Questa storia ha inizio la mattina del 22 ottobre del 1918. Ci troviamo a Sant’Angelo di Sala, una piccola frazione di Santa Maria di Sala, comune che oggi fa parte della Città Metropolitana di Venezia. Il paesaggio è decisamente autunnale, la Grande Guerra sta per finire e, dopo la tremenda disfatta di Caporetto nella dodicesima battaglia dell’Isonzo consumatasi un anno prima, questo invece sarà ricordato come uno dei giorni della vittoria. Vittoria è anche il nome della levatrice che aiuta a venire al mondo Antonio, quartogenito figlio di Florindo Bevilacqua e Teresa Rebeschini. Don Giacinto lo battezza nella chiesa di San Michele. Il bambino prende il nome del nonno e del Santo per antonomasia. Del resto la Basilica di Sant’Antonio da Padova è a una manciata di chilometri dal piccolo paesino nel cuore del graticolato romano. Siamo in Veneto e Antonio sarà, per sempre e per tutti, semplicemente Toni.
A 12 anni, terminato l’obbligo scolastico, Toni diventa contadino, ma scopre subito che il lavoro nei campi non fa per lui. Però deve sudare lo stesso in quei dieci campi del padre, almeno finché un giorno non ruba la bici del genitore e scopre che quella sarà la sua vita. Florindo lo aspetta cupo sul portico di casa e gli intima: «Quela bici non te la tochi pù». Un divieto che per il piccolo è un autentico colpo di pistola al cuore. Toni però ha la testa dura e il 26 aprile del 1937, a 18 anni, si tessera per la Società Ciclistica Scorzè come corridore di quarta categoria. Alla prima gara sul circuito di Villanova arriva secondo, ma solo perché non ha esperienza e una volata vera e propria lui non l’aveva mai fatta fino ad allora. Alle corse successive diventerà l’uomo da battere.
Toni, che ha deciso di dedicare la sua vita alla bicicletta, diventa così corridore dilettante. Il 18 giugno del 1939 si corre la Torino – Piacenza, gara di selezione per i Mondiali di Varese, 224,2 chilometri. Toni si presenta forte di quattro vittorie: Treviso, Padova, Ravenna e Bolzano. Bruno Pasquini scatta in salita ma Bevilacqua lo raggiunge. In discesa arriva anche Ronconi ma Toni, tra due ali di folla, trionfa al traguardo di Piacenza dopo avere innescato un’impetuosa progressione, relegando così i due compagni di fuga a 1’15”. E pensare che ai meno 12 chilometri aveva pure forato.
Il 28 giugno del 1943 Toni si presenta al Vigorelli ai campionati dell’inseguimento, una specialità assolutamente nuova per lui, e non sa ancora che in questa disciplina raccoglierà le sue maggiori soddisfazioni. Bevilacqua, tra una manche e l’altra, elimina uno ad uno tutti gli avversari, e si trova in finale con un certo Fiorenzo Magni. Il toscano parte forte, Bevilacqua non ha in testa la sconfitta, anche se al secondo giro accusa già 40 metri di distacco. Ma a due giri dalla fine il caparbio ragazzotto veneto annulla la distanza, apre il gas e aumenta proprio quando Magni è convinto di avere la vittoria in tasca. Toni vince la sua prima maglia Tricolore su pista a 24 anni, lasciando Magni 110 metri dietro.
A proposito di pista, però, il capolavoro assoluto Toni lo crea la sera del 22 settembre del 1949, in finale con sua maestà Fausto Coppi in quello che fu il suo anno migliore, se si pensa che l’Airone riuscì a imporsi nella Milano – Sanremo, al Giro di Romagna e per la prima volta nella storia confezionò la doppietta Giro – Tour, vincendo poi anche il Giro del Veneto. Quella sera Coppi indossava la maglia iridata, perché un mese prima aveva dominato il Campionato del Mondo, ma in quella occasione le cose andarono diversamente.
CONTRO COPPI
22 settembre 1949, Velodromo Vigorelli, ore 20.45: finale del Campionato Italiano inseguimento individuale. Attorno a Coppi sussurri e un palpabile timore reverenziale, attorno a Toni, invece tanta confusione. Coppi è calmo e concentrato, Toni è teso e impaurito. Del resto dall’altra parte c’è una divinità, di qua del parquet, invece, un rude ragazzotto veneto accompagnato dal padre che nel frattempo era diventato il suo più accanito tifoso. Partenza. Al primo passaggio Fausto è già in testa, pedala elegante come in un passo di danza, e per quattro giri guadagna su Bevilacqua. Coppi è l’arte ma Toni è la forza, e dopo la quinta tornata il distacco rimane costante, Coppi non guadagna più e intanto, giro dopo giro, le cose sembrano cambiare. Vito Ortelli a bordo pista gli grida: «Dai che lo prendi».
Nel frattempo la danza di Coppi si sta facendo pesante, mentre Toni continua a spingere con furia demoniaca, si inarca sulla bici, sembra volere strappare il manubrio. I denti mordono quel labbrone pronunciato e alla fine Bevilacqua vince con 100 metri di vantaggio sull’Airone, facendo segnare, tra l’altro, la miglior prestazione dell’anno. Insomma, maglia Tricolore, abbraccio e pianto a dirotto di papà Florindo. Coppi, un mese dopo, vincerà in solitaria il suo quarto Giro di Lombardia consecutivo.
Toni con la sua semplicità e la sua schiettezza sapeva farsi voler bene dal pubblico e dalla stampa, era molto amato da Dino Buzzati, da Orio Vergani, da Indro Montanelli, da Bruno Roghi. Anche Mario Fossati va a trovarlo, vuole conoscere da vicino lui e la sua terra. Perfino Oriana Fallaci, una giovane inviata di Epoca, si reca a Sant’Angelo a trovare mamma Teresa. Lei che in carriera avrebbe poi intervistato personaggi del calibro di Golda Meier, Henry Kissinger, Indira Gandhi, Gheddafi, Khomeini e tanti altri. E di Gianni Brera ne vogliamo parlare? Ricevere un soprannome dal giornalista più importante voleva dire essere diventato importante. Lo scopriranno l’Abatino (Gianni Rivera), Rombo di Tuono (Gigi Riva), Bonimba (Roberto Boninsegna): i soprannomi di Brera sono passati alla storia, e così Toni Bevilacqua diventa “Labròn”, perché ha il labbro pendulo ed enorme, e quando Brera scrive di Bevilacqua lo fa sempre in modo benevolo, cosa piuttosto insolita per il burbero giornalista. Del resto erano diventati amici.
Brera lo ha amato, ha scritto infatti: «Gli ho voluto un bene dell’anima. Ho provato ad avvicinarlo, durante le grigie processioni del Giro, e a dirgli desolato: “Ciò Toni, dime cossa posso scrivar oncuò”. Toni lasciava penzolare il labbrone guardandomi in tralice, apparentemente seccato. Poi ritirando il labbro come un ponte levatoio scopriva i dentoni in un sorriso equino, scrollava il capo per annuire: “magno el panin e vago”. Capito chi era Toni?». A un cronista amico, privo di argomenti per l’articolo della sera, prometteva di andarsene in fuga per movimentare la tappa, e regolarmente ci andava. Non serve dire che il cronista lo seguiva tifando come per il più degno dei suoi paladini.
DOPO LA GUERRA
Nel 1946, Bevilacqua veste con Giordano Cottur la maglia della Wilier Triestina, voluta da Mario Dal Molin di Bassano del Grappa. Più che una maglia, quella livrea è una bandiera. L’avvio del primo Giro del dopoguerra è strepitoso. Nella prima tappa Cottur vince solitario a Torino e Toni è secondo. Nella seconda frazione Toni, con un numero sensazionale, vince a Genova e indossa la maglia rosa. Quando il Giro viene bloccato a Pieris a causa di sassi e chiodi sui ciclisti e persino di uno sparo contro un agente di polizia, Bevilacqua è tra i 17 coraggiosi che raggiungono l’ippodromo di Montebello, e Bruno Roghi scriverà sulla Gazzetta dell’indomani: «I giardini di Trieste non hanno più fiori. Le campane di Trieste non hanno più suoni. Le bandiere di Trieste non hanno più palpiti. Le labbra di Trieste non hanno più baci. I fiori, i palpiti, i suoni, i baci, sono stati tutti donati al Giro d’Italia».
Toni è grande protagonista del Giro, un fedele gregario che quando viene lasciato libero sa pure vincere. Quando l’anno seguente, l’8 giugno 1947, si arriva al Velodromo Monti, a Padova, sede della sua squadra, la Lygie del presidente Cesare Rizzato, Toni si impone di potenza. In carriera fa sue undici tappe del Giro e per tre giorni indossa la maglia rosa. Per due volte brucia tutti sull’ultimo traguardo al Vigorelli. Il 14 maggio 1950 diventa campione italiano anche su strada. Sul percorso della Tre Valli Varesine arriva solo con 1’22” su Alfredo Martini, 3’15” su Ricci e 7’34” su Bartali e Coppi. Nessun traguardo gli è negato, nemmeno la leggendaria Parigi – Roubaix. L’8 aprile 1951 Bevilacqua è alla partenza di Parigi. Gli avversari sono forti e agguerriti. Per Toni le speranze di vittoria sono poche, quasi nulle. In ammiraglia c’è Giulio Rossi, che dominò l’Inferno del Nord nel 1937. Nel finale Bevilacqua si trova nel gruppetto di fuga e, dopo avere rischiato di cadere almeno un paio di volte, decide di attaccare nei pressi di Wattignies, a 22 km. dal traguardo. Prima Kübler poi Raymond Impanis cedono di schianto. Toni resta con quattro compagni, decide così di allungare sul pavé. All’entrata di Lesquin, a 17 km dall’arrivo, Bevilacqua si scopre con 30 metri di vantaggio e tanta forza in corpo. Lo inseguono Magni, Rik Van Steenbergen e Louison Bobet. Quando Magni slitta e cade, resta solo contro due campioni. Invano Bobet e Van Steenbergen si alternano nell’inseguimento. A sei chilometri dall’arrivo Toni evita con un riflesso superbo un’oca che gli taglia la strada ad ali aperte, starnazzando. Arriverà solitario a Roubaix con la straordinaria media di 40,355km/h e 1’32” di vantaggio su quei due favolosi campioni. I francesi lo chiamano “Le Taureau de Venise”, Il Toro di Venezia. È un finisseur micidiale, sa scegliere quando partire e difficilmente sbaglia. Intanto, a Sant’Angelo di Sala, Don Narciso fa suonare le campane a festa.
Quell’anno Toni vince la medaglia di bronzo al Mondiale di Varese, bruciato allo sprint da Ferdi Kübler e Fiorenzo Magni. Un terzo posto dal gusto amaro: sa che se Magni lo avesse aiutato, con grande probabilità, avrebbe potuto vincere. Tre settimane dopo, però, si rifà al Giro del Veneto. Scollina per primo sull’infernale Lapio, ma rompe i freni in discesa, così è costretto prima a frenare con un piede sulla ruota, poi a prendere la bici di un cicloamatore. Quando riceve di nuovo la sua bicicletta, ha già un minuto e mezzo di distacco ma, dopo una rimonta insperata ma irresistibile, raggiunge il gruppetto di testa e lo batte in volata.
Toni è un passista formidabile. Il giorno dopo quella famosa Cuneo – Pinerolo del ’49 è capace di infliggere alla maglia rosa Fausto Coppi 2’08” nella cronometro di Torino, una cavalcata sicura e potente di ben 65 chilometri. È un inseguitore di straordinaria potenza, capace di vincere per due volte il Campionato Mondiale. La prima a Récourt, il 15 agosto 1950, battendo in finale l’olandese Wim Van Est. La seconda il 28 agosto 1951, travolgendo il grande Hugo Koblet in un Vigorelli strapieno, e lo farà in 6’16”0, contro i 6’25” dello svizzero. Quel giorno la bici di Toni, a causa di un malinteso, non arrivò al velodromo e Toni dovette correre la finale con la bicicletta di Severino Rigoni, un uomo di 80 chili come lui. Ai Mondiali di inseguimento per altre quattro volte sale sul podio e vincerà anche quattro titoli italiani.
Un altro autentico capolavoro fu confezionato il 4 novembre 1950 al Trofeo Baracchi: 93.400 metri di cronometro a coppie, una corsa molto ambita. Alla vigilia Fiorenzo Magni, campione in carica, chiama Toni dopo il forfait all’ultimo del compagno Adolfo Grosso. Bevilacqua e Magni sono compagni alla Wilier Triestina e partono alle 12:04, quattro minuti dopo la coppia Albani – Salimbeni. Dopo 24 chilometri hanno già mezzo minuto di vantaggio, ma la ruota posteriore fa dannare Toni e si devono fermare per ben due volte, perdendo così il vantaggio accumulato. Tira un vento freddissimo e contrario. Il finale però è rovente, e al traguardo di Bergamo trionfano Bevilacqua e Magni che staccano i fratelli Fausto e Serse Coppi di 1’42” e la coppia Albani – Salimbeni di 2’12”.
CONTRO BOBET
Toni aveva fair play. In salita faticava molto, era piuttosto pesante. Però quando lo spingevano con la mano scacciava i tifosi più veementi. Eppure è su una salita che ha regalato l’episodio più bello della sua carriera, per la precisione – facendo un passo indietro rispetto a quanto appena raccontato – sull’ultima salita del Tour de France 1948. Toni era arrivato a Parigi sull’Orient Express al seguito di Gino Bartali e lo aveva subito guidato alla vittoria nella prima tappa, a Trouville. Poi, però, il giovane Louison Bobet, splendido per talento e coraggio, era andato a segno con una serie di attacchi e aveva conquistato la maglia gialla. Dopo 12 tappe aveva staccato Bartali di 21’28”. Impavido, Bartali aveva vinto a Lourdes e aveva portato Toni e la squadra a pregare dalla Madonna.
Bobet ormai era sicuro di vincerlo quel Tour, ma arrivarono poi l’attentato a Palmiro Togliatti e la telefonata di De Gasperi – come abbiamo raccontato su BE35 – e Louison alla fine venne demolito dal toscano. I belgi, come degli sciacalli, lo attaccarono da tutte le parti per soffiargli il secondo posto in classifica: per il francese sarebbe stata un’autentica disfatta, disintegrato da “L’homme de fer”. Ma è qui che entra in scena Toni Bevilacqua.
Il 19 luglio si corre da Losanna a Mulhouse. Bartali ormai ha preso il volo e il giorno prima ha dominato nelle ultime tre tappe. Luigi Clerici, cronista dell’epoca, fu testimone diretto dell’episodio che andremo a raccontarvi, perché stava sull’auto di Carl Pellissier, pioniere del ciclismo che era tifosissimo di Bobet e non voleva lasciarlo solo col suo sconforto. Scrive Clerici che Bobet non rispondeva più agli incitamenti, il generosissimo atleta era sordo a tutti i richiami. A un certo punto Pellissier gli si avvicina e gli dice: «Allez Bobet, il faut souffrir» («Forza Bobet, dobbiamo soffrire»). Louison cerca di sorridergli ma il suo viso è una maschera di dolore. Basta una salita modesta come la Vue des Alpes, quel 19 luglio del ’48, perché Louis Bobet sprofondi, tanto che a ogni piccolo dislivello perde velocità rischiando di compromettere addirittura l’equilibrio.
Toni lo vede, lo osserva e se ne addolora tanto che, preso da profonda compassione, lo sospinge, diventando scudiero del rivale di Bartali. Lo tira e lo spinge, prendendolo per il tubolare che porta a tracolla. Infrange le leggi spietate della corsa in nome della “pietas” antica, che i cristiani chiamano carità, forse la più nobile delle virtù teologali. L’indomani i giornali francesi pubblicano le foto che immortalano l’episodio e ancora ai giorni nostri, sebbene siano passati molti anni e molti Tour, il nome di Toni Bevilacqua è sinonimo di onore e rispetto.
Toni aveva la risata facile, sapeva far ridere i compagni e gli avversari. Al Giro del ’51, per scoraggiare gli inseguitori che si erano organizzati per riprendere la fuga, si mise in testa al gruppo con un piede sul manubrio, pedalando con una gamba sola, così i cacciatori scoraggiati scoppiarono a ridere e intanto il suo compagno di squadra Guido De Santi andava a vincere quella quarta tappa che da Genova portava il gruppo a Firenze. E poi quel 29 maggio sempre del ’51, Gianni Brera scrisse a proposito della tappa Foggia – Pescara di «due vagabondi di pianura come Bevilacqua e Casola: salgono affiancati, i gaglioffi, e cantano a squarciagola una canzone alpina».
Toni rendeva la vita gentile con il suo modo leggero di stare in compagnia e con una spiccata autoironia. La bicicletta è stata una passione forte e intensa anche dopo la vita da professionista, tanto che si donò come tecnico della pista, dove allenò corridori straordinari. E poi pedalava tanto, e lo faceva per il gusto e per l’amore di quella bicicletta che gli aveva regalato una vita straordinaria.
Era uscito in bicicletta anche quel mercoledì 24 marzo del 1972, stava accompagnando i giovani allievi Mirco e Antonello, che avevano percorso circa un centinaio di chilometri, quando nei pressi di Martellago si trovano improvvisamente sulla loro strada la giovane Diana, che si ferma a bordo strada con la sua bici e mette il piede a terra, i due giovani la scartano in agilità ma Toni che stava guardando la catena, la urta in pieno, la sua bici si impenna e lui vola sull’asfalto. Diana viene scaraventata a terra e Bevilacqua rimane a terra privo di sensi: dopo aver compiuto una breve parabola, ha battuto la testa. All’ospedale di Mestre, dove è stato trasportato con urgenza, fanno arrivare subito dal policlinico di Padova il professor Costantini, uno dei più importanti neurochirurghi, e questi emetterà la sua impietosa sentenza: «Il paziente è clinicamente morto».
Toni esalerà il suo ultimo respiro cinque giorni dopo quel banale, tragico incidente. Aveva 53 anni. Si è spento serenamente, e quegli occhi che hanno ammirato Coppi e trascinato Bobet nel suo calvario ora brillano ancora, attraverso Sonia, una bimba di Chirignago, e Cosma, di Conegliano Veneto, l’ultimo atto d’amore di un uomo straordinario come Toni Bevilacqua. Gino Bartali amava Toni. «Aveva un cuore grande come la sua valigia», disse. Si riferiva alla valigia grande e vuota con cui partì per correre in Argentina e che riportò a casa piena di regali per tutti.