una menzogna enorme e continui a ripeterla, prima o poi il popolo ci crederà”.
Il problema è che le false notizie sono sempre esistite, ma finché queste restano relegate ai modesti aspetti del vivere quotidiano poco importa. Tuttavia, quando divengono delle vere e proprie menzogne storiche allora la questione si fa seria. E di menzogne è piena anche la storia dei velocipedi, soprattutto dei primordi, dove si annidano ancora molte fake che sono ancora ritenute verità storiche assolute e spesso citate. Vediamo quindi di dare la caccia e smascherare alcune delle più eclatanti.
Un falso Da Vinci
In alcuni testi relativamente recenti di storia della bicicletta si trova citata la bicicletta di Leonardo, descritta spesso come l’idea antesignana del velocipede. In qualche museo se ne trova l’immagine come citazione di origine storica, quando addirittura non viene esibito un bel modello di lucido legno. Siamo però in presenza di un falso clamoroso! Per smascherare questa menzogna dobbiamo prima ripercorrere brevemente la storia e la composizione del documento su cui è disegnata la bicicletta vinciana, ovvero le pagine 132 e 133, precedentemente numerate 48 recto-a e 48 recto-b, del Codex Atlanticus, conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. Il Codex è la raccolta, parziale e postuma, dei fogli su cui Leonardo aveva scritto gli appunti delle sue numerose ricerche o trascritto le sue idee, completandole con disegni e schizzi di ogni genere.
Si deve allo scultore Pompeo Leoni la realizzazione di quello che inizialmente era conosciuto come “Grande Libro”. Infatti il Leoni, venuto per alterne vicende in possesso di tre volumi leonardeschi, li smembrò e li riassemblò, tra il 1589 e il 1604, incollandoli su grandi fogli del formato tipico degli atlanti. Nel ‘700 quel formato della carta darà il nome di Codex Atlanticus alla raccolta.
Ma quello che più interessa è la metodologia che utilizzò Pompeo Leoni per realizzare il Grande Libro. Egli tolse i fogli dai volumi originali e li incollò su nuovi fogli più grandi, di formato atlante appunto, realizzando però delle finestre nei fogli di supporto quando l’originale vinciano portava dei disegni su entrambe le facciate del foglio originale.
La raffigurazione della controversa bicicletta si trova sul retro di un foglio, ma stranamente – e unico caso del Codex – non era tra le pagine “a finestra”. Quindi significa che in origine Pompeo Leoni non aveva ravvisato la necessità di realizzare la finestra nel foglio di supporto, in quanto il foglio originale non presentava sul retro alcun disegno. Infatti la incollò senza fare alcuna apertura che lasciasse visibile l’altro verso. Solo con il restauro del Codex, avvenuto nel 1961 a opera di Augusto Marinoni, si scoprì la bicicletta e si aprirono subito infinite discussioni.
Le moderne analisi condotte portano ad affermare che il disegno è stato fatto con una matita moderna. Il foglio presenta delle abrasioni in corrispondenza del centro del disegno delle ruote ed evidenti segni di un uso del compasso, cosa assolutamente mai presente nei disegni leonardeschi. Inoltre, anche il colore marrone non corrisponde alle tonalità usate dal genio toscano, così come mai Leonardo aveva usato il colore nero presente invece nel disegno del velocipede. Ma anche da un punto di vista tecnico ci sono notevoli incongruenze. Infatti, se si realizzasse tale progetto si scoprirebbe che la bicicletta non avrebbe lo sterzo. Qualcuno ha sostenuto che lo sterzo sarebbe simile al triciclo Quadrant, ma appare evidente che nel disegno non ci sono i tiranti necessari a formare il quadrilatero dello sterzo che nel velocipede inglese lavora al di sotto del telaio. Sebbene le riproduzioni in legno della bicicletta di Leonardo ormai si sprechino, appare evidente che il genio fiorentino non ha mai realizzato quel disegno. Siamo così in presenza di un falso storico la cui diffusione meriterebbe di essere fermata.
L’inesistente Velocifero
Tutti i libri di storia dei velocipedi citano il Celerifero (detto anche Velocifero) del Conte di Sivrac, che verso la fine del ‘700 sarebbe stato usato lungo i boulevard parigini. Questo mezzo era costituito da due ruote unite da una trave di legno con la parte anteriore a forma di testa equina, ma senza sterzo. Il primo a citare e descrivere il personaggio e il suo mezzo è stato Louis Baudry de Saunier, giornalista a Parigi che nel 1891 scrisse il libro “Histoire générale de la vélocipédie”, primo tomo di storia del ciclismo che riscosse grandissimo successo nella sua epoca. Per quanto riguarda il Velocifero, Baudry de Saunier si addentrò in particolari credibili e ricchi di suggestione. Troppa! D’altra parte come poteva un francese, a distanza di soli vent’anni dal disastro della guerra franco-prussiana irrimediabilmente persa a Sedan contro la Germania, accettare che proprio il tedesco Von Drais avesse il merito di essere il padre del velocipedismo?
All’epoca tutti i particolari della storia raccontati nel libro di Baudry de Saunier vennero accettati come veri senza effettuare riscontri storici, fino a che il “solito” inglese ci mise lo zampino. Fu infatti Richard Jeanes, professore alla facoltà di storia dell’arte dell’università di Parigi, il primo a investigare nel 1950 sulla verità storica delle affermazioni contenute nel libro di Baudry de Saunier, scoprendo che non esistevano in Francia prima del 1818 mezzi a due ruote con il nome di Celerifero o Velocifero. Anzi, questi termini non erano nemmeno in uso in quegli anni, risalendo la loro origine etimologica agli Anni ’70 dell’800.
Queste sue scoperte restarono però sconosciute e sepolte negli ambienti accademici sino a quando, per puro caso, l’estensore incaricato di occuparsi della sezione ciclismo dell’Enciclopedia Britannica non fece vedere quanto scritto proprio al professor Jeanes, il quale ebbe cura di far recepire i risultati delle sue ricerche nell’enciclopedia. Purtroppo nessuna rilevanza mediatica fu mai data agli studi del professor Jeanes, così ancora oggi molti ignari scrittori di storia del ciclismo citano il Celerifero o Velocifero di Sivrac tra i progenitori del velocipede. In realtà col termine “Velocifero” si intendeva il carro inventato da M. de Chabannes sul finire del XVIII secolo e di cui si ha notizia dai verbali dell’Accademia delle Scienze francese, la quale il giorno 25 Termidoro dell’anno 12 della rivoluzione (13 agosto 1804) discusse dell’invenzione del carro velocifero. Il termine Velocifero inteso come “carro veloce” ebbe poi a generare il termine velocipede, con la sostituzione del suffisso -fero con -pede indicante l’arto umano. La creazione di questo neologismo la si deve a Louis-Josef Dineur, l’estensore per conto di Karl Drais della domanda di brevetto della draisina all’ufficio brevetti di Parigi nel gennaio del 1818. Perciò, con buona pace dei nostri cugini d’Oltralpe, non solo il velocipede è un’invenzione tedesca ma anche l’amato termine “vélocipède” ha a che fare con la teutonica inventiva.
L’affaire michaudine
Che la michaudine non sia stata opera di Pierre Michaux, agli occhi di molti cultori della storia delle origini dei velocipedi, potrebbe quasi assumere il valore di una bestemmia, ma in realtà siamo di fronte a una delle meglio congegnate e ancor meglio propagandate mistificazioni della storia. Al centro di questa fake news si colloca l’invenzione della pedivella. Personaggi principali di questa vicenda, che a volte sembra assumere le tinte di un feuilleton ottocentesco, sono la famiglia Michaux (con Pierre e il figlio Ernest, titolari di un’officina di fabbri a Parigi), Aimé e René Olivier de Sardeval (due rampolli di una facoltosissima famiglia della più alta borghesia industriale di Francia) e Pierre Lallement (modesto operaio trasferitosi a Parigi agli inizi degli Anni ‘60 dell’800). Vi sono poi dei comprimari come Henry Michaux, figlio di Pierre e fratello minore di Ernest, Richard Lesclide, la di lui moglie Juana e Pierre Giffard (tutti giornalisti), il già citato Lous Baudry de Saunier e una nutrita schiera di comparse provenienti dal mondo del velocipedismo francese nel periodo tra il finire degli Anni ’80 e la metà degli Anni ’90 del XIX secolo.
La storia “classica” racconta che il velocipede avrebbe visto la luce nel laboratorio Michaux nel 1855, allorché venne applicata la pedivella alla ruota anteriore di una draisina. Molto si discusse sulla stampa degli Anni ’80 se l’idea fosse da attribuire a Pierre o a Ernest. Va innanzitutto chiarito che nel 1993 l’ICHC (International Cycling History Conference), il più qualificato organismo mondiale per la ricerca della storia della bicicletta, riconobbe la paternità della pedivella a Pier Lallement. Ma ancora oggi molti sono scettici nel riconoscere l’invenzione del “boneshaker” (scuotiossa), per dirla all’inglese, al modesto operaio Lallement. Recentemente, con un interessantissimo articolo di David Herlhy apparso sulla rivista inglese “Boneshaker”, house organ dell’VCC (Veteran Cycles Club), si è fatta ulteriore luce con nuovi documenti su questa storia.
Ma come si era costruita questa fake news e soprattutto quali sono gli strumenti che abbiamo per smascherarla? L’elemento che balza subito all’attenzione dello storico è che in Francia, patria riconosciuta della pedivella, non esiste un brevetto della stessa. Cosa alquanto strana se si pensa che già Karl Drais ebbe a ottenere il brevetto della draisina con la domanda depositata il 18 gennaio 1818 e la patente concessagli il 17 febbraio 1818. L’unico brevetto del velocipede è quello derivante dalla richiesta depositata da Pierre Lallement e James Carrol nel 1866 negli USA, dove il velocipede veniva così descritto: “Simile alla macchina già brevettata da Denis Johnson [il padre inglese delle Draisine, ndr] ma munita di leve alla ruota anteriore che ne permettono l’utilizzo senza appoggiare i piedi a terra”. «Curiosamente la macchina raffigurata nel suo brevetto era pressoché identica a una di Michaux commercializzata un anno dopo, a eccezione di alcuni accessori come il freno», afferma David Herlhy nel suo libro frutto delle ricerche presentate per la prima volta al congresso internazionale di Boston della ICHC (International Cycling History Conference) il 16 ottobre 1993, data epocale nella quale venne riconosciuta la paternità a Pierre Lallement.
Ma i più accorti tra i lettori potranno obiettare che in una pubblicità del 1867 apparsa sul Courrier de la Drôme si leggeva: “Velocipedi a pedali Michaux, inventore brevettato, S.D.D.G”. Questa pubblicità venne intensificata verso la metà del 1869, allorquando Michaux, venuto ai ferri corti con i fratelli Olivier entrati in società pochi mesi prima, aveva necessità di propagandare i suoi velocipedi. In realtà Michaux diceva la verità, essendo veramente titolare di un brevetto, ma questo nulla aveva a che fare con le due ruote, in quanto riguardava una locomotiva a vapore in miniatura adatta a trainare dei modellini di carrozze su cui i passeggeri stavano a cavalcioni e che veniva impiegata come curiosità nelle aree fieristiche.
Le affermazioni sulla attribuzione dell’invenzione a Michaux iniziarono a circolare già nel periodo d’oro dei boneshaker, tra il 1867 e il 1870, e ciò grazie alle affermazioni di Ernest Deharme che nel suo libro “Les merveilles de la locomotion” spiegò, senza citarne le fonti, che la pedivella sarebbe stata inventata da Ernest Michaux nel laboratorio di Saint-Denis, alle porte di Parigi, quando nell’officina paterna entrò una carrozzina per invalidi che proprietario voleva trasformare per permettere al suo servo di spingerla stando seduto, contribuendo egli stesso all’azione di spinta.
Vediamo quindi tutte le contraddizioni di questa prima versione dell’invenzione della pedivella. Innanzitutto, nel 1855 Ernest Michaux aveva solo tredici anni, essendo nato il 29 agosto 1842 e sembra francamente improbabile che un giovane di bottega potesse avere le capacità tecniche per realizzare le modifiche richieste. In secondo luogo, la tipologia del mezzo modificato è di fondamentale importanza per smascherare la falsità. Infatti la carrozzina per invalidi presuppone innanzitutto che il veicolo abbia più di due ruote e che il suo utilizzatore abbia l’impossibilità di utilizzare le gambe, per cui certamente non poteva contribuire all’azione di spinta con una pedivella ma solo con l’uso di una manovella. Da ultimo c’è da chiedersi come mai dal 1855 al 1863 circa non si abbia alcuna notizia del velocipede dei Michaux e non ci fu alcun articolo riguardo agli incidenti, eventi invece molto frequenti a partire dalla metà degli Anni ’60 e di cui spessissimo la stampa si occupava. Per la verità vi sarebbe una traccia storica del mezzo del 1855, allorquando, al Bois de Boulogne, la Compagnie Parisienne des Vélocipèdes, subentrata alla Michaux et C.ie, organizzò una mostra per dimostrare la rapida evoluzione tecnologica del velocipede. In tale mostra, tra un relitto di draisina e un “vero velocipede” del 1865, venne esposto un mezzo di cui non si ha nessuna descrizione e del quale non si conosce quante ruote avesse, ma che certamente non era un “vero velocipede”.
Nel marzo del 1882 sulla Revue des Sport si leggeva: “Il primo costruttore [Michaux, ndr] di velocipedi che ha reso un grande servizio alla nostra causa propagando sin dal 1855 il nostro mezzo di locomozione”. Questa affermazione rientra nel lancio di una campagna di sensibilizzazione per la costruzione di un monumento a Pierre Michaux, deceduto poche settimane prima. L’articolo proseguiva raccontando la storia della pedivella, che era stata applicata per la prima volta nel 1855 su una draisina dopo una riparazione. Il 28 marzo 1893, in un lettera inviata al giornale l’Eclair, Henry Michaux affermava che la pedivella fu per la prima volta applicata 32 anni prima, quindi nel 1861, nell’officina del padre Pierre, allorquando il fratello Ernest, uscito in Rue Montaigne a provare la draisina del cappellaio Brunel dopo averla riparata, avrebbe detto al padre che era scomoda perché durante la discesa non si sapeva dove mettere i piedi. Allora il padre avrebbe affermato di mettere un repos-pied, anzi di applicarne uno fatto come la manovella della mola. Per capire questa lettera dobbiamo prima di tutto chiarire chi era Henry Michaux e qual era il contesto storico di quel 1893.
Henry Michaux, figlio minore di Pierre, pur spacciandosi come industriale aveva fama di avventuriero e quando scrisse la lettera abitava a Londra. Molto interessante il contesto storico ciclistico di quegli anni, con l’industria francese del velocipede che era stata messa in crisi dal successo delle safety cycles inglesi, in particolare dal modello Rover, che conquistavano fette di mercato sempre più vaste.
Tra i moltissimi appassionati serpeggiava il timore di perdere il primato nazionale nella storia del velocipede, che sembrava diventare sempre più appannaggio dei cugini d’oltre Manica. La stampa, condividendo questa preoccupazione, cercava di sostenere la storia patria delle due ruote con le più svariate iniziative, tra le quali si inserisce la campagna di raccolta fondi per la costruzione di un monumento per ricordare Pierre Michaux come inventore del velocipede, da collocarsi a Bar-le-Duc, paese natio del fabbro. Uno dei maggiori fautori di questa campagna fu Richard Lesclide, direttore e fondatore del Vélocipède Illustré, la più prestigiosa rivista francese di ciclismo.
Vediamo ora come si svolsero i fatti, cercando di fare chiarezza in una storia ricca di zone d’ombra e interessi personali spesso abilmente occultati. Henry Michaux venne a conoscenza di questa campagna in un caffè di Londra, forse avendo trovato un numero della rivista di Lesclide, nel frattempo deceduto. Subito si affrettò a scrivere a Juana Lesclide, la vedova di Richard. Nella lettera, inviata verso la metà del 1892, ricordava come il marito, presentando al padre molti clienti, avesse contribuito venticinque anni prima al successo delle vendite di velocipedi Michaux. Ovviamente ringraziava per l’iniziativa intrapresa a favore della costruzione del monumento in ricordo del padre e si dichiarava disposto a dare una mano. La risposta di Juana fu ferma nel ribadire che il suo giornale, in quanto organo dell’industria del velocipede, sarebbe stato il solo supporto per la campagna.
Nel mese di agosto, la rivista La Revue des Sport anticipò il Vélocipède Illustré, forse su sollecitazione dello stesso Henry, lanciando la campagna di raccolta fondi in ricordo di Michaux. Tuttavia Henry in una lettera invitò la rivista a desistere, in quanto l’esclusiva per la raccolta era del giornale di Juana Lesclide. Una mossa molto abile, con la quale Henry Michaux sperava di migliorare i rapporti con Juana. In questo periodo Henry già affermava che la sua famiglia aveva inventato la pedivella nel 1861. Il 6 ottobre 1892 l’Accademia Parigina degli Inventori accreditò Ernest Michaux come inventore della bicicletta nel 1861. Dietro questo accredito non poteva che esserci Henry, che vedeva così notevolmente rafforzata la sua posizione con maggiori possibilità di ottenere dei vantaggi da essa.
In effetti il Vélocipède Illustré riportò, dietro indicazione di Henry, che l’invenzione della bicicletta era stata fatta dalla famiglia Michaux nel 1861, grazie alla produzione di un paio di modelli, mentre nel 1862 i modelli sarebbero stati 142 e prima dell’expo universale del 1867 ne furono prodotti addirittura 1100. Questi numeri non possono essere veri ma solo il frutto di fantasie di Henry, il quale non fornì mai alcuna prova di questa massiccia produzione. La falsità della stessa è anche indirettamente confermata dal fatto che non si ha notizia della circolazione di boneshaker nella Parigi dei primi Anni ’60 del XIX secolo. Addirittura Henry arrivò ad affermare che il velocipede paterno sarebbe stato visto il 24 aprile 1861 anche dall’Imperatore Napoleone III, allorquando il monarca, seduto nella sua carrozza, avrebbe incrociato e salutato Pierre Michaux mentre attraversava Place de la Concorde pedalando sul primo velocipede. Ovviamente non c’è alcun riscontro storico di questo incontro. Tutte queste affermazioni e il comportamento di Henry ebbero come obiettivo il riavvicinamento a Juana sul finire del 1892. Tuttavia nel febbraio del 1893 la vedova Lesclide, appresa l’esistenza del brevetto di Lallement datato 1866, perse la fiducia in Henry e i loro rapporti si raffreddarono nuovamente e irrimediabilmente, tanto che sul numero della rivista del dicembre 1896, parlando della storia del velocipede, si affermava che: “Mancano le principali informazioni sulla questione Michaux”.
Se da una parte l’interesse per la campagna di raccolta fondi del Vélocipède Illustré era scemato, dall’altro l’opinione pubblica si aspettava invece che l’iniziativa proseguisse velocemente, anche perché certa parte della stampa, capeggiata dal giornale Le Vélo e dal suo editore Pierre Giffard, era pronta ad avviare comunque la raccolta fondi. Giffard, in un’intervista apparsa sul numero di gennaio 1893, ebbe a dire: «Sapete cari colleghi perché questo progetto [la raccolta fondi, ndr] sta avendo un sacco di tribolazioni? Perché l’origine del velocipede mancherebbe di chiarezza. Michaux? Certamente. Ma chi altro se non lui». Juana, avendo ricevuto assicurazione da Henry di non aver autorizzato Giffard, fece desistere il giornale concorrente dall’intraprendere la raccolta fondi, ma la stessa venne invece attivata da un certo Ricaudy, capo di un’associazione di giornalisti del ciclismo. Giffard e Ricaudy, con l’appoggio di Charles Busselot, sindaco di Bar-le-Duc, avviarono la sottoscrizione pubblica.
Giffard a questo punto offrì a Henry Michaux, che nel frattempo era ritornato a vivere a Parigi, la collaborazione per il lancio di un nuovo marchio di biciclette. Henry era consapevole che se avesse accettato i rapporti con Juana si sarebbero definitivamente interrotti, ma dopo l’offerta di altri vantaggi economici non ebbe più dubbi e passò a collaborare con Giffard. I due avevano però differenti vedute, in quanto Giffard sosteneva che il velocipede era nato nel 1855 mentre Henry confermava di essere stato testimone oculare dell’invenzione nel 1861. Questa fu alla fine la tesi che il pragmatico giornalista accettò, nella speranza di far ammettere a Henry che l’inventore era stato Pierre e non Ernest. Infatti era ancora tutta aperta la discussione sull’attribuzione dell’invenzione, che restò al centro dell’attenzione pubblica per diversi mesi.
Come se non bastasse, la vicenda si complicò ulteriormente quando Juana Lesclide, intenzionata a contrastare il successo dell’iniziativa di Giffard, contattò Aimé Olivier, uno dei fratelli che erano stati soci di Pierre Michaux nella Michaux et C.ie, il quale disse che il velocipede era nato per mano di Pierre nel 1855 e di esserne stato testimone oculare. L’intervento di un arrabbiato Baudry de la Saunier smascherò Aimé, che nel 1855 era un ragazzo che viveva a Lione e che non poteva essere stato testimone oculare di un fatto avvenuto a Parigi. A questo punto Aimé, per celare la figuraccia, affermò che l’inventore era stato il suo amico Georges de la Bouglise. Eravamo chiaramente nella menzogna totale. Alla fine furono la sagacia e la salomonica decisione di Giffard a portare la vicenda verso una soluzione definitiva, con Henry che accettò la versione secondo la quale il padre Pierre non aveva inventato la pedivella ma l’aveva solo costruita e propagandata, mentre l’idea era di Ernest. Questo portò finalmente alla realizzazione del monumento di Bar-le-Duc che venne salomonicamente dedicato a Pierre e Ernest Michaux. Ancora, in tempi più recenti, essi sono stati ricordati assieme in una commemorazione postale del 1983.
Dopo l’inaugurazione si fece vivo un testimone d’eccezione, che rapidamente finì per far regredire la questione della pedivella al suo momento iniziale: l’invenzione non era dei Michaux. Questo autorevole teste è il più volte citato cappellaio Louis Brunel, che secondo la versione di Henry aveva portato una draisina guasta per la riparazione nell’officina paterna, dove sarebbe stata applicata la prima pedivella. Brunel confermò di aver fatto fare delle riparazioni ai Michaux, ma mai gli era stata consegnata una draisina con la pedivella. Ora c’è da chiedersi come e perché Henry Michaux abbia fatto riferimento a Brunel nel marzo del 1893 e soprattutto se sapesse, cosa improbabile, che il cappellaio fosse ancora vivo.
Henry era sicuramente a conoscenza dell’articolo della Revue des Sports del 1882, dove si parlava per la prima volta della draisina guasta e, animato dall’intento di dare un’ulteriore credibilità alla tesi, parlò del cappellaio, di cui poteva avere dei ricordi di gioventù o di cui aveva visto il nome tra coloro che avevano aderito alla sottoscrizione pubblica. A ben vedere la storia della draisina “pedalizzata” non è mai stata accertata e inoltre è poco credibile per tutta una serie di fondate circostanze. Innanzitutto a Parigi nel 1861 non erano assolutamente più circolanti le draisine. Infatti, dopo il periodo iniziale di una modesta diffusione delle stesse, che possiamo collocare tra il 1818 e i primi anni del decennio successivo, non si hanno più notizie della circolazione del velocipede. C’è da chiedersi, inoltre, come mai il cappellaio Brunel all’epoca del lancio della campagna di raccolta fondi si tenne inspiegabilmente in disparte. Forse il fatto che circolasse il suo nome lo gratificava?
Il tema dell’invenzione della pedivella, comunque, avrebbe impegnato ancora molto gli appassionati negli anni successivi, e comunque possiamo affermare che se i Michaux non ne sono stati gli inventori ne sono stati certamente i primi grandi costruttori, capaci di apportare importanti innovazioni. Oppure forse anche il merito dell’avvio della produzione non spetta a loro? Questa è un’altra storia.