Una mattina del 3 giugno 1927, sulla strada che corre lungo il Tagliamento
Con la faccia insanguinata accompagnò per mano la bicicletta da corsa. Si fermò, l’appoggiò a un paracarro, si stese nel prato. Qualcuno di passaggio lo vide e accorse. A spalla lo portarono al paese, a Peonis, poche centinaia di metri. All’osteria, lo fecero sedere, ma lui non parlava e forse non capiva nemmeno. Decisero allora di trasportarlo con un carro all’ospedale di Gemona. Intanto qualcuno dall’ufficio postale telegrafò a un dirigente del Club Ciclistico Udinese: «Trovato ferito semiprivo sensi vittima incidente ciclistico su strada Cornino-Trasaghis si informa codesta società che basandosi da carte trovate sia Bottecchia Ottavio corridore d’Italia».
Sì perché, Bottecchia Ottavio, «corridore d’Italia» lo era davvero. Una gloria recente e improvvisa, poche stagioni fa, lo aveva innalzato, umile faticatore dei pedali, agli onori sportivi nazionali, e non solo: trionfatore del Tour de France per due anni consecutivi, 1924 e 1925. Ora, a 32 anni, forse aveva già inesorabilmente intrapreso la china della sua carriera di campione, tardiva nello schiudersi, rapida nell’esplodere ed esaurirsi in due anni. Tutti sapevano che si stava allenando per il Tour che sarebbe partito tra poche settimane; era convinto di poterlo vincere ancora. Era pur sempre l’eroe di queste terre: veneto, figlio del Piave e del Livenza, ma presto adottato dalla pianura friulana, dai colli e dalle montagne che ne incorniciano l’orizzonte.
Con i sobbalzi del carro, le ore sconfinavano incerte tra il dolore della vita in fuga e l’accogliente torpore dell’incoscienza. Si lasciò così sfilare in fondo al gruppo dei ricordi e li rivide uno per uno. Rimandava a memoria parole e nomi francesi: Aubisque, Tourmalet, Col d’Allos, Izoard, Luchon, Perpignan, Velo d’Hiv… Suoni strani che non aveva mai capito bene, che non aveva mai imparato a pronunciare.
A dirla tutta, non se la cavava nemmeno tanto bene con l’italiano. Alla Milano-Sanremo del ’23 al giornalista della “Gazzetta” che lo voleva intervistare non sapeva proprio cosa dire; e allora quello – gli avevano poi detto che era uno importante, un maestro della penna, un certo Bruno Roghi – si era inventato tutto, anche la storia del mazzo di fiori. «Custodiva in grembo, come fosse un putto di terracotta, un gran mazzo di garofani fiammanti. Mi disse che i fiori li portava a so mugièr». Ma quali fiori? E ci aveva messo anche la storia del nome. «Il nome di battesimo era rotondo e pomposo, di un senatore romano o di un duca altero: Ottavio. Il cognome rovinava tutto; faceva perfino ridere. Come si fa a scalare l’Olimpo e chiamarsi Bottecchia». Si fa, si fa… Mai scalato l’Olimpo, però l’Aubisque e il Tourmalet quelli sì. Quanto al nome, inutile scomodare i romani: Ottavio, i suoi genitori glielo hanno messo perché era l’ottavo, dopo sette fratelli.
I francesi invece lo chiamavano Botescià, che suona meglio di Bottecchia. Certo, non gli andava giù che un macaronì senza nome arrivasse e facesse piazza pulita: maglia gialla dalla prima all’ultima tappa, distacchi di mezz’ora. Allora qualcuno cercava il pelo nell’uovo e ne criticava l’impaccio di quando si fermava a girare la ruota per cambiare il rapporto. O si lamentava di quel suo modo così poco epico di arrivare davanti a tutti, solo semplice fatica. La stessa fatica del cariolante, del muratore, del taglialegna: anche quando vinceva avevi una smorfia malinconica, due solchi profondi intorno alla bocca e al naso affilato e ricurvo. Non appena potevano eccoli pronti a mettergli i bastoni fra le ruote: i fratelli Pelissier, al Tour del ‘23, correvano con la tua stessa maglia, quella dell’Automoto, ma avevano fatto di tutto per non lasciarti vincere, e ci avrebbero provato ancora l’anno dopo: ma non ce n’era proprio per nessuno, neanche per la rogna.
Quella rogna che invece continuava a perseguitarlo in Italia: cadute, incidenti meccanici, forature, e poi le cotte improvvise, le indigestioni. Tutti a dirgli: «Devi imparare ad alimentarti per bene in corsa». Il problema era che per anni il difficile era stato mangiare e basta. Quando lo stomaco iniziava a mordere, lui s’ingozzava tutto quello che c’era: una fame troppo antica.
La fame e la fatica: non se le poteva certo dimenticare le sgroppate a caricare legna su nel Cansiglio e a trasportarla nell’Alto Isonzo, per ricostruire i paesi distrutti dalla Grande Guerra…
Caporetto: bersagliere al fronte, prigioniero per tre volte e per tre volte in fuga. Medaglia di bronzo al valore: «Con calma e ardimento, sotto il violento fuoco nemico, aggiustava tiri efficacissimi e falcianti con la propria mitragliatrice, arrecando gravi perdite all’avversario e fermandone l’avanzata. Costretto più volte ad arretrare, incurante del pericolo, portava seco l’arma e tornava a postarla aprendo sempre il fuoco sul nemico. Lestans, 4 novembre 1917». Una volta, sotto le armi, gli era pure capitato di fare una gara, da Casarsa a Gemona, e di vincerla, nonostante la mitraglia legata sulle spalle. La bicicletta era una Gerbi rossa fiammante, un lampo colorato nel grigio sporco della guerra e della paura. Cose che lasciano dentro il segno, ma che poi si tira avanti lo stesso. Come quando muore una figlia di sette mesi, di difterite. Come quando si è sull’orlo del fallimento economico e vengono a ipotecarti la casa di famiglia.
C’era stato però anche il tempo delle soddisfazioni: le migliaia di lire dopo la prima vittoria al Tour, il riscatto dell’ipoteca, la costruzione della casa a Pordenone, l’acquisto della OM 2000, una limousine a sei posti. Un lusso che non sapeva neppure come godere: si faceva accompagnare dallo chauffeur al Caffè Licinio, in centro, a Pordenone. Sapeva bene invece cosa farne del fucile da mille franchi, il premio per la seconda vittoria al Tour: roccole e appostamenti agli uccelli di passo nella campagna friulana.
Ma ecco ancora un ricordo confuso, anche se più recente: una birra gelata bevuta pochi minuti prima al bar della stazione di Cornino: «Che male vuoi che mi faccia – aveva pensato – Quante volte mi sono tuffato nelle fontane ghiacciate e nei torrenti delle Alpi e dei Pirenei, sotto la canicola del Tour?» Poi, ancora più rapida e indistinta, l’immagine del malore alla Bordeaux-Parigi, l’aprile scorso, un momento di appannamento, la testa che rimbomba e lo sguardo che si vela… Solo un attimo.
Lo stesso attimo che però era bastato a uccidere Giovanni, suo fratello. Era successo solo due settimane prima: tornava in bicicletta verso casa dopo una partita a bocce e un taxi lo aveva investito. E pensare che era stato proprio lui il primo dei Bottecchia a correre in bici.
Ma questa cos’è? Sembra un’inesorabile, crudele salita del Tour, di quelle che si fa prima a farle a piedi. All’ospedale di Gemona Bottechia si riprese, delirò, perse nuovamente i sensi. Le voci dei medici dissero che le condizioni erano gravi, erano disperate. Come se non volesse arrendersi all’onta dell’ultimo ritiro, resistette ancora per dodici giorni. Solo il 15 giugno decise di mollare: e mise il piede a terra.