Come definire Vittorio Adorni?
La risposta più semplice e immediata è “un uomo del ciclismo”, nel senso moderno e più attuale del termine. La sua figura è diversa da quella del suo idolo Coppi o di Learco Guerra, che lo fece passare tra i professionisti. Adorni è stato tra i primi della nuova generazione dopo i giganti, il primo a presentarsi come un corridore pensante e correttamente parlante. Non più quindi un corridore dallo spirito semplice, ma uomo avveduto e con idee chiare che vanno oltre il ciclismo, pur essendo quello il mondo da cui è partito. Adorni appartiene agli Anni ’60, a un ciclismo che è profondamente cambiato rispetto al passato. Cambiamenti che comprendono tutta la società dell’epoca – attraversata dal boom economico – e che si riflettono sul mondo delle due ruote, in quegli anni ancora forse più a pedali che a motore. La passione per il ciclismo nasce presto in Vittorio. Basta la radio del nonno, che in falegnameria trasmette le vittorie di Coppi, per entusiasmarlo. Basta la costanza dello zio, che lo accompagna alle corse. Basta il furto della prima bicicletta, faticosamente acquistata con i soldi dei primi lavoretti da adolescente, ma troppo presto rubata. Quel furto però non segnò la fine della sua voglia di pedalare, ma ne esalterà la tenacia e la costanza.
Vittorio Adorni nasce e cresce nelle vicinanze di Parma, a San Lazzaro Parmense, terra d’Emilia. La localizzazione è importante, perché influenza le scelte e le conoscenze che si possono fare. Due gli incontri in particolare che segnano l’inizio della carriera. Il primo con Bruno Raschi, giornalista sportivo rampante, che in quegli anni lavora a Tuttosport, ma che di lì a poco sarebbe passato alla Gazzetta dello Sport fino a diventarne penna di punta per il ciclismo e vicedirettore. L’altra quella con l’industriale Pietro Barilla. Il primo lo prende a ben volere, il secondo gli permette di continuare ad allenarsi durante il periodo in cui lavora nella sua fabbrica. Ricorda Adorni ne “Il volo dell’airone”: «Era stato un incontro fortuito. Un incontro causato da un allenamento che si era prolungato più del dovuto. Per evitare di perdere altri preziosi minuti, conscio di essere in ritardo di circa un’ora, avevo deciso di non passare da casa per cambiarmi e di presentarmi in Barilla ancora vestito da ciclista. Il signor Pietro Barilla era lì, proprio davanti a me. Incutendomi un certo timore. […] “Senta, Adorni. Continui ad allenarsi senza problemi, ma lo faccia con tranquillità. Una volta finito l’allenamento entri pure al lavoro più tardi. Il tempo che avrà dedicato al suo allenamento lo recupererà successivamente”, mi disse». Con entrambi Adorni manterrà ottimi rapporti per tutta la vita.
SOGNO OLIMPICO
Ma la vita del ciclista è su strada, e con essa gli allenamenti. Nel 1955 la prima vittoria con la maglia dell’Audax di Parma. Passa poi nel biennio 1956-57 al Gruppo Ferrovieri della cittadina emiliana, dove mette in mostra le sue doti di cronoman. Oltre 1 metro e 80 l’altezza di Adorni, doti da passista puro. Questo gli fa ben sperare per le imminenti Olimpiadi di Roma. Ambirebbe a entrare nel quartetto e per questo accetta di effettuare la leva militare a Roma ed entrare nella società Faema Preneste. Con questa casacca vince il Campionato Regionale laziale.
Adorni non viene selezionato dal CT della pista Guido Costa per il quartetto e lo prende come un affronto personale. In realtà, come ci ha raccontato Marino Vigna anche nell’articolo a lui dedicato su BE52, quel quartetto era il perfetto equilibrio tra società importanti della pista, come il Porta Genova di Milano e la veneta Ciclisti Padovani, difficile scalzare uno di loro, per altro forti (record del mondo prima delle Olimpiadi) e vincenti, vista poi la medaglia d’oro arrivata. Ma Vittorio ha colto l’attenzione di un altro CT, quello dei dilettanti, Elio Rimedio. La delusione della pista lo spinge a correre con maggiore attenzione le corse su strada, e altri occhi, ben attenti alle nuove leve, si posano su di lui. Sono quelli di Learco Guerra, in quel momento DS della EMI.
Raccontano Pastonesi e Gregori ne “Il Grande Guerra”: «Nel Giro del Penice, a chi passava primo sul Gran Premio della montagna davano 50.000 lire a condizione che avesse almeno 3’ di vantaggio sul secondo. M’impegnai alla morte e passai primo con 3’30”. In discesa mi affiancò una macchina, c’era scritto Learco Guerra, sopra c’era lui, la Locomotiva Umana. Mi chiese: “E adesso?” Gli risposi: “Se mi prendono, pazienza”. Mi presero, arrivai quarto, ma Guerra mi promise che, se fosse riuscito a fare una squadra professionisti, mi avrebbe telefonato. In attesa della sua chiamata, ricevetti quella di Elio Rimedio, CT della Nazionale dei dilettanti, che mi offriva un posto nella Salco di Empoli, squadra di dilettanti che mi dava vitto, alloggio e 250.000 al mese. Accettai. Poi giunse la telefonata di Guerra: aveva formato una squadra di professionisti, la Vov, con Bahamontes e Fornara, ma mi offriva meno della metà, solo 120.000 al mese. Ci pensai su, poi accettai. E feci bene. Guerra non mi diceva niente, mi lasciava fare tutto. Io andavo e venivo, scattavo e mi staccavo, fuggivo e friggevo. Certe cotte memorabili. Mi spiegava che se mi avesse detto quello che avrei dovuto fare, io poi non lo avrei fatto. Aggiungeva che solo sbagliando in proprio s’impara. E concludeva che prima o poi sarebbe finalmente arrivato il giorno in cui non avrei più commesso errori. La strada fu maestra».
Nel 1961, quindi, Vittorio Adorni diventa professionista nella squadra di Guerra. Il primo anno lo passa come gregario di Bahamontes. Nessun successo, ma tanta fatica che insegna. Nel 1962 si chiude l’esperienza della Vov e si apre quella con la Philco, passando alla corte di Fiorenzo Magni. Il giovane parmense nel giro di un paio d’anni ha già avuto due maestri di tutto rispetto. In quell’anno ottiene due vittorie: la quarta tappa al Giro di Sardegna e, soprattutto, la 15° tappa del Giro d’Italia, da Moena all’Aprica. Si classifica quinto (primo Balmamion), mostrando buone doti di recupero e resistenza. Partecipa al Tour de France, ma è costretto al ritiro nella settima tappa.
L’anno successivo, passato alla Cynar (e incrociato Alfredo Binda, general manager della squadra), arriva secondo al Giro, sempre dietro a Franco Balmamion. In quella stagione conquista cinque vittorie, tra cui due al Giro di Sardegna e due al Giro d’Italia (la prima, e quindi la relativa maglia rosa). Una crisi lo mette fuori gioco al Giro e deve accontentarsi di arrivare dietro al piemontese. Sono gli anni in cui si allena sul Mottarone, dove incontra la futura moglie Vitaliana. Per Adorni i tempi sono maturi per fare il capitano. Ha dimostrato di essere un tipo sveglio, di sapersi difendere in salita e di poter competere con i grandi specialisti della cronometro. Il suo modo di fare, poi, lo fa apprezzare in gruppo e lega anche con i francesi, in particolare con Jacques Anquetil.Riceve la prima convocazione in Nazionale da parte del CT Magni per il Mondiale belga di Ronse, poi famoso per il “tradimento” di Benoni Beheyt nei confronti del suo capitano Rik Van Looy.
Il 1964 si apre con il passaggio del parmense alla Salvarani (con sede a Baganzola), che sta costruendo uno squadrone. Direttore sportivo Luciano Pezzi. Tra i corridori Ercole Baldini (già con lui alla Cynar), Arnaldo Pambianco (vincitore del Giro 1961) e lo scalatore Vito Taccone. Poche vittorie quell’anno, ma di peso, come quasi sempre: il Giro della Sardegna e due tappe alla corsa rosa, tra cui ancora la prima, indossando così la maglia rosa. Il 1964 è significativo anche per un altro aspetto: l’emergere della forte propensione alla comunicazione di Vittorio. Intervistato da Adriano De Zan a proposito dei successivi Mondiali (Sallanches) mostra tutta la sua dialettica e acume, lasciando una buona impressione di sé. Quell’intervista sarà un biglietto da visita per il passaggio successivo. Con il supporto di Raschi, Adorni si dimostra un ottimo elemento per il Processo alla Tappa, la trasmissione che Sergio Zavoli, importante giornalista della RAI, tiene da un paio d’anni in concomitanza con gli arrivi di tappa del Giro d’Italia.
A quel Mondiale sarà poi secondo. A Sallanches piove. Nell’ultima fase della corsa la presenza di tanti velocisti, a cominciare da Van Looy, fa pensare a un arrivo in volata. All’ultimo passaggio sulla salita di Passy, Poulidor scatta. Gli resiste solo Janssen.
I due scollinano con circa 50 metri su Adorni. Vittorio rinviene a 2 km dall’arrivo, grazie a una discesa vertiginosa, e si accoda alla coppia di testa prima del tratto di pianura che porta al traguardo. Dietro rincorrono Zilioli, Simpson, De Han, Anquetil e Mazaneque, ma il riaggancio non riesce. È volata a tre. Adorni ci prova ai duecento metri. Uno scatto bruciante da far sperare nel successo. Nulla può però contro Janssen (maglia verde dell’ultimo Tour), che vince a braccia alzate di una bicicletta. L’olandese è campione del mondo a 24 anni. Dirà Vittorio: «È stata una battaglia meravigliosa, sono comunque contento di avervi partecipato». Poulidor è terzo.
TRIONFO AL GIRO
Il 1965 è l’anno della maturità. In primavera arriva secondo alla Sanremo e alla Liegi, mettendo subito in mostra una buona condizione atletica. Il Giro d’Italia parte dall’estero ma di poco, ovvero dalla Repubblica di San Marino. Nella sesta tappa (20 maggio, Avellino-Potenza) vince e conquista il simbolo del primato. Tiene la maglia per due giorni, per poi passarla a Bruno Mealli. Ma è solo questione di tempo. È proprio contro il tempo, nella tappa a crono individuale del 17 maggio (13° tappa, Catania-Taormina) che Adorni indossa, per non lasciarla più, la maglia rosa. Vince anche la tappa del 3 giugno (19° tappa, Saas Fee-Madesimo). Giornata da tregenda quella, con corridori che pedalano sotto la pioggia e tra muri di neve, con Adorni che realizza un’impresa, uscendo dalla fuga e arrivando in solitaria. “Il rosa più bello dopo Coppi” sarà il titolo della Gazzetta il giorno successivo, a firma di Bruno Raschi.
Per il parmense è anche l’anno dove mette ancora più in evidenza le sue qualità dialettiche in televisione. Finita la tappa viene accolto direttamente nello studio all’aperto del Processo alla Tappa. Racconta Ormezzano in “Storia del Ciclismo”: «Fece del “Processo alla tappa” la fortunata rubrica televisiva di Sergio Zavoli, una palestra, un palcoscenico per parlare, discutere, criticare se stesso e gli altri, pochi minuti dopo aver portato a termine, magari in maglia rosa, una difficile tappa alpina, giocandosi il Giro d’Italia sulle Dolomiti e sulle altre vette. Una coperta sulle ginocchia, un giubbotto addosso e la lingua sciolta». Ancora peggiore fu la situazione il giorno successivo, quando per una slavina sul Passo dello Stelvio la tappa fu interrotta. Adorni vinse quel Giro con 11’26” su Italo Zilioli, il maggior distacco in classifica tra i primi due mai registrato dai tempi di Coppi in poi. Terzo fu Felice Gimondi, neoprofessionista che si era piazzato secondo nella Freccia Vallone. Gimondi è compagno di squadra del vincitore e per la Salvarani è un trionfo.
Forte della vittoria al Giro d’Italia, la squadra di Luciano Pezzi comincia a pianificare la trasferta al Tour con ambizioni di classifica. Il giovane Gimondi viene convinto a partecipare (in sostituzione di Fantinato) e la squadra, 16 giorni dopo la fine della corsa rosa, è già a correre in Francia. Il 29 giugno, durante il trasferimento da Bordeaux e Dax, la corsa di Adorni si trasforma. «I dolori sono arrivati prima della partenza da Dax, alla vigilia della tappa pirenaica di Aubisque e Tourmalet. Mi sono accorto subito che non potevano essere dolori passeggeri. Durante il trasferimento in treno dell’intera carovana, mi ero spostato tra i vagoni per cercare alleati in grado di controllare la pazza corsa francese, finendo così per mangiare in una carrozza diversa da quella dei compagni: il risultato era stata un’indigestione, probabilmente a causa di un alimento avariato». Ai piedi dell’Aubisque la crisi e la scelta di ritirarsi. Sale sul camion scopa e «Lì ritrovo alcuni volti amici, compagni di vagone del pazzo viaggio verso Dax. Stavamo tutti male, svuotati fisicamente e parecchio delusi per dover abbandonare la corsa».
Tornato in Italia, Adorni segue dal telefono il trionfo di Gimondi. I due Salvarani, vincitori dei maggiori giri a tappe, sono richiestissimi nei circuiti post Tour. L’obiettivo per entrambi è quello del Mondiale spagnolo (Lastre-San Sebastian). Una caduta a Robbiano durante il Gran Premio FEG li costringe però a rinunciare: «Gimondi si era procurato la frattura della clavicola, io ferite alla testa e un piccolo trauma cranico. E addio al Mondiale! Nell’anno più bello». Dopo un anno così entusiasmante le aspettative su Adorni e Gimondi, sia della Salvarani sia dei tifosi, sono altissime.
Il 1966 però si rivelerà un anno di passaggio. Vittorio non brilla particolarmente nelle classiche del Nord. Si aggiudica la prima tappa del Giro di Sardegna, una semi tappa alla Parigi – Nizza, una al Giro del Belgio (e la classifica finale). È ancora la corsa rosa il suo obiettivo. In particolare la tappa del 30 maggio (13°, Parma-Parma), una crono individuale sulle strade di casa e della Salvarani. Vittorio la domina, conquistando anche la maglia rosa. Il giorno successivo riposo e poi il primo giugno l’arrivo in salita ad Arona, sul Mottarone, la montagna di Vitaliana. Lo sforzo della crono si fa sentire e Adorni paga nei confronti di Motta (poi vincitore di quel Giro) e Jimenez. In quel Giro da segnalare l’esperimento di Zavoli dell’intervista a Jacques Anquetil da parte del capitano Salvarani, direttamente in corsa con il radio-telefono.
UNA NUOVA AVVENTURA
A fine stagione, capito che Pezzi avrebbe puntato maggiormente su Gimondi, Vittorio comincia a valutare le alternative e trova nella Salamini, giovane squadra parmense guidata dall’amico Ercole Baldini, l’alternativa. «Il problema principale stava però nel mio contratto, firmato nel 1965 per le annate 1966 e 1967: piuttosto di vedermi alla Salamini, a un certo punto Luigi e i fratelli [Salvarani] mi avrebbero preferito fermo un anno. […] In grande difficoltà ho tentato una difficile mediazione attraverso Pietro Barilla, che sempre mi ha seguito nel mio percorso sportivo, ma anch’essa non avrebbe dato i risultati sperati». Rompere un contratto così importante e remunerativo non era affatto semplice. Provando a forzare la mano, con la complicità del direttore della Gazzetta di Parma, Adorni fa pubblicare un quiz con la domanda: “Con chi vorreste Adorni nel 1967?”, sperando che il movimento popolare faccia pendere la bilancia dalla sua parte. I Salvarani però, da buoni uomini d’affari, gestiscono la cosa in altro modo. «Trafelato sono arrivato all’appuntamento al secondo piano della palazzina. Schierati come un plotone di esecuzione tutti i fratelli, con l’aggiunta di una figura che ho riconosciuto subito in Angelo Salamini. […] I Salvarani, senza penali e da gran signori, mi avrebbero concesso il via libera nell’altra squadra di Parma per il bene dello sport cittadino».
La Salamini del 1967 si presenta come un corazzata. Comprende corridori come Mealli, Carletto, Massignan e Mazzacurati (fido gregario di Adorni). Anche il 1967, però, si rivela un’annata di passaggio per Vittorio. Una semi-tappa al Tour de Romandie, oltre alla classifica finale, una tappa al Giro d’Italia (20°, Cortina d’Ampezzo-Trento) e la Coppa Bernocchi, dove batte in volata Dancelli e Gimondi. La Salamini si dimostra una meteora nel panorama ciclistico dell’epoca, tra scioperi, agitazioni sindacali in fabbrica e stipendi in ritardo (o assenti) per i corridori. «È stato molto bravo Ercole Baldini a “tenere le fila” della squadra, evitando polemiche sterili e inutili. Alla fine dell’anno, fra elettrodomestici regalati e parti di stipendio saldate possiamo dire di aver ricevuto tutti quanto pattuito a inizio anno. Ma con che fatica…». Alla fine del 1967, ormai trentenne, Vittorio comincia a farsi qualche domanda sul suo futuro. Di stagioni buone davanti ne ha ancora qualcuna, ma il parmense è lungimirante.
SORPRESA MONDIALE
Per l’anno successivo intanto trova l’accordo con Giacotto, patron della neonata Faema. Adorni si porta dietro i suoi fedelissimi, ma non sarà il capitano unico. Quella squadra infatti conta su una importante componente belga, con a capo il neo campione del mondo Eddy Merckx. In ammiraglia Marino Vigna: «Uomo di rara umanità, ottimo nel vedere la corsa, Marino è stato in quell’anno un punto di riferimento importante sia per me che per Eddy». Un’alchimia questa tra belgi e italiani che Giacotto aveva già sperimentato nella Carpano con buoni risultati. La battuta che Marino Vigna ripete spesso – «Sono quello che ha insegnato ad andar piano a Merckx» – qui trova tutta la sua comprensibilità. Sotto la guida del DS e di Adorni il belga, fino ad allora considerato solo un velocista, si trasforma in corridore completo, in grado di vincere anche le corse a tappe. Adorni si trova a fare da chioccia al primo Eddy, a consigliargli il cambio di alimentazione, a istruirlo su come affrontare le salite e come dosare lo sforzo in discesa. Esemplare in tal senso la corsa rosa del 1968. Ricorda Adorni: «Chiarendomi con Merckx avevamo deciso di affrontare una corsa in modo parallelo: io sarei stato il consigliere e mentore di Eddy, ma libero di giocarmi le mie carte sulla strada. Di fatto il mio ruolo sarebbe stato quello di seconda punta della Faema e di regista dei suoi movimenti».
Magistrale l’interpretazione dei due della 12° tappa (1 giugno, Gorizia-Tre Cime di Lavaredo, 213 km) dove Eddy vince la tappa e riconquista la maglia rosa per poi portarla fino a Milano. Con la fuga che ha oltre 9′ di vantaggio, Eddy scalpita e si getta all’inseguimento. Dietro Vigna e Adorni concordano nel fermarlo. In qualche modo Vigna riesce a frenare il belga e permette ad Adorni di rientrare e mettersi il campione del mondo a ruota. «Ancora una volta ho tranquillizzato il compagno, nella solita impagabile scena che avrebbe contraddistinto tutto quel Giro: io a parlare, lui a scuotere continuamente la testa, deluso per non poter attaccare a fondo». Vittorio si incarica dell’inseguimento. Recupera i fuggitivi, poi sulle rampe delle Tre Cime, una volta fiaccata la resistenza di Gimondi, lancia l’attacco di Merckx. Il belga vince la tappa e Adorni arriva terzo (a 54″). Sul podio finale di Napoli sarà doppietta Faema, con Merckx che precede Adorni di 5′.
Finito il Giro e con l’idea del Mondiale sullo sfondo, Vittorio accetta di fare il presentatore in TV accanto a Liana Orfei nella trasmissione “Ciao Mamma”. 14 puntate che richiedevano la sua presenza a Milano almeno un paio di giorni la settimana. Non le migliori condizioni per un corridore professionista, ma proprio perché tale, Adorni riesce a coniugare i due lavori. «Per due giorni alla settimana mi sarei recato negli studi milanesi della RAI, accompagnato comunque dalla mia bici per poter continuare a pedalare. Certo, non è stato facile dal punto di vista sportivo quel periodo e lo si può vedere anche dalla mia scarsa partecipazione al calendario delle gare estive».
Il Campionato del Mondo quell’anno si tiene a Imola, all’interno del Circuito dei Tre Monti. È quindi fondamentale per il CT Ricci presentare una squadra altamente competitiva e provare a conquistare quella maglia che manca all’Italia da 10 anni, dalla vittoria di Baldini a Reims in Francia. Un Adorni a mezzo servizio quindi può essere un rischio, ma Mario Ricci conosce i suoi corridori e si fida. Quel primo settembre la corsa si agita fin dai primi giri. Parte una fuga con dentro Gimondi e Merckx. Adorni si trova nella condizione di fare lo stopper per le azioni degli altri, ma decide di giocare d’astuzia. «Notando anche una certa agitazione da parte dell’ammiraglia francese, mi sono avvicinato ad Anquetil per scambiare due chiacchiere sulla situazione». Adorni fa notare che non ci sono francesi nella fuga e Jacquot, spronato anche dal suo CT, si mette davanti a tirare, recuperando da solo un minuto sui fuggitivi. In cima alla salita di Frassineto parte Van Looy, che fa segno all’italiano di seguirlo. Si forma una fuga, con dentro anche Carletto e Stevens, preziosi gregari per i due capitani. Lentamente il vantaggio aumenta, con gli azzurri che controllano la testa del gruppo. Ed Eddy? Così Merckx racconta quei momenti a Luca Gialanella su La Gazzetta dello Sport: «Vittorio è stato molto furbo ad attaccare quando mancavano 230 km all’arrivo, portandosi dietro Van Looy, io non potevo mica inseguirlo! Poi Van Looy si è ritirato e ci ha fregato. Ma Adorni ha fatto un’azione impressionante. Io non l’ho visto perché ero più indietro nel gruppo, ma… se lo meritava».
Ancora sulla salita del Frassineto, una volta rimasti il belga e l’italiano, Adorni prova lo scatto. Stavolta Van Looy non risponde e il parmense se ne va. Altri 90 km di fuga solitaria prima dell’apoteosi a braccia alzate davanti all’ammiraglia di Ricci con Ernesto Colnago, all’epoca nella veste di meccanico, ebbro di gioia. Il secondo, il belga Van Springel, arriva la bellezza di 9’50” dopo. Un campione del mondo italiano fa gola a molti e per la stagione 1969 si fanno sotto i Salvarani e Giacotto, ma Vittorio ha deciso, bisogna monetizzare l’impresa di Imola e sceglie la SCIC. Per sua stessa ammissione ricorda che: «Se non avessi vinto il Mondiale, sarebbe stato molto intrigante poter continuare al fianco di Eddy in qualità di “luogotenente” di pregio».
BUONI CONSIGLI
Alla SCIC si porta dietro i suoi uomini per creare un nuovo squadrone intorno a sé. Rispetto ad annate più recenti sembra che la maglia iridata abbia dato nuovo slancio al corridore parmense. Si contano 10 vittorie quell’anno, tra cui due cronometro (una alla Tirreno-Adriatico e una al Giro di Svizzera), una tappa al Giro d’Italia (22° tappa, Cavalese-Folgaria), la classifica finale del Giro di Svizzera. Soprattutto brilla la vittoria nel Giro della Provincia di Reggio Calabria, all’epoca valevole come Campionato italiano. In una volata a due con Vito Taccone, Adorni vince, indossando la maglia Tricolore sopra quella iridata. Questa è l’ultima grande vittoria di Vittorio. Al Mondiale di Zolder fa da regista, provando a contenere l’esuberanza di Dancelli che arriverà terzo. Al termine della stagione inaugura la sua agenzia di assicurazioni, il dopo carriera si avvicina sempre più.
Il contratto con la SCIC si chiude con il 1970 e anche se avrebbe un’opzione per il 1971, Adorni decide di fermarsi dopo 10 anni di professionismo. Negli ultimi mesi c’era stato più di un abboccamento da parte di emissari della Salvarani (e in particolare del direttore Lauro Grossi). Pezzi non era più così saldo ed era probabile un suo abbandono per la stagione seguente, al contempo Adorni dava segni di voler chiudere con l’agonismo. La chiusura con la SCIC non è indolore, ma ormai la decisione è presa.
Appianate le divergenze con i fratelli Salvarani, Adorni sostituisce Luciano Pezzi sull’ammiraglia per due anni. Si trova a guidare corridori che fino a poco prima erano stati suoi compagni o avversari, come Gimondi e Motta. Racconta Roberto Poggiali: «Vittorio era un amico, con lui si poteva parlare di tutto, dalle macchine alla politica. Era ancora uno di noi. Sapeva distribuire bene i compiti. Al riguardo mi ricordo di una volta in cui Felice si lamentava di trovarsi spesso solo nel finale e Adorni gli disse: “Vedi Felice [indicando Poggiali], in squadra hai dei corridori che ti possono essere utili nel finale di corsa, bisogna saperli sfruttare al momento giusto, così non rimarrai più solo”».
Poi la decisione della casa madre Salvarani di chiudere la squadra e per il 1973 si apre la prospettiva di una nuova compagine, la Bianchi Campagnolo. Racconta Adorni: «A Milano, in una sera dell’inverno 1972, mi sono ritrovato a tavola faccia a faccia con lo stesso Trapletti [patron della Chiorda, che qualche anno prima aveva acquistato il marchio Bianchi] e con Tullio Campagnolo. I due non riuscivano ad accordarsi sull’organizzazione del nuovo gruppo sportivo, che avrebbe dovuto portare il nome Bianchi Campagnolo. […] A un certo punto, dopo ore e ore di discussioni, ho deciso di alzarmi e muovere le acque. Quella sera, pur con qualche precisazione nei giorni successivi, è nata la Bianchi Campagnolo. Uno squadrone con Gimondi e Basso capitani. Il primo in maglia Tricolore, il secondo in maglia iridata».
La conquista della seconda maglia iridata in tre anni (Gimondi a Montjuich) lo porta a chiudere la sua esperienza come DS. Così racconta l’annuncio a Gimondi la sera della vittoria: «[…] Volevo soltanto dirti che ho deciso di smettere. Smetto da direttore sportivo. Ho un’agenzia assicurativa da portare avanti, due figli e una famiglia. Là hanno bisogno di me e in fondo ciò che mi ero ripromesso all’inizio di questa avventura posso dire di averlo raggiunto…». Comincia così una nuova vita da uomo di pubbliche relazioni. Applica la sua praticità e arguzia anche al di fuori del ciclismo, pur mantenendo incarichi di uomo immagine per Campagnolo e Clement. Si affaccia nel mondo dello sci. La Federazione ciclistica pensa a lui come possibile sostituto di Defilippis (CT della Nazionale), prima di assegnare l’incarico ad Alfredo Martini. Intreccia rapporti con il CONI e apre la strada alle sponsorizzazioni dei marchi gastronomici parmensi. La nuova vita di Adorni è ancora più movimentata di quella da ciclista. Finché la voce del giornalismo sportivo lo richiama. È Indro Montanelli, che da poco ha fondato Il Giornale (marzo 1974), che lo invia al Giro d’Italia come collaboratore tecnico.
«Mi sono così trovato ributtato ancora una volta nella mischia, in un lavoro per me ben più difficile di quello delle costanti presenze televisive da Zavoli: se il parlare non era mai stato un problema, discorso diverso valeva per lo scrivere, un’arte molto impegnativa per chi non ne ha i requisiti…» Si appoggia ai giornalisti RAI Alfredo Provenzali e Claudio Ferretti, che lo consigliano e lo supportano. Da lì a diventare la spalla tecnica di Adriano De Zan il passo è stato breve: «Impossibile trattenerlo o calmarlo durante i momenti di tensione della corsa! Abbiamo vissuto insieme molte stagioni passando per le più grandi corse del panorama, Mondiali in serie compresi».
Una collaborazione che dura ben 20 anni. Chiosa Luca Gialanella: «Per la sua competenza e capacità di linguaggio nell’analisi delle corse, Vittorio viene considerato un precursore dei successivi commentatori». Così come il suo “erede” Davide Cassani: «Lui è stato il primo commentatore tecnico nella storia della televisione accanto al mitico Adriano De Zan. Da lui ho imparato il garbo e l’espressione sincera, il tentativo di dire qualcosa di diverso e di originale su tutte le corse che commentavo».
IN PRIMA LINEA
Terminata l’esperienza televisiva al fianco di Davide De Zan, figlio di Adriano, a TeleMontecarlo, agli albori degli scatti di Pantani, Adorni a metà del 1996 diventa Presidente del Panathlon, organizzazione sportivo-culturale che raccoglie atleti illustri di tutte le discipline. In questa nuova veste entra in contatto con il CIO e tutte le più importanti figure della politica dello sport. Ancora una volta Adorni riesce a mostrare le proprie capacità, sia dialettiche che organizzative.
Ma il mondo del ciclismo rimane nel suo cuore e quando il Presidente UCI Verbruggen, nel 1997, lo chiama a far parte del Consiglio del ciclismo professionistico Vittorio accetta. Negli anni ricoprirà varie cariche all’interno del Consiglio fino a diventarne il Presidente. È un periodo caldissimo, quello della nascita del Pro Tour. Racconta Adorni: «Oggi quella concezione di nuovo ciclismo si è mostrata sicuramente vincente, pur con alcune problematiche non facili da gestire. Posso dire che quella riforma abbia creato la base per la vera globalizzazione del nostro sport». Contrastanti, ancora adesso, le posizioni in merito, ma la figura di Adorni resta sempre sotto una luce positiva: «Senza falsa modestia posso essere felice di aver partecipato a quel periodo di cambiamenti, con la convinzione in cuor mio di aver fatto sempre e soltanto il bene del ciclismo». Gli fa eco Maurizio Fondriest: «[…] E poi è stato un dirigente illuminato della Federciclismo mondiale, il più diplomatico, quelle persone che servono per mediare quando ci sono dei problemi: sempre elegante e sorridente, una figura pacata e corretta, positiva».
Racconta il campionissimo Giuseppe Saronni: «Vittorio era nella Commissione strada, poi vicepresidente e quindi presidente del Consiglio dei professionisti. Era il tramite tra l’Italia e l’UCI, ed è sempre stato disponibile, mai negativo, ci ha sempre aiutato tantissimo. Aveva un potere vero che veniva dal suo passato di grande campione e dal suo carisma. Adorni contava, eccome. Non perdeva mai il buon umore anche quando c’erano problemi. Vittorio è stato un buon politico, aveva grandi doti di mediazione, è stato un fine diplomatico. Ha partecipato al progetto di mondializzazione del ciclismo con il presidente Verbruggen, si chiamava Pro Tour (ora World Tour), anche se poi il quadro iniziale è stato stravolto».
Tra il 2006 e il 2009 Adorni riveste anche la carica di assessore allo Sport del Comune di Parma. Resta il tempo per tornare a Giro d’Italia ancora una volta. Sotto la gestione di Mauro Vegni e Paolo Bellino, Vittorio ricopre il ruolo di uomo immagine sul palco delle premiazioni, emulo di Bernard Hinault al Tour de France. Vittorio Adorni ha tagliato il suo ultimo traguardo la vigilia di Natale del 2022, tra il cordoglio di tutti gli appassionati di ciclismo. Al funerale, in forma privata, tutto il mondo del ciclismo e la corona di fiori dell’UCI a salutare un uomo che dall’alba degli Anni ‘60 è arrivato nel nuovo millennio, lasciando la sua impronta a più livelli nel mondo della bicicletta, da corridore e da dirigente, ma sempre con eleganza, acume e personalità.