Compiègne, Francia, 88 km a nord di Parigi.
16 aprile 1977. Aldo Gios sta sistemando gli ultimi dettagli nel quartier generale della Brooklyn. Arriva una voce: «Abbiamo un problema, Aldo: Roger si sente nervoso, domani non vuole partire». “Roger” è Roger De Vlaeminck e “domani” è il giorno della 75° Parigi – Roubaix. Il campione belga ne ha già tre in bacheca: ’73, ’74, ’75. L’anno prima solo uno straordinario Marc Demeyer gli ha negato la soddisfazione di essere il primo ciclista a centrare quattro vittorie. Anche Francesco Moser gli è arrivato davanti, in volata, e sarà al via anche quest’anno. Troppi i pensieri foschi che gli galleggiano nella mente: a meno di 24 ore dalla partenza, il “Gitano di Eelko” sta seriamente pensando di non provarci nemmeno.
«Mandatemelo qui», risponde Gios. Il telaista e meccanico torinese è da tre anni alla Brooklyn, la squadra italiana creata nel 1973 dall’imprenditore lombardo Augusto Perfetti che sotto la guida di Franco Cribiori si è affermata come una tra le più competitive al mondo. Tre anni in cui ha vissuto fianco a fianco con De Vlaeminck, condividendone ogni paura e assecondandone ogni desiderio, a partire dal mettergli a disposizione una bicicletta perfetta. Esattamente come quella che gli ha preparato per vincere la Roubaix del 1977. Il fuoriclasse belga la guarda, la inforca, percorre 3/400 metri, torna indietro. «Va bene, domani parto». E sarà la partenza che lo trasporterà dalla storia alla leggenda.
UN SUCCESSO ITALIANO
A raccontarlo è lo stesso Aldo Gios, che incontriamo nella sede della sua azienda di Volpiano, vicino Torino, dove ancora oggi, con il figlio Marco, produce biciclette in acciaio assolutamente “made in Italy”, al punto che chi le vuole – e sono molti – deve prendere un aereo o un treno per venire a farsele fare qui su misura, visto che non esistono altri punti vendita.
«Una volta era tutto diverso», racconta Gios ripensando a quegli anni. «Le squadre di ciclismo erano una grande famiglia dove corridori e meccanici vivevano insieme. De Vlaeminck aveva un carattere scontroso ma ci siamo intesi fin da subito. Si fidava di me per due ragioni: la prima è che gli avevo sistemato dei piccoli problemi che avevano sempre avuto le sue bici; la seconda è che non mi vedeva mai scendere dall’ammiraglia. Ero sempre al suo fianco, in gara, così come la mattina presto, quando c’era da fare colazione prima di partire. Eravamo una squadra vera, dove il meccanico era un fattore fondamentale per creare le condizioni che portavano alla vittoria. Poi – certo – lui aveva una classe eccezionale».
E del resto ancora oggi Roger De Vlaeminck è considerato uno dei principali interpreti di tutti i tempi nelle corse in un giorno. Non a caso, a un certo punto della sua carriera, venne soprannominato anche “Mousier Roubaix” grazie non solo alle quattro vittorie, ma anche per i quattro secondi e un terzo posto collezionati tra il 1969 e il 1982: quattordici stagioni in cui solo in un caso, nel 1980, non ha figurato tra i primi dieci. E poi tre Milano – Sanremo, un Giro delle Fiandre, una Liegi – Bastonge – Liegi e due Giri di Lombardia: unico insieme ai connazionali Rik Van Looy ed Eddy Merckx a riuscire a vincere tutte e cinque le superclassiche. Molto spesso in sella a una bicicletta da corsa Gios, come appunto quella preparata da Aldo per la Roubaix del ’77, che vedete in queste pagine.
«La Roubaix è sempre stato un inferno di pavè, ma con me De Vlaeminck non ha mai bucato» continua il telaista torinese. «Avevo un mio trucco, insegnatomi da un vecchio ciclista che faceva il rappresentante per la Clement. Secondo lui – e aveva ragione – i tubolari andavano messi a stagionare, come il vino, e non messi subito su una bici. Quelli che usava Roger erano stati messi due o tre anni in cantina, in assenza di luce, dove si erano irrobustiti. Inoltre, io facevo partire tutta la squadra con le stesse ruote di De Vlaeminck, così in caso di emergenza ci sarebbe sempre stato un gregario ad aiutarlo. Ma non è mai servito, per fortuna».
TRUCCHI DEL MESTIERE
I segreti di questa bici vincente, però, sono tanti, e passano anche dai cerchi Mavic “Servizio Corse”, il massimo che esisteva allora nel catalogo del produttore francese. «Erano cerchi di una tempra eccezionale, al punto che pur essendo di alluminio era impossibile tagliarli anche con un seghetto da ferro. A inizio stagione il signor Bruno Gormand, titolare di Mavic me ne diede solo 100. Io non pensavo di poter terminare tutte le gare della stagione, con la squadra che avevo, e invece mi bastarono, tanto erano resistenti. Poi c’è il connubio con la gomma, che deve lavorare. Oggi le gonfiano troppo, a 8/9 atmosfere».
La filosofia costruttiva di Gios – che potete trovare sul loro sito riassunta in un “decalogo” – si basa anche sulla grande importanza data agli angoli del telaio, che non solo dev’essere fatto assolutamente su misura, ma dove anche piccole variazioni geometriche possono fare la differenza. «Dico sempre che mezzo grado può fare anche mezzo chilo», prosegue Gios. «Tutti parlano di peso, ma è la stabilità a essere altrettanto importante, perché la bicicletta è il tuo peso distribuito sulle due ruote, per cui ogni angolo dev’essere personalizzato. Altro fattore fondamentale: ti deve permettere di riposare quando non sei al massimo dello sforzo, in bagarre. Io a De Vlaeminck la preparavo così, poi lui però non era uno tanto da risposo. Alla Roubaix del ’76, per esempio, Cribiori continuava a dirgli di non tirare che tanto non sarebbe mai rientrato nessuno, ma lui tirò fino alla fine per poi vedersi battuto in volata nel Velodromo, quando gli mancarono le gambe».
Polvere, fatica, uno stress infinito non solo fisico ma anche sul mezzo: questa è la Parigi – Roubaix, soprannominata “L’Inferno del Nord” per i suoi lunghi tratti di pavé, letali negli ultimi 30 km dove spesso si decide la gara. Strade strette, sconnesse, figlie della tradizione agricola e mineraria di queste terre. Oggi il pavé belga è tutelato e considerato un patrimonio da difendere, come le strade bianche de L’Eroica, ma negli Anni ’70 era tutto molto diverso.
«Dovevamo preparare biciclette in grado di sopravvivere a sforzi enormi», racconta Aldo Gios, «e la conoscenza del terreno di gara era fondamentale. Non solo per le bici ma anche per i ciclisti. Io studiavo tutto con grande attenzione, arrivando ad andare in Belgio anche un mese prima della corsa. Ho persino litigato con Cribiori, che lo riteneva eccessivo, ma alla fine mi presentavo alla partenza sempre preparatissimo e in grado di dare ottimi consigli ai corridori».
Una conoscenza del pavé che diventava determinante anche nel momento di progettarla, la bicicletta, come dimostra la forcella di questa Gios di De Vlaeminck che mostra una curva dello stelo particolarmente avanzata, con lo scopo di “scaricare” la ruota davanti. «Io ho sempre pensato che la forcella non dovesse appoggiare la ruota anteriore sui ciottoli, ma aiutarla a passarci sopra, con leggerezza», spiega Gios. «In questo modo la pedalata era più leggera e potevo aiutare Roger a spingere quando c’era da andare veramente al massimo. Era molto importante calcolare perfettamente il rake della forcella – ovvero l’avanzamento del forcellino rispetto alla linea di sterzo – perché altrimenti la bicicletta non andava più. Chi provava a imitarci, non cambiando l’angolo di sterzo per riequilibrare correttamente il rake, finiva per mettere a disposizione dei propri corridori delle bici non particolarmente stabili, mentre le mie erano sempre perfette. Una volta queste conoscenze erano diffuse e tutti le padroneggiavano. Oggi è più difficile».
DETTAGLI VINCENTI
Le bici di De Vlaeminck avevano poi altri piccoli vezzi, sostanzialmente ininfluenti ai fini delle performance ma che caratterizzavano il mezzo e davano tranquillità al corridore. Come le teste dei pedali tagliate come quelle da pista oppure i gommini sui manettini del cambio, una scelta che permetteva al campione belga, in caso di arrivo in volata, di cambiare utilizzando il ginocchio senza staccare le mani dal manubrio. Oppure la vite che stringeva il tubo sella, che De Vlamick voleva fosse una soluzione con il dado, come negli Anni ’30, per evitare il rischio che si potesse spezzare compromettendo irrimediabilmente la corsa.
La bici monta un gruppo Campagnolo Super Record con manubrio e pipa Cinelli 65. Dettaglio evidente è il pacchetto pignoni, tutto composto da rapporti particolarmente duri. «Sul pavé serve spingere», specifica Aldo Gios, «perché con il rapporto agile vai per terra». Ma a De Vlaeminck, almeno finché ha corso con bici Gios, non è mai successo.
«Io ero un meccanico un po’ pazzo», conclude il telaista torinese. «Lavoravo di notte, a orari strani, perché volevo delle bici perfette che non dessero mai problemi, e difatti non ne abbiamo mai avuti. In molti mi chiedevano come facessi ad andare d’accordo con De Vlaeminck, che aveva un pessimo carattere, ma per me era facile: lui era un campione e voleva che si trovassero per lui soluzioni da campione. E allora anche per noi meccanici, e non solo per i ciclisti, c’era da far fatica. Ma i risultati alla fine arrivavano».
Ci sono voluti 35 anni prima che qualcuno riuscisse a eguagliare il record di Roger De Vlaeminck. L’onore è toccato al connazionale Tom Boonen, che tra il 2005 e il 2012 vinse quattro volte la Roubaix. Tempi diversi, in cui tecnologia, preparazione, rapporti interni alla squadra hanno portato il ciclismo a essere molto distante dagli anni in cui il carbonio era ancora ben lontano dall’essere immaginato. Per questo, i grandi successi degli Anni ’70 di quel curioso ma efficacissimo connubio italo-belga alla Brooklyn rendono ancora oggi il blu Gios particolarmente scintillante.
Collezione e foto: Gios Torino IG: ios_torino_madeinitaly FB: Gios Torino Sito: www.giostorino.it
Scheda tecnica
Marca: Gios
Anno: 1977
Gruppo: Campagnolo Super Record
Ruote: Mavic Special Services des Courses
Telaio: tubi Columbus SL
Piega: Cinelli 65
Sella: Unicanitor Cinelli