La salita verso il Maso Warth, spiega già molte cose. L’auto fa fatica, si arrampica in prima, e la forza di gravità schiaccia contro il sedile come quando si sale sulla rampa delle montagne russe.
È qui, tra questi colli che anticipano le nude pareti rocciose dei “monti di Trento”, da cui prese vita la celebre canzone “Andrea” di Fabrizio De Andrè, che ha sede l’Azienda Agricola Francesco Moser, dove Lo Sceriffo – così veniva soprannominato per la sua determinazione a guidare il gruppo in corsa – ha trovato la sua dimensione dopo aver smesso con il ciclismo professionistico. Del resto, poco prima di partire per il vittorioso Mondiale del 1977 a San Cristobal, in Venezuela, mamma Cecilia parlando del suo Checco disse: «Le corse mi hanno portato via un bravo contadino». Oggi Francesco Moser è tornato a quella vita, qui, tra queste vigne dove si producono vini bianchi e rossi: Chardonnay, Langrein, Müller-Thurgau, Gewürztraminer, Riesling, Pinot. E poi l’eccellenza dello spumante che celebra nel nome la più grande impresa del Moser ciclista: 51,151, ovvero la distanza percorsa durante il Record dell’Ora di Città del Messico, nel magico 1984.
Saliamo. Parcheggiamo nella piazzetta dell’azienda agricola, davanti a un’edicola votiva e lo chiamiamo. «Aspettatemi», dice Moser. Il tempo scorre lento e laborioso anche di sabato mattina, da queste parti. Gruppi organizzati di appassionati di ciclismo e vino vanno e vengono dalla piazzetta, testimoniando l’attività febbrile che anima questi colli in ogni giorno dell’anno, perché la terra non conosce sabati e domeniche, quando è il momento di lavorarla. Moser ne conosce bene i ritmi fin da bambino. Fin da quando, al catechismo, il parroco del paese chiese chi fosse in grado di predire il futuro e lui rispose: «Il gatto, reverendo, perché se quando si lava i baffi oltrepassa con la zampa le orecchie vuol dire che piove. Ci prende sempre».
Una voce grave e stentorea lancia ai lavoratori le ultime indicazioni, esattamente come succedeva in gruppo, anticipando l’arrivo del padrone di casa. Arriva in bici, Francesco Moser, pedalando su una eBike che dà sollievo e agilità tra le strade verticali dell’azienda. In tuta da lavoro, sporco di terra, con una pala in mano. Un’immagine che spiega molto dell’uomo, del senso del momento che stiamo per vivere e forse anche della vita, e che da sola vale la sveglia all’alba e i chilometri percorsi per essere qui da Varese. «Salite di là, io vengo subito», dice, e noi eseguiamo.
Nella parte superiore del maso c’è la sala degustazioni dell’Azienda Moser. Una sala elegante e raffinata dove non solo è possibile assaggiare i vini prodotti da questi vigneti ma da dove si accede al museo privato di Francesco Moser, che mostra alcune delle sue biciclette più importanti e un’imperdibile serie di maglie, trofei e memorabilia che danno la cifra di quella che è stata la carriera del ciclista italiano più vincente di tutti i tempi. Una sala molto evocativa, dove le biciclette sono posizionate lungo la ricostruzione di un tratto di velodromo in legno, testimonianza non solo dei tentativi del Record ma anche dell’ottima carriera di Moser come pistard. «Aspettatemi», dice di nuovo mentre va a darsi una sistemata. E stavolta potrebbe anche stare via due ore, che tanto noi di cose da guardare ne abbiamo davanti abbastanza. Invece bastano pochi minuti. Arriva e parla subito delle biciclette, schietto, deciso. Le presentazioni non servono.
«Questa è la bicicletta di quando ero dilettante in Toscana (nel ’71/’72 alla G.S. Mobiexport Bottegone, ndr). È stata tutta riverniciata perché era rovinata. Poi ci sono le Benotto, che ne ho due. Anche questa sarebbe una Benotto, che era di Aldo, dell’ultimo anno che correva, nel 1973. In quegli anni i telai delle Benotto ce le faceva De Rosa, lo si capisce andando a vedere i dettagli delle congiunzioni. Queste poi sono le mie, marchiate F. Moser, le prime con cui ho corso. Con questa ho vinto la Roubaix del ’79. Questa è quella del Record… queste due sono del Giro d’Italia… Questa invece è la bici di Bugno dei Mondiali di Stoccarda del ’91. Questa invece è quella del tentativo del Record dell’Ora di Stoccarda a questa invece è quella di Città del Messico del ’94, quando ho fatto l’ultimo tentativo per il record (fallito, ma con la seconda prestazione di sempre, impresa pazzesca per un ciclista di 42 anni, ndr). E poi c’è l’ultima, quella con cui ho smesso di correre e che ho letteralmente appeso al chiodo».
Una carriera enorme che passa così, davanti agli occhi e davanti al cuore, e che resta unica e irripetibile per quanto inquadrata velocemente da chi si è trovato a raccontarla diecimila volte, più o meno allo stesso modo. È la normalità di chi vive lo straordinario come quotidianità. Anche a distanza di decenni, però, Francesco Moser affascina generazioni di appassionati di ciclismo con l’impresa con cui viene identificato: il Record dell’Ora. Un’avventura immortalata nel docufilm “Scacco al Tempo”, di Nello Correale, presentato lo scorso anno al Trento Film Festival. Novanta minuti nei quali una troupe che ha seguito Francesco per un anno, nella sua quotidianità, racconta l’uomo di ieri e di oggi, riportando poi la dimensione attuale ai giorni del Record.
Maurizio Marzorati di Ambrosio ci ha raccontato, nel numero 32 di Biciclette d’Epoca, la sua visione dell’impresa di Città del Messico. Lei cosa ricorda di quei giorni? Com’è stato coinvolto in quella che sarebbe poi rimasto il suo traguardo più celebrato?
«L’idea fu di Paolo Sorbini, titolare della Enervit. Loro si occupavano della Giro Clinica, una struttura di supporto medico al Giro d’Italia. Erano altri tempi, non come oggi dove è tutto più organizzato con il seguito di ambulanze e dispositivi di rianimazione, per cui si trattava di una realtà importante per noi ciclisti. Noi avevamo le ruote Ambrosio per cui quando abbiamo iniziato a lavorare al Record dell’Ora sono stati loro a costruire le famose lenticolari. L’idea di partenza era del professor Dal Monte, ma poi quelle effettive venivano costruite da un certo Testa di Somma Lombardo, in provincia di Varese, che si occupava di lavorare il carbonio per fini aeronautici. Le prime sono state prodotte nell’ottobre del 1983 e noi passammo il novembre di quell’anno a provarle nel palazzetto di Milano».
Il Record era una cosa a cui stava già pensando o è stata una proposta che l’ha sorpresa?
«In quegli anni c’era molta attenzione sul Record dell’Ora, soprattutto da quando l’aveva conquistato Eddy Merckx che era il corridore più forte, e batterlo era una questione di prestigio. Io avevo iniziato a pensarci dieci anni prima, nel 1974, quando il ciclista danese Ole Ritter cercò di riprendersi, sempre a Città del Messico, il primato che il Cannibale gli aveva sfilato dalle gambe. Ritter era in squadra con me alla Filotex e Giacinto Benotto, che ci dava le bici, era un piemontese trapiantato in Messico per ragioni personali che ci teneva a dimostrare di essere ancora in attività. Da quell’incrocio di situazioni nacque poi l’iniziare a pensare a un’opportunità che si sarebbe concretizzata solo in seguito».
Quali sono stati gli aspetti più importanti per riuscire a battere il Record, secondo lei?
«I fattori sono stati tanti e tutti importanti. Innanzitutto la preparazione atletica, ma credo che un ruolo fondamentale l’abbia giocato il fatto di essersi ambientati molto bene a Città del Messico. Avevamo studiato tutto davvero nei minimi particolari, sia dal punto di vista della bicicletta sia da quello dell’aerodinamica. Abbiamo dedicato parecchio tempo anche al casco, per esempio, provando delle soluzioni sperimentali con forme allungate ma che poi diventavano un problema con il vento o quando si girava la testa. Per cui alla fine ho preferito utilizzare la cuffia che si vede nelle foto. Peraltro è una cosa che hanno capito anche oggi, visto che dopo diversi anni di caschi lunghi si sta tornando a forme più accorciate. Ma questo del casco è un esempio per dire come abbiamo davvero cercato di tirare fuori il massimo da quella che era la tecnologia di allora, provando soluzioni che poi abbiamo scartato. Naturalmente, moltissimo lavoro è stato fatto anche sulle ruote, che poi restano la soluzione tecnologica più evidente. Quando le provavamo a Milano al chiuso si comportavano in un modo, ma poi all’aperto prendevano vento, come fossero delle ali, e abituarsi a utilizzarle non è stato per niente facile, anche se poi alla fine ha pagato».
Oltre al Record dell’Ora, qual è la vittoria alla quale è più affezionato?
«Senz’altro il Giro d’Italia, che ho inseguito davvero per tanto tempo. Ho indossato la Maglia Rosa tante volte senza riuscire a portarla a Milano ma nel 1984 finalmente ci sono riuscito. Quella è stata una vittoria importante sia per me sia per i tifosi, che l’aspettavano da tanto. Poi ovviamente il Mondiale del ’77 e le Parigi – Roubaix. Vincerne tre di fila, dal 1978 al 1980, è stata veramente una grande soddisfazione».
Peraltro, vincendo le Roubaix alla fine delgi Anni ’70 interruppe un dominio belga che durava da tanto tempo…
«Beh, in quegli anni i belgi erano veramente fortissimi: Merckx e De Vlaeminck su tutti ma anche figure meno vincenti ma comunque difficilissime da battere come De Meyer, Godefroot o Maertens, che mi sconfisse a Ostuni ai Mondiali del ’76. Per arrivare primi in casa loro non c’era altra soluzione che stare lì davanti, marcandoli stretti. Era una vera lotta, anche se avrei potuto vincere fin da subito, nel ’74».
Invece fu De Vlaeminck a vincere.
«Sì ma sono stato davvero molto sfortunato. Ero in fuga da solo a 15 km dall’arrivo e mi ero lasciato alle spalle il pavé più infernale. Però purtroppo ho bucato e De Vlaminck mi ha ripreso. Il problema fu il cambio della bici, perché a causa di una foratura ne presi una nuova che frenava molto di più, dato che non si era sporcata di fango come quella che avevo in precedenza. Purtroppo, in una curva vicino al traguardo, non essendo abituato ai freni nuovi, ho pinzato con la stessa forza che mettevo sulla vecchia bici e sono finito per terra, regalando la vittoria a Roger. Peccato perché la Roubaix di solito la si vince sul pavé dove, anche se ero alla prima esperienza, ero andato benissimo».
Aldo Gios, che in quegli anni preparava le biciclette per la Brooklyn di De Vlaeminck, ci ha raccontato nel numero 34 di Biciclette d’Epoca quali erano i suoi trucchi del mestiere per affrontare la Roubaix. Voi quali accorgimenti prendevate?
«Piegavamo di più la forcella per assorbire meglio gli urti e mettevamo della gommapiuma tra il nastro e la piega per attenuare le vibrazioni. Poi irrobustivamo gomme e ruote perché non solo era più facile bucare, ma si potevano proprio spaccare i cerchi e a quel punto sarebbe stato molto pericoloso».
È vero che è stata sua l’idea di premiare il vincitore della Roubaix con un pezzo di pavé?
«Non è che è stata proprio una mia idea. La prima volta che ho vinto mi hanno dato una medaglietta commemorativa di poco valore e l’anno dopo ancora. Allora ho fatto presente che in Italia, quando per esempio vincevi il Lombardia, ti davano un bel trofeo. Dall’anno dopo, alla terza che ho vinto, hanno iniziato a premiare il vincitore con il famoso “Sasso” e io sono stato il primo a riceverlo».
Gli avversari più duri in quegli anni?
«Senz’altro Merckx, De Vlaemink e poi Maertens. Freddy quando c’erano da fare gli arrivi in volata era imbattibile. Per quanto tu acceleravi, lui andava sempre più forte. Ho fatto tantissimi secondi posti dietro di lui, compreso quello del Mondiale del ’76. Purtroppo ha avuto diversi problemi nel corso della sua carriera, dovendosi fermare diverse volte, altrimenti avrebbe sicuramente vinto di più».
Duro da battere al punto che l’anno dopo, in Venezuela, pur di non farsi battere andò addosso a una moto dopo aver tagliato il traguardo da vincitore del Mondiale.
«Lì c’è stato poco da fare: se uno è lì fermo non puoi far altro che andargli addosso. Se non avessi alzato le braccia dopo aver tagliato il traguardo forse non sarebbe successo, ma lì fu un problema di organizzazione, perché vidi la moto solo quando si aprì la folla davanti a me. Mi è successo anche in altre gare. Oggi queste cose per fortuna non succedono più».
Le sue “Campagne del Nord”, comunque, sono sempre andate abbastanza bene.
«Sì, anche se era veramente difficile. Alle Roubaix i belgi erano davvero molto avvantaggiati perché abitavano vicino e conoscevano molto bene il percorso. Io comunque ho visto fin da subito che andavo molto bene e allora mi sono concentrato su questa gara, magari lasciando in secondo piano altre importanti classiche del Nord. Ho comunque vinto la Freccia Vallone, nel ’77, anche se solo in seguito alla squalifica di Freddy Maertens, e ho fatto terzo nel ’78 alla Liegi – Bastogne – Liegi. Poi c’erano anche delle logiche di squadra che ci portavano ad avere un calendario in cui dovevamo fare delle scelte, per cui non si poteva sempre andare dappertutto a cercare di vincere».
Anche il Tour rientra in queste scelte? Lei ha partecipato una volta sola nel corso della sua carriera, peraltro arrivando a vestire la Maglia Gialla.
«Avevamo sponsor italiani, per cui l’obiettivo principale della squadra era quello di fare bene al Giro d’Italia. Senz’altro il Tour resta un rimpianto ma fa parte del modo di vivere il ciclismo che c’era allora».
Lei con 273 vittorie da professionista è il ciclista italiano con più vittorie di sempre. Pensa che sarebbe riuscito a raggiungere un tale traguardo anche correndo oggi?
«Questi sono discorsi del cavolo – eufemismo, ndr :). Io ho corso in quel periodo lì e basta. È come pensare cosa potrebbero fare Coppi o Merckx in un’altra epoca. Per me non ha nessun senso. Può darsi che vincerebbero di meno oppure di più ma non possiamo saperlo e resta solo un gioco. Quello che posso dire è che come corrono oggi non mi piace. Ci sono queste due/tre squadre potenti e gli altri sono là che fanno le comparse e devono accontentarsi degli avanzi. Ci vorrebbero delle regole diverse. Nel basket americano, per esempio, il sistema del draft (ovvero lasciar scegliere per prime alle squadre più deboli gli acquisti per la nuova stagione, ndr) permette di avere uno scenario più equilibrato, dove tutti possono vincere. Dovrebbero imporre dei limiti nella selezione e non lasciare che ci siano squadre in grado di concentrare diversi corridori che potrebbero fare tutti tranquillamente i capitani. Oggi se hai trenta corridori puoi anche partecipare a due o tre gare nello stesso giorno in luoghi diversi del mondo. Ai miei tempi non era così e le squadre, come dicevo prima, dovevano fare delle scelte, rinunciando anche a qualcosa. Anche allora c’erano squadre forti ma non così dominanti. Merckx, per dire, aveva una squadra fortissima che metteva in fila tutti. Imbattibile nel ’73/’74. Già nel ’75 era tornata a livelli più umani».
Tornando al trailer del suo film, lei si definisce “un paludero”, uno che abita in un paese, Palù di Giovo, che è come un gradino dal quale puoi solo salire o scendere. Quanto ha inciso questa condizione sul fatto che la sua famiglia abbia dato così tanto al mondo del ciclismo?
«Quando eravamo piccoli tutte le strade erano bianche e andavano solo in salita o in discesa, non c’era molto altro da fare. Si faceva la gara a chi arrivava su prima. Hanno iniziato ad asfaltarle nel ’65, quando andavo a scuola. Io ho cominciato a correre nel ’69. Però quella parte che vai su e scollini per poi scendere a San Michele all’Adige era una strada solo per i trattori. Molto peggio della Roubaix (ride). È stata senz’altro una buona palestra per tutti».
È stato suo fratello Aldo a metterla in bicicletta?
«Sì, perché Aldo è stato professionista prima di me. Lui è del ’34, e dopo diversi anni di carriera si è trovato in una fase interlocutoria. Nel ’69 è tornato a correre come si deve e nel ’71 ha preso la Maglia Rosa al Giro mentre io ero a militare, in Toscana. L’ha tenuta un paio di paio di giorni ma aveva già 37 anni, lo chiamavano “Il Vecio”. Siamo stati tre fratelli corridori, io, Aldo e Diego, mentre Enzo faceva il Direttore Sportivo. Tutti molto combattivi, è una questione di carattere. Oggi c’è Moreno, figlio di Diego, che continua la tradizione di famiglia.
Come vede il ritorno del ciclismo d’epoca, oggi? Anche lei ha la sua ciclostorica e partecipa volentieri anche ad altri appuntamenti del genere.
«È una forma di ciclismo amatoriale che è diventata molto importante. Ci sono questi appassionati che si sono messi a tirare fuori vecchie biciclette e ogni domenica c’è un appuntamento. È un movimento che mi piace e che riporta indietro a un ciclismo diverso, dove le biciclette erano decisamente più scomode. Si faceva più fatica a stare in sella e dovevi cambiare con i manettini. E poi di rapporti ce ne sono molti di meno, cinque o sei. Quando arriva la salita è dura. Noi in genere correvamo con il 22, quando poi mettevano in calendario qualche salita particolarmente dura, in alcune tappe del Giro, mettevamo su il 23 o il 24. Sulle Cime di Lavaredo hanno messo il 26 o il 27. Addirittura Battaglin mise il 30, se non mi ricordo male. Andare agili era importante, ma non erano agili come adesso, dove qualcuno mette il 32 o addirittura il 34, come ai Mondiali dello scorso anno, in Austria».
Come sarà La Moserissima, V tappa del GIDE, quest’anno?
«Dura, come gli altri anni, ma sarà un bel momento per incontrare i miei tifosi e tanti altri appassionati».
Chiamano dalla sala degustazione. Francesco Moser c’invita a seguirlo. Va dietro al bancone e con le sue mani grandi, nodose, forgiate dal lavoro nei vigneti ci versa un bicchiere del suo moscato per chiudere la chiacchierata con un sorso di vino. Questo oggi è il suo mondo. Ce lo lasciamo alle spalle tornando di nuovo nella piazzetta del Maso Warth, lì dove nel 1977, di ritorno dal vittorioso Mondiale di San Cristobal, aveva trovato ad attenderlo una folla festante e l’abbraccio di Mamma Cecilia. In mezzo a tutta quella gente che era lì per celebrare il suo trionfo, Francesco Moser non si scompose e guardò oltre, verso i suoi vigneti. Vide l’uva ancora verde, che settembre era già iniziato, e a denti stretti sussurrò: «Anno balordo, questo».
A cura di: Alessandro Galli e Alessio Stefano Berti Foto credits: archivio di Carlo Delfino, archivio Liverani e Guido P. Rubino