Centocinquanta anni fa, il 3 marzo del 1871, nasceva ad Arvier, lungo la sponda destra della Dora Baltea, a una quindicina di chilometri a est di Aosta, Maurice Garin, il primo vincitore, nel 1903, del Tour de France.
Per la precisione nasceva a Chez-les-Garin, un villaggio nei dintorni di Arvier. Si chiama così, il villaggio, perché cinque delle sette famiglie che vi abitano portano il cognome Garin.
Il padre è un contadino, la madre lavora in una locanda. Maurice è il quarto di nove figli, il primo dei maschi. La vita è grama da quelle parti ma sembra un poco meno grama dall’altra parte delle Alpi: nel 1885 la famiglia Garin decide di emigrare in Francia. Non è semplice: una disposizione del prefetto di Aosta vieta l’espatrio oltralpe e i Garin devono farlo clandestinamente, e in modo separato. Pare che il giovane Maurice venga affidato, forse “venduto”, a un sensale di manodopera in cerca di piccoli spazzacamini da reclutare in cambio di una toma di formaggio. Maurice inizia a calarsi nei camini delle città e dei villaggi della Savoia, poi si sposta più nord, a Reims prima e poi a Charleroi, in Belgio. Quando ha 18 anni si stabilisce a Maubeuge, dipartimento del nord, sul confine belga. Si compra una bicicletta per 405 franchi, il doppio di una paga mensile di un operaio del tempo. Sfreccia per le vie della città e chi lo vede lo prende per matto. Lo convincono a correre. Lui ci prova e non va piano, ma continua a lavorare come spazzacamino. Nel 1893 compra una nuova bicicletta, più leggera e con gli pneumatici, e non le gomme piene. Vince la sua prima corsa a Namur, in Belgio, in modo rocambolesco. Mentre si trova in fuga, buca una gomma ma invece di cambiarla chiede di poter usare la bici di uno spettatore, che glielo consente. Con quella arriva al traguardo, primo. Il giorno dopo tornerà a restituirgliela e a riprendersi la sua.
Vince altre corse, tra cui una randonnée di 800 km, a Parigi. Diventa famoso. Molte squadre lo vorrebbero scritturare come professionista ma preferisce correre come indipendente. Cura personalmente il suo mezzo, apportandogli accorgimenti tecnici che ne migliorano le performance. Ad esempio, incollare uno stoppino da lampada a petrolio sulla tela delle camere ad aria. È piccolo, massiccio, resistente. Lo chiamano “le Petit Ramoneur”, il piccolo spazzacamino. Nel 1894 partecipa a una corsa a Avesnes-sur-Helpe. Non potrebbe, essendo riservata ai soli professionisti. Nonostante due cadute, vince a mani basse. Gli organizzatori, non essendo in regola, si rifiutano di riconoscergli il premio vittoria di 150 franchi. Provvedono gli spettatori, improvvisando una colletta e consegnandogli 300 franchi. Capisce finalmente che può guadagnarsi da vivere correndo in bicicletta e non spazzando la fuliggine dai camini.
PRIMI TRIONFI
La sua prima vittoria da professionista è alla 24 Ore di Parigi, che si corre nel velodromo allestito presso il Palais des Art Liberaux, uno dei due edifici costruiti a fianco della Tour Eiffel in occasione dell’Esposizione Universale del 1889. È una prova massacrante: 700 km in pista nel gelido clima del gennaio del 1895. Pochissimi portano a termine la prova e Garin vince con un vantaggio di 49 km sul secondo arrivato: durante la gara dichiara di essersi alimentato con 19 litri di cioccolata calda, 7 litri di tè, 8 zabaioni, una tazza di caffè corretta con acquavite, 45 cotolette, due chili di riso e latte e (bontà sua, non si specifica la quantità) delle ostriche. Un mese dopo stabilisce il record del mondo su strada nei 500 km in 15 ore, 2 minuti e 32 secondi.
Nel marzo del 1896 si stabilisce a Roubaix. Viene stipendiato come magazziniere di una ditta costruttrice di biciclette, La Française, che ha anche una squadra-corse. In quello stesso anno si corre la prima Parigi-Roubaix. Garin vi partecipa e arriva terzo, nonostante una brutta caduta. L’anno seguente è primo. Batte in volata l’olandese Cordang, che cade a poche centinaia di metri dall’arrivo, si riprende ma non riesce a raggiungere Garin. Maurice dichiara sportivamente: «Ho vinto io ma il più forte è lui». Garin è forte pure lui, se continua a vincere, soprattutto nelle corse a lunga distanza. Nel 1897 è di nuovo primo alla Parigi-Roubaix: il secondo arriva dopo mezz’ora. Dopo due stagioni senza successi, torna sugli allori nel 1901 conquistando la massacrante Parigi-Brest-Parigi, 1208 km in 52 ore, 11 minuti e 1 secondo, 19 ore in meno di quanto impiegò, dieci anni prima, Charles Terront nella prima edizione della “madre di tutte le randonées”. In quello stesso anno ottiene la nazionalità francese. Nel 1902 vince un’altra grande classica delle lunghe distanze, la Parigi-Bordeaux, di 500 km. Va a vivere a Lens.
Quando nel 1903 viene bandito il primo Tour de France dal giornale “L’Auto”, Garin è il primo a inviare la sua iscrizione: infatti partirà con il dorsale numero 1 e con la maglia de La Française. Garin è il favorito ma se la dovrà vedere con Hippolyte Aucouturier, soprannominato l’Ercole di Commentry, vincitore in quello stesso anno della Parigi-Roubaix e della Parigi-Bordeaux. Ma la sorte della corsa sembra già decisa all’arrivo della prima tappa, a Lione. Garin, in fuga con Emile Pagie, vince alla grande. Il terzo arrivato ha già più di mezz’ora di ritardo. Aucouturier, attardatissimo già dalla prima tappa, vince le due seguenti, a Marsiglia e a Tolosa, ma Garin resta saldamente primo in classifica. Garin ammazza il Tour vincendo la quinta tappa. Fernand Augereau lo accusa di aver tentato di corromperlo con denaro e di aver tramato con Lucien Pothier per farlo cadere in vista dell’arrivo a Nantes. “L’Auto” non fa menzione dell’accaduto ma le rivelazioni di Augerau vengono raccolte dal giornale-rivale “Le Monde Sportif” e costano a Garin una contestazione di tifosi alla partenza, l’indomani, per Parigi. Garin mette d’accordo tutti tagliando primo il traguardo anche a Parigi. Su sei tappe ne ha vinte tre e in classifica generale precede Pothier di 2 ore, 59 minuti e 21 secondi; Augerau è terzo a quasi 4 ore e mezza.
Il giorno dopo la vittoria, e prima di rientrare a Lens, dove lo attende una parata trionfale tra i concittadini, Garin si reca in visita di cortesia da Henri Desgrange, il direttore de “L’Auto”. All’inventore del Tour, per “semplificargli il lavoro” (così dice) consegna una sua personale relazione sulla corsa: cosa ha provato, cosa ha funzionato e cosa no nell’organizzazione, per finire con i complimenti agli avversari. Scrive, tra le altre cose: «I 2500 chilometri che ho percorso mi hanno fatto l’effetto di una lunga linea grigia, monotona, l’unica cosa che conta. Ho sofferto sulla strada, ho avuto fame, ho avuto sete, ho avuto sonno, mi sono sentito male, ho pianto tra Lione e Marsiglia: era il prezzo da pagare per vincere le altre tappe».
DOPPIO TOUR
Garin vince anche l’anno seguente, quando il Tour de France è una battaglia senza esclusione di colpi. L’attraversamento del paese è punteggiato di numerosi atti di ostruzione, se non di aggressione, da parte di tifosi che cercano di favorire i corridori locali. I ciclisti spesso devono difendersi o fuggire in modo rocambolesco dagli agguati. La corsa termina con Garin ancora vincitore davanti a Pothier, al fratello César Garin e Aucouturier, ma a seguito di un’indagine condotta nei mesi successivi alla corsa, l’organizzazione squalifica i primi quattro corridori per vari comportamenti non regolamentari (tra cui alcuni trasferimenti in treno) e conferisce la vittoria al quinto classificato, Henri Cornet. Garin viene squalificato per due anni. Ha ormai trentatré anni e la punizione mette fine alla sua carriera.
Va a vivere a Châlons-sur-Marne dove gestisce un negozio di biciclette, quindi torna a Lens, dove apre il Garage Maurice Garin. È qui che lo va a trovare Vittorio Varale, inviato de “La Stampa” al Tour de France del 1938, il primo vinto da Bartali. Gli strappa un’intervista, nell’attesa che passi la maglia gialla nell’ultima tappa, la Lille-Parigi: «Maurizio Garin mi viene incontro e alle prime parole mi tende la mano. È piccolo, un po’ grasso, i capelli più bianchi che grigi, il viso rosso solcato da tante rughe, ma lo sguardo scintillante e giovanile ancora. Parla adagio, e 50 anni e più (poi mi dirà che ne ha 68) di residenza in Francia non hanno tolto al suo accento un che di meridionale che svela la sua origine». L’autista di Varale, Bertolazzi, non credeva che ci fosse stato un “italiano” a vincere il Tour prima di Bottecchia. Ora se lo trova di fronte. Varale gli chiede come sono cambiate le corse in bicicletta dalla sua epoca. Garin risponde così: «Oh! In tante cose. Sulla strada non c’era nessuno ad aspettarci per gridare “bravò!”; una sola volta un gruppo di persone si disturbò ad aspettarmi, proprio personalmente. Ma era per darmi un fracco di legnate. Io riuscii a schivarmela, ma poi seppi che le botte se l’era prese il vostro Gerbi… E poi non correvamo tutti i giorni e su brevi distanze. Facevamo tappe di 400, anche 450 km, riposandoci tre o quattro giorni. Ricordo che a Lione andai due giorni a pescare fuori dalla città e dovettero venirmi a prendere per farmi partire per la seconda tappa. Io non mi sarei più mosso… […]. E poi si correva su biciclette pesanti 14 o 15 kg, con degli ingranaggi e delle gomme che accrescevano maledettamente la fatica. Io penso ai corridori di adesso che nella giornata di riposo stanno a letto quasi tutto il giorno e hanno massaggi e unguenti e cure e delicatezze da non credere. E biciclette extraleggere che a spingerle basta toccarle col dito, con delle gomme che appena toccano l’asfalto, sì che davvero la corsa assomiglia a un volo…».
Dopo aver salutato Garin e ripresa la strada per Parigi, Varale chiude il suo articolo con considerazioni che non rendono forse merito alla sua originale lettura (e scrittura) dello sport. «Noi proseguiamo nella corsa; ci immergiamo nel torrente tumultuoso di questo Giro di Francia e, all’infuori di me, nessuno pensa o ricorda il vincitore del primo Tour. È il destino degli uomini che, per un giorno o per un anno, diventano celebri grazie alle competizioni sportive; come dire di Bartali… come sarà nel 1973. Chi allora si ricorderà di lui? Nient’altro egli sarà che il Garin del 1938… Un nome, cioè che poco o nulla dice, un alzar di spalle, un piegar di labbro in segno di noncuranza; e, questa, dicono è la gloria!».
Marzo 2021. Di Bartali a 83 anni dal primo Tour (poi ne arrivò un altro dieci anni dopo, e l’infinita sfida con Coppi, ma Varale non poteva saperlo) se ne parla ancora e se ne scrive anche di più. E tutto sommato anche di Maurice Garin, “le petit ramoneur”, il piccolo spazzacamino, morto nel 1957 ma del quale ci si ricorda con affetto a un secolo e mezzo dalla sua nascita.