Quella che stiamo per raccontarvi è la storia di un ciclista dal talento puro e cristallino, come pochi altri nel panorama sportivo e umano.
Questa storia, però, è anche forse la più drammatica che il ciclismo stesso abbia lasciato ai posteri e più nello specifico agli appassionati di questo sport. È la parabola di un corridore silenzioso, fatta di vittorie, di trionfi straordinari e di tifosi in delirio, ma è anche una storia triste che si chiude in modo inaspettato e drammatico. Un ciclista maledetto e come quella di tutti gli eroi maledetti la sua è una storia piratesca, tanto esaltante quanto dolorosa. È la storia di Roger Rivière, un corridore francese ricco di charme ed eleganza, spavaldo e sicuro di sé, con addosso tanta classe e tanto fascino. Chissà dove sarebbe arrivato Roger se il destino non gli avesse giocato quel tragico brutto scherzo? Perché la sua straordinaria avventura – di uomo e di campione – finì a soli ventiquattro anni in un burrone durante il Tour de France del 1960. Ma andiamo con ordine.
La storia ha inizio il 23 febbraio del 1936, il giorno della sua nascita in un sobborgo di Saint-Étienne, nella regione del Rodano a sud-est della Francia. Quella dei Rivière è una famiglia benestante. Il padre possiede un’officina e lavora come cromatore e lucidatore di telai di biciclette. In famiglia si respira ciclismo da sempre e la sua passione da bambino è quella di collezionare figurine, biglie e tappini che raffigurano i campioni delle due ruote. La prima bicicletta arriva verso i dieci anni, ma lui gioca a calcio fino all’età di sedici, quando si tessera come ciclista amatore per il Vélo-Club Stéphanoi e di lì a poco arriva la prima vittoria al Grand Prix des Canuts. Nel frattempo il ragazzo continua a studiare e prende il diploma di meccanico di precisione.
Lavora come attrezzista e nel fine settimana partecipa alle gare. Tutte le mattine per recarsi al lavoro si scala in bicicletta il Col de la Republique e al pomeriggio si allena in pista, sul velodromo vicino a casa. Promette bene il ragazzo, a livello locale vince tantissime corse, sia su strada sia su pista, e viene ingaggiato dal Saint-Étienne-Cycle. Nel 1955 arriva secondo ai campionati nazionali di inseguimento e firma un ingaggio di 15 mila franchi per una sfida tra stradisti e pistard al Parco dei Principi, nel quale si scontra con stelle del calibro di Jacques Anquetil e André Darrigade. Nel 1956 vince il titolo nazionale amatori di inseguimento e decide così di lasciare il lavoro per passare al professionismo a tempo pieno nelle fila della Saint-Raphaël-Géminiani.
UNA FORZA DELLA NATURA
Rivière è una vera forza della natura nelle prove a cronometro e su pista. Nel ’56 vince il campionato nazionale francese di inseguimento professionisti, battendo proprio sua maestà Jacques Anquetil. Nell’agosto del 1957 indossa la prima maglia iridata dell’inseguimento, battendo allo Stade Velodrome di Rocourt, alle porte di Liegi, quel Guido Messina che era per tutti il favorito numero uno della specialità, tanto che gli allibratori non accettavano più scommesse sull’italiano. A far saltare il banco ci pensò Rivière che, dopo avere eliminato l’azzurro in semifinale, trionfò nella finale contro il connazionale Albert Bouvet.
Forte di questa vittoria, il 18 settembre del 1957, sul parquet del Vigorelli, frantumerà il record dell’ora di Baldini, percorrendo 530 metri in più del treno romagnolo. A seguito di questa prestazione, la stampa francese organizza una sfida (strapagata) tra i tre recordmen dell’ora attivi all’epoca: Anquetil, Rivière e Baldini. I tifosi sono in visibilio. Roger vincerà l’incontro e si farà conoscere al mondo intero per la sua classe e per la sua eleganza nel gesto atletico.
L’anno dopo, nel 1958, Rivière vuole migliorarsi con un nuovo tentativo sull’ora e diventa il primo uomo in grado di abbattere il muro dei quarantasette chilometri all’ora, fermando il cronometro esattamente a 47,347 km nonostante una foratura l’avesse penalizzato di un giro, meritandosi così l’ammirazione sincera di un altro fenomeno del pedale, Fausto Coppi, pure lui a suo tempo detentore del primato e presente nell’occasione per incoraggiare colui che ha tutte le carte per diventare un nuovo campionissimo. Rivière è sfrontato. Si è preso l’abitudine di dichiarare i suoi successi, che poi infatti arrivano puntualmente, e alla gente piace così. È amato da tutti per essere un campione e un uomo autentico. Non si atteggia da divo come tanti ciclisti di allora, è sempre disponibile per una foto, per un autografo o per una battuta con i tifosi.
Nel 1959 annuncia al mondo di volere vincere il secondo titolo iridato a inseguimento e naturalmente senza troppa difficoltà centra l’obiettivo al Parco dei Principi di Parigi, superando i due azzurri Leandro Faggin e Franco Gandini. Appena giù dal podio non perde tempo e annuncia di voler vincere le classiche monumento e il Tour de France. Alla Vuelta a España, intanto, dà filo da torcere a Federico Martin Bahamontes e a Charly Gaul, vincendo due tappe di montagna e battendoli proprio sul loro terreno naturale.
Arriva poi il Tour de France. La nazionale francese è un’autentica corazzata ma a spuntarla sarà l’Aquila di Toledo, Bahamontes, in virtù di una guerra fratricida tra Anquetil e lo stesso Rivière, che si temono e si ostacolano a vicenda favorendo inevitabilmente lo spagnolo. Anquetil arriva terzo e Rivière quarto, giù dal podio per soli 12 secondi, con la magra consolazione di aver battuto il rivale sia nella cronometro di Nantes che in quella di Digione. In un’intervista a caldo, però, manderà un messaggio piuttosto velenoso al mondo del ciclismo ma soprattutto agli avversari: «L’anno prossimo il migliore sarò io…».
IL TRAGICO 1960
Nel frattempo arrivano un altro titolo iridato su pista e diverse altre vittorie, ma a questo punto quello che gli interessa è il Tour de France del 1960. Jacques Anquetil decide di non parteciparvi: è troppo stanco dopo avere vinto il Giro d’Italia, per soli ventotto secondi su Nencini, grazie a una scalata al cardiopalma sul Passo Gavia nel giorno dell’odissea di Imerio Massignan (una storia che vi abbiamo raccontato su BE43). Rivière, comunque, non ha dubbi, e lo ripete chiaro e forte già alla partenza del Tour che quell’anno inizia a Lille, nel nord della Francia: «Vinco io!». In effetti, come da copione, si impone nella prima frazione a cronometro rifilando più di mezzo minuto al rivale annunciato, Gastone Nencini.
È davvero scatenato, Roger, in quella prima parte del Tour. Non guarda in faccia a nessuno, neppure ai suoi compagni di squadra, e nella sesta tappa da Saint-Malo a Lorient, sulle strade della Bretagna, attacca in pianura all’improvviso, quando mancano ancora più di cento chilometri al traguardo. Quella che a prima vista sembra una tattica suicida si rivela poi vincente. D’istinto, lo seguono Nencini, il belga Adriaensens e il tedesco Junkermann. La maglia gialla è sulle spalle del francese Anglade, ma Rivière quel giorno non se ne cura più di tanto. Tira solo lui in quella fuga, per poi battere allo sprint gli avventurieri di giornata, aggiudicandosi la tappa. Il gruppo arriva a Lorient con un quarto d’ora di ritardo, con tutti già finiti fuori gioco. La vittoria finale se la sarebbero giocata Rivière e Nencini sui Pirenei, sulle Alpi ma anche a cronometro.
Sui Pirenei il francese ha però una leggera flessione, forse una crisi dovuta a disidratazione, e si ritrova a un minuto e trentotto secondi da Nencini, che nel frattempo ha conquistato la vetta della classifica generale. In programma ci sono ancora una cronometro di ottantatré chilometri e poi le Alpi. Il toscano sa che contro il tempo Rivière è imbattibile mentre in salita si equivalgono, pertanto l’unico modo per staccare il francese è quello di attaccarlo in discesa. Nencini su questo terreno è dannatamente spericolato, tecnicamente perfetto e con un coraggio da leone, praticamente il migliore.
Domenica 10 luglio 1960 va in scena il dramma. Dopo una giornata di riposo, i ciclisti affrontano la tappa che da Millau porta ad Avignone, col Tour che sta prendendo la direzione delle Alpi. Dopo cinquantacinque chilometri si affronta una tortuosa e infida discesa giù dal Col de Perjuret – un colle di per sé privo di grosse difficoltà per i protagonisti della corsa – quando Nencini si lancia in picchiata tra i tornanti, uno dopo l’altro, a ogni curva rischia, rasenta la montagna, si piega, si lancia, frena quel poco per non saltare nel baratro e rilancia con potenza e cattiveria a ogni curva. Anche solo provare a stargli dietro sarebbe un azzardo da incoscienti, ma Rivière non può permettersi di lasciarlo andare e così prova a inseguirlo. Non è facile tenere la ruota di Nencini in discesa, tanto che Raphael Geminiani in quell’occasione disse: «L’unica ragione per voler seguire Nencini in discesa è desiderare di morire».
Il Perjuret non è molto lungo né molto ripido ma piuttosto sinuoso, con curve secche e strette. Proprio in una di quelle curve, Rivière perde il controllo della sua bicicletta, si scontra con un muretto e vola fuori strada, precipitando venticinque metri più in basso sopra dei rami che ricoprono il greto del fiume. Il compagno di fuga Louis Rostollan sente il botto dell’impatto, si gira, si ferma, risale la strada e allerta i soccorsi. Nessuno aveva visto la caduta e il gesto di Rostollan probabilmente salverà la vita a Rivière, che nel frattempo non riesce a muoversi. Così viene caricato su un’ambulanza e portato in una zona non coperta da vegetazione dove viene issato su un elicottero e trasportato all’ospedale di Montpellier. La diagnosi è la frattura di alcune vertebre dorsali.
LA CADUTA E IL BUIO
Mentre Gastone Nencini va a vincere agevolmente quel Tour del 1960, Rivière, adagiato e sofferente in un lettino d’ospedale, non vuole rassegnarsi a una vita da invalido. Attorno a questa storia nacquero poi diverse leggende, sussurri e malignità, una tra tutte sulla decisione dei medici di non intervenire chirurgicamente, dando poca importanza alla gravità del trauma. Si scoprirà poi che questa fu una scelta sbagliata, poiché le vertebre fratturate danneggiarono irreversibilmente il tessuto nervoso della spina dorsale, quando invece con un intervento la storia di Roger Rivière forse sarebbe stata diversa.
Beppe Conti nel suo libro “Glorie e Tragedie” racconta le parole del telecronista e scrittore Jean-Paul Olivier che sostenne una tesi alquanto ardita su come fece il francese a finire in quel burrone: «Rivière, nelle giornate decisive in cui voleva attaccare, prendeva un prodotto molto forte, un analgesico, il Palfium, per non avvertire dolore quando la fatica si faceva tremenda. Ma quel prodotto, fra gli effetti collaterali, in certi casi non dava più sensibilità alle dita delle mani. E Roger non riuscì più a frenare. È questa l’amara realtà».
Lo stesso Beppe Conti riporta il racconto del professor Peracino, confidente e amico dei campioni: «Fu tutta colpa di Nencini se Rivière andò nel burrone. Ma ti spiego perché. Il giorno precedente, una giornata di riposo, la sera a tavola Gastone mangiò come un maialino, non sto a dirti quanto. Mangiò e bevette il giusto, col suo fiasco di Chianti sempre in tavola. Io invano cercai di frenarlo, sino a dirgli che il giorno dopo, in caso di problemi di stomaco, avrebbe dovuto arrangiarsi. E lui in effetti stette male la notte. Al mattino non ebbe neppure il coraggio di venire da me e andò all’ambulanza del Tour a chiedere pasticche per digerire. I francesi lo videro e diedero l’allarme, la maglia gialla stava male, bisognava attaccarlo già nella fase d’avvio della tappa, sfruttando anche il caldo torrido del “midi”. E così fecero. Ma Nencini con quelle pasticche digerì e accettò la sfida. Era un discesista folle, bravissimo. Rivière volle seguirlo e finì nel burrone».
In ogni caso, dopo parecchi mesi di riabilitazione, Rivière tornò in qualche modo a camminare, ma con la mobilità delle gambe notevolmente ridotta, tanto che non fu più in grado di risalire in bicicletta, anzi per dirla tutta trascorse il resto dei suoi giorni su una sedia a rotelle. Cercò di rifarsi una vita, ma le cose non andarono affatto per il verso giusto.
Nella sua Saint-Etienne aprì un ristorante dal nome suggestivo, Vigorelli, in ricordo dei suoi record sulla magica pista milanese. Ma gli affari andarono davvero male e gli amici, anche quelli a lui più vicini, gli voltarono le spalle. Il ristorante fallì e così decise di prendere in gestione un campeggio estivo. Aprì poi un concessionario di automobili, quindi un altro bar a Ginevra e una discoteca sempre a Saint-Etienne. Tutte queste attività, una dopo l’altra, furono costrette a chiudere per bancarotta, dato che Rivière non era capace di gestirle, ma soprattutto aveva sviluppato una dipendenza da quel dannato Palfium, un antidolorifico più potente della morfina, che Rivière arrivava ad assumere fino a sette volte oltre alla dose giornaliera suggerita.
Nel 1967 venne processato assieme ai tre medici che gli avevano prescritto l’analgesico in violazione delle norme a riguardo (per ottenerlo in modo legale ci volevano due prescrizioni, di cui la seconda a scadenza di una settimana l’una dall’altra). Nel 1972 venne coinvolto nel processo a una banda di malfattori che avevano rapinato la stazione di Arles. Passa due notti in prigione, viene interrogato e alla fine condannato, ma rimesso subito in libertà per via dei suoi problemi di salute. Verrà poi prosciolto in appello anche se questa resta una gran brutta storia.
Nel frattempo, l’abuso ininterrotto di Palfium gli causa una sorte di strana raucedine e nel 1975 gli viene diagnosticato un cancro alla laringe. Roger viene operato per l’asportazione di una parte delle corde vocali e sottoposto a diversi cicli di chemioterapia, ma la sera del primo aprile del 1976, mentre guarda la partita di calcio del suo Saint-Etienne, all’improvviso chiude gli occhi per sempre e si spegne.
Il caso di Rivière è stato per anni al centro delle polemiche sul doping, in quanto all’arrivo all’ospedale di Montpellier, il giorno della caduta, gli vennero trovate nelle tasche della maglia due blister di farmaci, uno di anfetamine e uno proprio di Palfium. Il direttore sportivo della nazionale francese, Marcel Bidot, dopo la morte di Rivière, confessò di sentirsi in colpa “per aver chiuso gli occhi” sugli evidenti abusi di Rivière, soprattutto per i suoi rapporti con Julien Schramm, massaggiatore noto per essere un “distributore” di sostanze dopanti.
La vita di Roger fini così, quando il suo corpo si arrese definitivamente al vento della sfortuna, contro cui non poté nulla nemmeno l’uomo del record dell’ora, e raggiunse quella sua stessa anima volata via sedici anni prima, quel 10 luglio del 1960 giù dal Col de Perjuret. Aveva da poco compiuto quarant’anni.