C‘è una sigla che dice qualcosa solo a chi il ciclismo – e le biciclette che lo hanno nobilitato – lo conosce profondamente: PR82.
È la sigla di un colore rosso, più amaranto che acceso, ma importante al punto da essere inconfondibile anche per chi non sa che un colore con quel codice esiste, né tantomeno ne conosce il significato. È il codice del colore che Ernesto Colnago ha ideato nello specifico per il campione con cui più di tutti le bici di Cambiago si sono identificate e con cui sono arrivate a conquistare il mondo. È il colore rosso dedicato a Beppe Saronni.
Nato a Novara ma residente da sempre dove la provincia di Varese e quella di Milano si toccano, tra Buscate e Parabiago, vicino a Busto Arsizio e Legnano, Beppe Saronni ha sfrecciato da professionista per primo sul traguardo – nei suoi anni migliori in rosso PR82 – per ben 193 volte, infilando nel proprio carniere due Giri d’Italia, una Milano-Sanremo, un Giro di Lombardia, ben quattro Tre Valli Varesine (primato condiviso con Gianni Motta), un Campionato Italiano e lo straordinario successo al Mondiale inglese di Goodwood del 1982, di cui quest’anno ricorre il quarantennale, quello della famosa “fucilata”. Così, infatti, fu ribattezzata la straordinaria azione che, negli ultimi 400 metri, portò Saronni a vincere per distacco, senza fare nemmeno la volata, imprimendo sul finale un’accelerazione pazzesca. Scene finali che ancora vivono nella mente degli appassionati e che sintetizzano la potenza e la velocità che hanno caratterizzato la carriera del Capo – così iniziarono a chiamarlo i suoi, da un certo punto in avanti – fin dalle origini, da quando mieteva successi uno dietro l’altro da giovane e da dilettante, prima di approdare al professionismo non ancora ventenne, riscrivendo le regole e portando da subito scompiglio in gruppo. Questo e altro è stato Beppe Saronni, che abbiamo incontrato nella sede della UAE Team Emirates a Magnago, il team non solo del doppio vincitore del Tour, Tadej Pogačar, ma anche del “Puma” Alessandro Covi, fresco vincitore nella spettacolare tappa della Marmolada al recente Giro d’Italia. Come sempre, siamo partiti dalle sue origini, per capire come sia arrivata nella sua vita la passione per il ciclismo.
Il nonno, Tito Brambilla, è stato gregario di Libero Ferrario, primo campione del mondo dei dilettanti con la Gloria di Parabiago nel 1923. Che ricordi hai?
Mio nonno correva da indipendente e come tale si allenava con i corridori della zona. Tra questi c’era appunto Libero Ferrario, che insieme a me rende Parabiago l’unico paese con due campioni del mondo, che lo ingaggiava in squadra di volta in volta. Erano accordi che si facevano spesso al momento, prima delle gare, e mio nonno era uno dei suoi fedelissimi. Erano anni assolutamente eroici, quando per allenarsi si stava via due giorni e ci si alimentava in qualche modo. Mio nonno Tito mi ha seguito fino agli allievi e addirittura mi faceva fare il “dietro moto” con il suo motorino. Forse è lì che ho iniziato a sognare la pista.
Sempre restando in famiglia, il padre Romano è stato un ciclista dilettante, la mamma Giuseppina campionessa italiana di basket nel ’48 con il Legnano. I fratelli Alberto e Antonio (4 volte campione italiano di ciclocross). Una famiglia di sportivi.
In effetti con una famiglia del genere non potevo fare altro che dedicarmi al ciclismo! Io sono nato a Novara ma noi siamo di San Lorenzo di Parabiago. Dopo Novara ci siamo trasferiti qui in zona, a Buscate, ed è con la Buscatese che ho iniziato.
Cominci giovanissimo con la pista: sei campione europeo juniores di velocità nel 1970, campione lombardo e poi italiano. Da dove parte questo percorso?
Ho iniziato subito con la pista perché a Busto Garolfo, a pochi chilometri da Buscate, c’era una pista di allenamento con le curve non tanto rialzate, che non facevano paura come in velodromo. Erano tempi di grande fermento nel ciclismo e quasi ogni paese aveva la propria società. Andavo un paio di volte a settimana là ad allenarmi. Ero veloce e da lì ho iniziato subito a entrare nel giro della Nazionale, già dagli esordienti, girando in tutta Europa.
Alla fine saranno 189 le vittorie in pista.
Sì, ma era facile, perché in quegli anni oltre a tante società c’erano anche tante competizioni, per cui non c’era solo la gara della domenica ma si correva anche durante la settimana con le gare “tipo pista” serali, spesso alle feste del paese. Era veramente molto bello e le occasioni per vincere erano tante.
Nel 1976, da dilettante, sei alle Olimpiadi di Montreal con Sandro Callari, Cesare Cipollini e Rino De Candido, eliminato ai quarti di finale dall’Unione Sovietica. Cosa ricordi di quell’esperienza?
Fu davvero entusiasmante. Allora non era come oggi: c’era un solo volo alla settimana per andare e tornare dal Canada. Nonostante avessimo il record europeo come inseguimento a squadre, purtroppo non siamo andati bene. Però, dato che avevamo corso di martedì, siamo rimasti fino alla domenica a goderci tutte le gare e la vita nel villaggio olimpico. Indimenticabile per un giovane della mia età a quei tempi.
Passi professionista nel 1977 a 19 anni e mezzo, alla SCIC del patron Renzo Fornari e del DS Carlo Chiappano. Una squadra ambiziosa con tanti giovani come te e Baronchelli (terzo al Giro del ’77 e secondo al Giro del ’78) e campioni di lungo corso come Enrico Paolini e Wladimiro Panizza. Come fu il rapporto con la squadra?
Ho firmato il contratto nel ’76, appena compiuti 19 anni. I contratti allora andavano dal 1 novembre fino al 31 ottobre dell’anno dopo, così si cominciava già a lavorare con la squadra. La SCIC aveva qualche giovane ma anche tanti corridori di esperienza: Crepaldi, Gualazzini, Panizza, Paolini, Riccomi, Conati. È stato un bene passare in questa squadra perché ho potuto crescere con compagni che mi aiutavano e mi difendevano nel gruppo. Oggi è tutto molto diverso, una volta i giovani avevano un grande rispetto per i corridori più anziani. A Panizza ho dato del lei per un anno. Un’esperienza che senz’altro mi ha aiutato a crescere.
Primo anno da professionista: secondo al Laigueglia dietro Freddy Maertens, campione del mondo in carica (Ostuni 76 su Moser), poi vinci il Trofeo Pantalica, il Giro di Sicilia, il Giro del Veneto, quello del Friuli, in mezzo la Tre Valli Varesine. Arriva subito la Nazionale e la convocazione per San Cristobal, il mondiale di Moser e il primo con Alfredo Martini CT e Marino Vigna in ammiraglia. Partenza forte, te l’aspettavi?
Serve una premessa, posto che io sono sempre stato uno che ha portato un po’ di scombussolamento nel ciclismo. Una volta si passava professionisti a 21 anni mentre io ho potuto farlo a 19 anni e poco più. Questo perché siamo stati noi a forzare la mano, approfittando del fatto che l’anno prima era passata la legge secondo la quale si poteva votare a 18 anni. Ovviamente ci sono state polemiche e critiche, ma questo mi ha permesso di gareggiare subito con i “grandi”. Per me era tutto nuovo. Panizza mi chiamava “Balin”, in dialetto. Un po’ mi coccolavano ma soprattutto a un certo punto hanno capito che con me si poteva vincere. Allora non era come oggi, che si guadagnava dal contratto, il grosso lo si faceva con i premi, che venivano suddivisi in tutta la squadra. Anche per questo fin da subito mi hanno aiutato, difeso, accompagnato in tutte le vittorie. Presi in un certo senso il posto di Baronchelli, che fino all’anno prima era l’uomo di punta essendo arrivato secondo al Giro del ’74 a soli 12” da Merckx dopo l’impresa delle Tre Cime di Lavaredo. E infatti il Tista, che è un amico, alla fine del ’78 cambiò squadra.
La SCIC corre con le Colnago, che per la prima volta diventa sponsor in una squadra. Ricordi quando incontrasti Ernesto Colnago la prima volta?
È un legame che nasce prima della SCIC, perché io correvo con le Colnago già da dilettante, alla Pozzi di Giussano, dove il DS era Ugo Colombo, un ex-pro amico di Chiappano. Con gli anni Ernesto Colnago, persona di grandissimo valore, è diventato anche un amico. Biciclette assolutamente meravigliose, di grandissima qualità.
Nel 1979, a 21 anni, vinci il primo Giro d’Italia, uno dei vincitori più giovani di sempre. Una vittoria arrivata dopo tanta pista. Ti sentivi già allora un potenziale vincitore di grandi corse a tappe?
Fu per certi versi inaspettato, ma c’è anche una spiegazione che vale la pena di dare. Allora restare dilettante era spesso una perdita di tempo perché si era già pronti per correre con i grandi. Io, invece, ero riuscito a passare professionista molto giovane e questo aveva fatto una grandissima differenza dal punto di vista degli allenamenti e dello stile di vita. I dilettanti allora erano dilettanti veri. Io, per esempio, lavoravo alla Maxi Standa di Castellanza e il Dante, il mio responsabile di allora, che sapeva che correvo, mi dava due mattine libere a settimana per allenarmi. Nelle altre, quando dovevo essere in negozio alle 8.30 di mattina, mi alzavo alle 5.30 con il caffelatte nella borraccia e i biscotti frantumati dentro. Allora uno si chiede: perché sei migliorato così tanto? Semplice, perché poi ho fatto la vita da professionista. È lì che ho fatto il salto di qualità e sono riuscito ad avere le potenzialità per vincere il Giro.
In quel Giro furono fondamentali le due crono vinte, San Marino e Milano, in cui ti sei confrontato con Francesco Moser, poi secondo alla fine nella generale. Nella prima, soprattutto, grande attenzione ai dettagli: ruote da pista, tubolari in seta da pista, senza portaborraccia e nastro manubrio, pressione a 10-11 atmosfere. Quanto contarono?
La nostra bici da cronometro era quella che usavamo normalmente, alleggerita il più possibile con gli accorgimenti che hai citato. Facevamo tutti così perché non c’erano altre soluzioni, quindi contò ma fino a un certo punto. La cosa curiosa è che Torriani, giustamente, quel Giro lì l’aveva disegnato per Moser, esattamente come oggi i francesi, se avessero un corridore competitivo, disegnerebbero il Tour per lui. E quindi c’erano ben cinque cronometro. Noi, con Chiappano, facevamo finta di lamentarci ma sotto sotto pensavamo che se era disegnato per Moser forse andava bene anche per noi. Dovevi batterlo sul suo terreno perché di salite ce n’erano poche, ma alla fine c’è l’ho fatta perdendo poco dove ho perso.
A quel Giro cominciò in maniera prepotente il tuo dualismo con Moser, il più significativo tra due italiani nella storia dopo Bartali e Coppi. Al di là dei vostri rapporti personali, di cui si è scritto molto, cosa aveva il campione trentino più di te e quali erano le armi in più che invece ti hanno consentito di batterlo diverse volte?
In quegli anni ero avvantaggiato perché andavo meglio in salita e soprattutto ero più veloce, e siccome il Giro allora si giocava molto anche sugli abbuoni, di secondi ne recuperavo tanti anche con i piazzamenti. Ogni critica che ci facevamo – perché all’epoca eri là con tutti alla partenza e all’arrivo, e dovevi rispondere – aumentava il nostro dualismo e se andavi in giro nei bar erano tutti o per l’uno o per l’altro, come Milan e Inter, non si scappava. Quando andavi in giro ad allenarti o ti dicevano bravo o prendevi parole. Poi lui, quando facevo le mie battute, s’innervosiva e si vedeva [ride]. La grande qualità di Francesco, però, è che aveva un carattere che non mollava mai e che non si dava mai per vinto. Alla fine ha fatto anche di necessità virtù, spingendo sempre al massimo in gara per fare selezione, e questo conquistava i suoi tifosi. Ma era obbligato a farlo, perché se fosse stato lì con me fino al traguardo sapeva che l’avrei battuto, essendo più veloce.
1980 anno poderoso: sempre sotto la direzione di Chiappano la SCIC diventa GIS Gelati. Vinci la Freccia Vallone, sette tappe al Giro d’Italia (in cui però concludi solo settimo), tuo record, e il titolo nazionale professionisti. Concludi la stagione con ben 30 vittorie all’attivo. Che anno fu?
Erano tutte stagioni buone, perché si vincevano sempre almeno 20 corse, altrimenti era un’annata fallimentare e ti prendevi delle critiche fortissime, non come oggi che i corridori li tengono nascosti nel bus fino a 10 minuti prima della partenza. Noi invece eravamo sempre lì, in mezzo a tutti, e venivano i giornalisti, come Beppe Conti o Angelo Zomegnan, e ti pungolavano, ti riportavano voci, e tu dovevi rispondere al momento, stanco dopo l’arrivo, stufo. E venivano fuori le cose più interessanti: le polemiche, le critiche sportive, erano quelle che tiravano il dibattito tra la gente e che rendevano il ciclismo così popolare. Oggi anche nelle trasmissioni dopo la tappa, quando si dovrebbero fare domande tecniche e incisive, non ci si addentra mai in temi difficili. Lì sta la bravura del giornalista, fare le domande giuste, in maniera intelligente, e parlare anche degli errori. Noi siamo diventati dei grandi personaggi anche per questo e ancora oggi ci riconoscono per strada. Adesso, invece, nessuno viene più a spiegare niente e a prendersi delle responsabilità.
Nel 1981 tre frazioni al Giro con il terzo posto finale, ma soprattutto la medaglia d’argento facendo la volata con le mani nella parte alta del manubrio. Non mancarono le polemiche. Furono giuste?
La realtà è che la squadra non fece quello che doveva fare. Baronchelli ha cercato di tirarmi la volata ma non era proprio la sua specialità, così mi sono trovato allo scoperto ai 350 metri e sono dovuto partire. In quella parte la strada era ancora in salita, per quello avevo le mani nella parte alta, poi spianava e addirittura diventava in discesa. Se fosse rimasta in salita avrei vinto sicuramente, perché l’81 era l’anno in cui andavo più forte. Invece si è inserito Freddy Maertens, che non era certo l’ultimo degli arrivati, e mi ha battuto. Fu la sua ultima vittoria, poi non vinse più nulla. La posizione delle mani sul manubrio fu un dettaglio.
Il 1982 parte alla grande. Passi alla Del Tongo-Colnago, ancora sotto la guida di Chiappano. Nei primi mesi con la nuova maglia vinci il Giro di Sardegna, la Milano-Torino, la Tirreno-Adriatico, il Giro del Trentino e il Giro di Svizzera, mentre al Giro d’Italia, nonostante la vittoria nella tappa Cuneo-Pinerolo, ti devi accontentare del sesto posto finale. Partenza notevole.
Si era creato un ambiente bellissimo con la famiglia, ci sentivamo i loro figli ed eravamo tutti entusiasti. Allora non era come oggi, che in squadra sei in 30, noi eravamo 14/15. Ti serviva il buon aiuto di tutti e si era creato un clima veramente bello. Al Giro c’era Hinault che era imbattibile, per cui noi avevamo puntato sulle tappe. Lì ho capito di avere una grande condizione, soprattutto dopo aver vinto la Cuneo-Pinerolo, tappa iconica. Da lì, poi ho vinto il Giro di Svizzera, che non era disegnato per nessuno in particolare, ed è iniziata la mia stagione migliore, che sarebbe culminata nel 1983.
In estate viene a mancare Carlo Chiappano: che ricordo hai di lui? Quanto ha inciso sulla tua carriera?
È mancato a tutti perché era diventato un vero amico di famiglia, come se fosse un padre. Il DS era molto importante soprattutto per chi come me era giovane. Purtroppo è venuto a mancare in maniera tragica in un incidente. Ma in quel momento si era creato un clima che ti dava grandi motivazioni, che se potevi dare 100 davi il 120%. Si capiva anche dal modo di allenarsi e concentrarsi. E queste motivazioni in più, a parità di condizione, sono quelle che fanno la differenza.
Ci si avvicina poi al Mondiale di Goodwood. Il circuito era di 18 giri da 15 km con uno strappo finale sulla South Down, fino al 10%. L’avevi ritenuto subito un percorso adatto alle tue caratteristiche?
Il percorso in generale non era molto impegnativo, mentre l’arrivo mi piaceva molto perché c’era questa salita finale di più di un chilometro che era molto adatta a me. I compagni lo sapevano: se puntavo quella salita e avevo i primi a tiro era fatta. E così è stato. Quando sono arrivato prima dell’ultima curva ho dato lo strappo. Dalle immagini non si capisce bene, ma la pendenza era del 10% in alcuni tratti, altrimenti non si poteva dare quel distacco. Eravamo sicuri di vincere, anche se a Praga meritavo di più.
Moser, Argentin, Baronchelli, Gavazzi, tanti altri: che ruolo giocò la squadra in quel Mondiale? La famosa “fucilata” l’avevi preparata o è venuta con la gara?
Non c’era dubbio, il capitano ero io, riconosciuto anche da loro. Un po’ forse perché l’anno prima l’avevano fatta grossa e si sentivano in debito. Mi dicevano: «Capo, se ti portiamo al traguardo con i primi è fatta», e così è stato. Andavo comunque molto bene e si era già visto alle premondiali. In quegli anni la Tre Valli Varesine e la Coppa Agostoni erano davvero “mondiali”, venivano tutti i più forti. Se vincevi lì voleva dire che avevi la gamba. Oggi chi è più forte lo scopri solo direttamente al Mondiale.
L’Italia comunque si presentava sempre tra le favorite.
Martini ha vinto tanti Mondiali, ma qualcuno l’ha anche perso perché i corridori li aveva sempre ma non era facile farci andare tutti d’accordo. Quando ci riusciva, vincevamo.
Hinault, Zoetemelk, Kelly: qual era l’avversario che temevi di più in quel Mondiale?
Hinault era grandissimo ma più per le corse a tappe, in quelle di un giorno era battibile. Certo, il Mondiale di Sallanches del 1980 l’hanno proprio costruito per lui e difatti ha vinto. Sean Kelly era molto forte ma non ha mai vinto un Mondiale. Si affacciavano invece in quel momento gli americani, come Jonathan Boyer e Greg LeMond, che avrebbe vinto l’anno dopo, che erano davvero molto competitivi. E non a caso sono andato proprio a prendere Boyer prima di “sparare”.
Perché secondo te questa tua impresa è rimasta così tanto nella storia del ciclismo?
Sicuramente perché in così poco spazio ho fatto così tanto distacco. 50 metri prima dell’ultima curva eravamo ancora tutti insieme, sul traguardo sembrava che io fossi arrivato da solo. Hanno contribuito molto anche le riprese televisive, perché il regista ha saputo piazzare le telecamere in modo che non si vedesse solo il rettilineo lungo. Grazie a una visuale un po’ scostata è stato possibile vedere il distacco e la differenza di velocità. Fu davvero un’impresa raccontata benissimo.
Sul palco della premiazione vai scalzo. Si dice per via dei cinghietti troppo stretti. È vero?
All’epoca si usava tirare i cinghietti al massimo per essere più performanti, e dopo 7 ore era normale che i piedi facessero male. Ma non fu l’unica motivazione. All’arrivo, in zona premiazione, c’erano dei poliziotti inglesi che erano tutti dei marcantoni con delle scarpe che saranno state il 47/48. Vuoi mica dire che uno di loro mi ha pestato un piede? Ho dovuto togliere le scarpe dal dolore e sono andato sul podio con LeMond e Kelly solo con le calze!
In maglia iridata vinci il Giro di Lombardia, poi, nel 1983 la Sanremo come solo Binda, Merckx e Gimondi prima di te.
Finalmente! Dopo tre secondi posti pensavo non arrivasse più, ma è arrivata anche la Sanremo ed è stato bello vincerla con la maglia di campione del mondo, cosa che mi accomuna a pochi altri grandi fuoriclasse.
Poi la vittoria al Giro dell’83, in rosa già dall’ottava tappa. Fu più facile o più difficile di quello del ’79?
È stato più difficile ma per un altro motivo, che poi mi è pesato anche nelle stagioni successive. L’ultima settimana del Giro mi ero preso una bronchite che mi ha dato molto fastidio. Respiravo male, dormivo male. Però non potevo mollare, anche se nelle ultime tappe, soprattutto sul Pordoi, ho patito le pene dell’inferno. Per questioni di antidoping non si potevano nemmeno utilizzare prodotti che ti aiutavano, per cui me la sono dovuta tenere, e questa bronchitella, che poi è diventata bronchite trascurata, mi ha portato ad avere tantissimi problemi. Allora non c’era programmazione, per cui ho continuato ad allenarmi allo stesso modo senza mai risolvere veramente la questione e peggiorando le mie prestazioni nelle stagioni successive.
Parliamo quindi di un ’84 e un ’85 con meno successi, mentre nell’86 arrivi secondo al Giro battuto solo da Visentini e terzo a Colorado Springs con Argentin vincente. Niente male.
Sì, ma senza quella bronchite, che mi sono portato avanti per anni, avrei potuto fare molto meglio. Inoltre, lottare per un grande giro voleva dire modificare la propria muscolatura con carichi di lavoro molto importanti. Io non sono nato per le corse a tappe, ma ho modificato le mie caratteristiche con l’allenamento duro. Quello che poi gli australiani ma soprattutto gli inglesi hanno ottenuto lavorando sugli atleti del quartetto in pista. Prendi Bradley Wiggins, per esempio, che però era un passista, mentre io ero un corridore veloce. La mia trasformazione in corridore da corsa a tappe è stata una delle mie vittorie più importanti, anche se può capirlo solo chi conosce il ciclismo. È come dire a Gaviria, oggi, che lavorando può arrivare a vincere il Giro d’Italia. Molto difficile. Ci è riuscito a Jalabert, in passato, che però ha vinto la Vuelta, non il Tour. E questo carico di allenamento unito alla bronchite ha accorciato la mia carriera. Se non avessi fatto questo percorso di cambiamento sarei durato cinque anni di più e avrei vinto sicuramente di più, ma non il Giro d’Italia o il Lombardia. In più la programmazione di oggi non è quella di una volta. Oggi fanno 70/80 corse all’anno, noi ne facevamo 130/140.
Al Tour una volta sola. È il tuo grande rimpianto?
Non si andava per tre motivi. Il primo è che il Giro d’Italia era importante quasi quanto il Tour, non come adesso che ha perso prestigio. Secondo, le squadre erano di 13/14 corridori e si correva tutto l’anno, per cui si dovevano fare per forza delle scelte. Facevamo la Vuelta, che allora si correva in primavera, per preparare il Giro, ma era impossibile fare il Giro per preparare il Tour. Terzo, gli sponsor erano nazionali, per cui la Del Tongo preferiva che andassimo in Sicilia al Pantalica piuttosto che in Francia. Mi sarebbe piaciuto andare al Tour ma avrei potuto giocarmela solo per le vittorie di tappa e la maglia a punti, perché pensare di battere Hinault in casa sua, in quegli anni, era impossibile. I francesi sono nazionalisti e favoriscono i corridori di casa e secondo me fanno bene. Anzi, secondo me sarebbe meglio se i corridori di oggi parlassero ciascuno la propria lingua, come fa Hinault che rilascia interviste solo in francese.
Smetti nel ’91 e sei subito con la Lampre. Impossibile stare senza ciclismo.
Avevo smesso perché era diventato difficile e le motivazioni erano calate, ma ho iniziato subito una nuova carriera. È stato Ernesto Colnago a dirmi: «Dai, c’è questa squadretta di ragazzi giovani, perché non provi?». Era una squadra piccola ma con uno sponsor che sarebbe rimasto con noi per tanti anni, la Lampre. Il DS era Pietro Algeri. Io conoscevo benissimo cosa voleva dire essere corridore e quindi ho iniziato per gioco a seguire questi ragazzi. Alla fine sono rimasto più di 30 anni. Abbiamo vinto con Tonkov, Simoni, il povero Scarponi che purtroppo è venuto a mancare. Poi Cunego, Camenzind, Petacchi e tantissimi altri.
Un’esperienza che oggi prosegue all’UAE.
Il team UAE nasce dalla fine della sponsorizzazione Lampre. La squadra è rimasta, tante cose sono cambiate con l’inserimento di nuovi ragazzi e io ho meno responsabilità, per fortuna, così ho potuto riprendere ad andare in bicicletta per piacere.
A proposito, che rapporto avevi con le tue biciclette? Qual è stata la migliore? Quella di Goodwood?
Questa è una domanda che mi piace molto. Oggi il corridore ha una bici con cui si allena, poi per le gare ne ha quante ne vuole, comprese quelle da cronometro e da salita. Per noi invece la bicicletta era qualcosa di intimo e particolare, quasi una fidanzata. La bicicletta che trovavi e che ti andava bene come impostazioni e inclinazioni non la volevi mai cambiare. Magari cambiavi le componenti, ma il telaio, la sella e le misure erano quelle. Nel mio caso, la bicicletta che Ernesto Colnago mi ha dato nella primavera dell’82 e che ho usato fino a fine ’83 è stata sempre la stessa: proprio quella di Goodwood, con cui ho vinto il Giro e tante altre gare. Sempre quella, non ne ho usata nemmeno una di scorta! Quando cambiavi qualcosa notavi il millimetro di differenza. Il mio rammarico è che, siccome si usavano pochi telai, io di mio non ho più niente, tranne una bici che ho recuperato!
C’era però sempre da parte di Colnago anche una certa sperimentazione, come per esempio nel caso della tua bicicletta esposta al Museo del Ghisallo con le ruote da 26”, usata per le cronoscalate.
Ci eravamo accorti che una bicicletta con le ruote più piccole dava dei vantaggi in salita, permettendo di rilanciarla meglio. Una soluzione che poi Colnago avrebbe proposto anche a Rominger. Il problema è che era impossibile poi trovare i rapporti, perché né Campagnolo né Shimano facevano gruppi che si adattavano bene, e così abbiamo lasciato perdere. Oggi i ragazzi che corrono vanno in salita con il 36-26, noi abbiamo fatto le Tre Cime di Lavaredo con il 42-23. Va bene la preparazione che c’è oggi, ma ai nostri tempi con quei rapporti era veramente molto più dura.
Beppe Saronni parla veloce, sciolto, incisivo, esattamente come quando era in sella e regolava il gruppo. Le sue sono voci da un ciclismo vicino nella memoria di molti ma davvero molto lontano da quello contemporaneo delle radioline, dei grandissimi sponsor, dei corridori robot che vengono preservati da tutto e da tutti, dai motorhome blindati e dagli addetti stampa. È un ciclismo popolare, della gente, che infiamma il dibattito e prende il cuore, facendolo battere per l’uno o per l’altro, come accadeva in Italia tra lui e Moser, eterni rivali – in strada e a parole – che hanno regalato al ciclismo italiano e mondiale delle stagioni straordinarie. È un ciclismo che manca a tutti, in primis a loro due, che ha scolpito pagine memorabili che hanno portato lo sport nella società e nella cultura, immortalando imprese eccezionali come quella di Goodwood, 40 anni fa. Talmente potente che non vediamo l’ora di ricordarla e riviverla, proprio con Beppe Saronni, a Eroica Britannia.
A cura di: Alessandro Galli e Marco Pasquini Foto: archivio fotografico Carlo Delfino, Guido P. Rubino