Il 2021, suo malgrado, è un anno olimpico, visto che la pandemia da Covid-19 ha imposto lo spostamento delle Olimpiadi di Tokyo dal 2020 all’anno corrente.
Proprio mentre andiamo in stampa, infatti, si stanno svolgendo gli eventi olimpici e speriamo che questo nostro articolo possa essere benaugurante per gli atleti italiani impegnati in gara, soprattutto nel ciclismo. Addentrandoci invece nel percorso di questo articolo – che tratta appunto di Olimpiadi e ciclismo – va detto che la bicicletta entrò fin da subito tra le nobili discipline dell’Olimpo, esattamente dalla prima edizione del 1896 ad Atene, che si svolse tra l’altro nel periodo fra il 6 e il 15 aprile, proprio nei giorni in cui veniva pubblicato il primo numero della Gazzetta dello Sport, a testimonianza di quanto lo sport iniziasse a diventare importante nella cultura e nella società. Il nuovo giornale sportivo, che stava uscendo in edicola grazie all’idea di Eugenio Camillo Costamagna ed Eliso Rivera, altro non era che il risultato della fusione di due giornali già famosi e collaudati, Il Ciclista e La Tripletta. Quel primo numero del giornale rosa, che per l’occasione era verde, fu dedicato totalmente al pedale, in un’Italia dove lo sport più seguito era per l’appunto il ciclismo.
I corridori professionisti hanno cominciato a partecipare alle Olimpiadi soltanto dall’edizione 1996, che si svolse ad Atlanta, nella Georgia statunitense. Fu una grossa novità perché fino ad allora la partecipazione era riservata agli atleti dilettanti. In quel 1996 la gara in linea fu dominata dallo svizzero Pascal Richard, mentre l’Italia s’impose in pista con Andrea Collinelli e Antonella Belluti nell’inseguimento e con Silvio Martinello nella corsa a punti, oltre che con Paola Pezzo nella mountain bike, che per la prima volta fu inserita nel programma olimpico.
Se avessimo voluto raccontarvi degli innumerevoli successi ciclistici italiani alle Olimpiadi ci sarebbero voluti diversi numeri di Biciclette d’Epoca, perché l’Italia può vantare un gran bel medagliere nelle due ruote, a cominciare dal mantovano Francesco Verri, che ad Atene nei giochi olimpici “intermedi” del 1906, vinse ben tre medaglie d’oro su pista. Ci sono poi moltissime altre storie, come quella di Attilio Pavesi, che nel ’32 a Los Angeles vinse nella gara in linea e anche nella crono squadre, oppure quella dell’esuberante Ercole Baldini, che a Melbourne nel ’56 trionfò con il pubblico che cantava l’inno di Mameli a cappella perché gli organizzatori non avevano il disco, fino al compianto Fabio Casartelli nel 1992 e a Paolo Bettini nel 2004. Noi, però, in questo numero vogliamo raccontarvi di come andò in quella che viene considerata l’Olimpiade più bella di tutti i tempi, non solo per il ciclismo italiano: Roma 1960!
Quella romana sarà ricordata come la prima Olimpiade dalle grandi riprese televisive. Le gare si svolsero tra scenari unici, che coniugavano la classicità dell’antica Roma con i più moderni impianti, costruiti o restaurati per l’occasione. Gli incontri di lotta si disputarono all’interno della basilica di Massenzio e la ginnastica alle Terme di Caracalla, tanto per capire di cosa stiamo parlando. Era la Roma di via Veneto, dei paparazzi, quella che il mondo ricorda come la Roma “felliniana”.
Alle 17:45 del 25 agosto 1960 l’allora Ministro della Difesa Giulio Andreotti, Presidente del Comitato Organizzatore, proclamò al Foro Italico l’apertura ufficiale dei Giochi della XVII Olimpiade. Sarà anche la prima volta delle Paralimpiadi e dei primi cronometristi moderni, con il fotofinish collegato alla pistola dello starter che impressionava cento fotogrammi al secondo. Il primo oro individuale al centesimo di secondo nella storia dei Giochi Olimpici fu conquistato, nel ciclismo, da Sante Gaiardoni proprio il primo giorno, quando vinse il chilometro da fermo in 1’07”27, primato del mondo. Alcuni giorni dopo Luciano De Crescenzo, che sarebbe poi diventato un famosissimo scrittore sui temi della mitologia e della storia classica, cronometrò la vittoria sui 200 metri di Livio Berruti, divenuto ulteriormente famoso per la sua storiella d’amore con la gazzella nera Wilma Rudolph.
L’Olimpiade romana sarà quella di Cassius Clay, quella di Nino Benvenuti, quella del sergente della guardia imperiale di Hailé Selassié, l’etiope Abebe Bikila, che nella notte del 10 settembre sgretolò non solo il record mondiale di Popov ma a uno a uno tutti gli avversari più blasonati, compreso Popov stesso, correndo a piedi nudi. Dopo queste doverose e romantiche premesse andiamo a raccontare le gare di ciclismo di quella straordinaria Olimpiade romana.
100 km A cronometro a squadre
La prima giornata di gare dei Giochi della XVII Olimpiade riservò subito una grande gioia per i colori azzurri. Il 26 agosto del 1960 l’Italia conquistò il titolo nella 100 chilometri a squadre di ciclismo con una prova di grande forza del quartetto azzurro formato dal veneto Antonio Bailetti (fornaio), dai lombardi Ottavio Cogliati (meccanico) e Giacomo Fornoni (spazzacamino), nonché dal garzone di Montefiascone, Livio Trapè. La cronometro a squadre si disputò a Roma per la prima volta nella storia, poiché in precedenza il titolo veniva assegnato sulla base dei tempi della prova individuale.
Furono trentadue le squadre che parteciparono alla 100 chilometri a cronometro. Il caldo infernale faceva segnare già dal primo mattino una temperatura di 34°C all’ombra. Le varie nazionali partirono a distanza di due minuti l’una dall’altra dal piazzale antistante al velodromo olimpico, fresco di costruzione, per dirigersi sul lungo rettilineo di viale Oceano Pacifico e infilarsi sulla strada Cristoforo Colombo. Poi, alla pineta di Castel Fusano, c’era il giro di boa per imboccare la stessa Colombo in senso opposto andando a formare un circuito di 33,3 chilometri da percorrere tre volte.
La prima a partire fu l’Indonesia e dopo una quindicina di squadre fu la volta della favorita, la Germania, che si presentò con Gustav Schur ed Erich Hagen – i due pezzi da novanta del quartetto tedesco – che nelle corse contro il tempo stavano dominando la scena degli ultimi anni. Seguirono quindi le altre favorite: Olanda, Italia e Unione Sovietica.
Nella prima parte della gara gli azzurri conducevano sulla nazionale russa, la Francia, la Svizzera e la Germania. La Danimarca, invece, rallentò all’improvviso la sua cavalcata, in quanto uno dei componenti del quartetto, Knud Enemark Jensen, fu vittima di un giramento di testa, barcollò e fu quasi sul punto di cadere. A quel punto il compagno Niels Baunsof lo afferrò per la maglietta e lo tenne in sella, mentre Bangsborg lo sosteneva sull’altro fianco. Gli spruzzarono l’acqua della sua borraccia, cosa che sembrò averlo rimesso in sesto, al punto che Baunsof lo lasciò andare. Passarono pochi secondi e Jensen crollò sull’asfalto torrido. Un momento drammatico: l’ambulanza trasportò Jensen privo di conoscenza sotto una tenda militare vicino all’arrivo, mentre la corsa procedeva.
A metà gara gli azzurri erano ancora in vantaggio, con i tedeschi che recuperavano e si portavano a soli sette secondi, seguiti dai russi a venticinque. Nell’ultimo e decisivo giro l’Unione Sovietica andò in crisi, mentre uno dei ciclisti tedeschi fu costretto ad abbandonare. Gli azzurri, invece, continuavano a mantenere la testa della corsa, con Danimarca e Svezia alle spalle. Antonio Bailetti, dopo una partenza titubante forse dovuta alla forte pressione mediatica, saltò qualche cambio ma poi si riprese e fece il suo dovere, forse anche qualcosa di più. Uno straripante Giacomo Fornoni, nell’ultima parte della gara, riuscì a svolgere un lavoro incredibile trascinando i compagni sulla strada della vittoria, tanto che la nazionale azzurra raggiunse gli avversari belgi e spagnoli partiti due e quattro minuti prima, rimorchiandoli come dei naufraghi fino all’arrivo.
Bailetti, Cogliati, Fornoni e Trapè tagliarono così il traguardo al termine di una gara massacrante per il caldo e per la fatica, fermando il cronometro sul tempo di 2h14’33”53 alla media di 44,589 km/h), con un vantaggio di 2’23” sulla Germania (Schur, Adler, Hagen, Lörke) e 4’08” sull’Unione Sovietica (Kapitonov, Klevcov, Melichov, Petrov). Un trionfo davanti al giubilo della folla accorsa per festeggiarli all’arrivo di fronte al maestoso velodromo olimpico. Nel pomeriggio, però, arrivò una notizia drammatica: Jensen non ce l’aveva fatta, il ciclista danese non aveva più ripreso conoscenza. In seguito si scoprirà che la vera causa fu un’intossicazione di anfetamine, unita allo sforzo fisico e al caldo. A distanza di quarantotto anni dalla scomparsa del maratoneta portoghese Francisco Lázaro, a Stoccolma 1912, un altro luttuoso evento aveva colpito i Giochi. Il mondo scoprì – o quantomeno si trovò a non poterlo più ignorare – il terribile fenomeno del doping che, complici gli inesistenti controlli, dilagava impietosamente tra gli sportivi.
Gara individuale su strada
Martedì 30 agosto alle ore 9:00 iniziò la prova olimpica individuale di ciclismo su strada. Il commissario tecnico Elio Rimedio decise di schierare ai nastri di partenza Vendramino Bariviera, Giuseppe Tonucci e Antonio Bailetti, fresco vincitore della 100 km a cronometro insieme a Livio Trapè, anch’esso schierato, che gli allibratori davano per favorito. Il circuito era quello di Grottarossa, 14,615 km da percorrere dodici volte per un totale di 175,38 km, un nastro di asfalto nuovo che partiva dalla via Flaminia per immettersi sulla strada di Grottarossa e ritornare poi al punto di partenza lungo la via Cassia.
Ai nastri di partenza 136 atleti: marocchini, messicani, coreani, ciclisti di ogni paese. C’erano pure i tedeschi, che da tre anni vincevano il campionato del mondo, ma furono un tenente ventottenne dell’armata sovietica e un garzone fornaio di Montefiascone ad assumere la parte dei protagonisti in quella torrida mattinata romana. L’andatura fu forsennata fin da subito. Il caldo scioglieva l’asfalto e le energie. Un atleta etiope colpito dal sole venne portato via dopo appena quattro giri, cominciando a tratteggiare una giornata drammatica. A quaranta chilometri dall’arrivo, sulla salita che conduceva alla via di Grottarossa, il tenente Viktor Kapitonov riuscì a sganciarsi: fu l’italiano Livio Trapè l’unico a reagire mentre tutti gli altri persero contatto. A trenta chilometri dal traguardo, Trapè raggiunse Kapitonov, che si fece trainare come un vagone per due giri. Il nervosismo era alle stelle: l’italiano tirava da solo e il russo dietro a rimorchio. Trapè era curvo, gli faceva da gobba una spugna che teneva sotto la maglia. Al penultimo passaggio Kapitonov si impegnò per la volata sbagliando il conto dei giri, perché ne mancava ancora uno all’arrivo.
Il russo non era bravo a contare però era fortissimo in volata. Una volta che il panettiere di Montefiascone se ne accorse cercò di staccarlo prima dell’arrivo ma ruppe la ruota posteriore. Gliene diedero una al volo ma con rapporti che non piacevano all’italiano, che s’innervosì. Poi Trapè prese al volo una borraccia: avrebbe voluto gli zuccheri ma gli passarono quella con il tè. La scaraventò a terra restando senza liquidi fino all’arrivo. Entrambi i fuggitivi avevano un intento preciso: Trapè doveva evitare di tirare la volata a Kapitonov tenendoselo a ruota, mentre il tenente doveva cercare di farsi trainare per risolvere poi la questione sul traguardo. Erano ancora insieme all’ultimo chilometro quando iniziò il gioco delle finte e degli arresti come in una gara su pista: nessuno dei due voleva condurre la volata, per cui quando frenava Trapè frenava anche Kapitonov. A un certo punto Lillo Pietropaoli, storico giornalista e cronista del Messaggero, gridò all’italiano: «Livio parti che stanno rientrando da dietro, parti che ti rientrano!». Lo striscione del traguardo era là, infondo al viale. Trapè lo vide. Come investito da una scossa saltò in testa, portandosi nettamente primo. Mancavano duecento metri, centocinquanta, cento: era sempre primo. Cinquanta metri, ancora Trapè. Ma ecco Kapitonov uscire all’improvviso e vincere di mezza ruota, forse anche meno.
Il trionfo di Kapitonov fu accompagnato dalla disperazione di Trapè, che stava realizzando il fatto che ormai questa era l’unica occasione di vincere un’Olimpiade. Il tenente Victor Kapitonov al suo ritorno in patria venne promosso al grado di colonnello.
Gare INDIVIDUALI su pista
Alle ore 20:45 del 26 agosto, sull’anello del velodromo olimpico costruito per l’occasione, ebbero inizio le competizioni su pista. La prima gara fu quella del chilometro con partenza da fermo, vinta da Sante Gaiardoni, che rifilò un secondo e mezzo al tedesco Dieter Gieseler, medaglia d’argento, facendo segnare il nuovo record mondiale. Sante di lavoro faceva il contadino in quel di Villafranca Veronese. Lavorava nello sfalcio dell’erba e le sue gambe in quei terreni accidentati erano diventate fortissime giorno dopo giorno. La prima volta che Arnaldo Faccioli, il suo “scopritore”, lo portò in un velodromo lui scappò, spaventato dell’altezza delle curve, ma ora il contadino veneto è campione olimpico.
Il vero capolavoro però arrivò tre giorni più tardi, nella gara di velocità. Tra i finalisti di quella magica sera ci fu anche Valentino Gasparella, che si batté in semifinale con il belga Leo Sterckx, uno che in volata non perdeva mai. Gasparella, che era il più forte velocista dilettante prima della comparsa di Gaiardoni, avrebbe tanto desiderato tornare a una grande vittoria, ma Sterckx lo superò in una violenta rimonta. Gaiardoni, che quindici giorni prima aveva vinto il mondiale battendo proprio il belga, si trovò nelle condizioni di dovergli concedere la rivincita.
Leo Sterckx era un corridore che conosceva tutte le malizie del mestiere mentre Gaiardoni si presentava alla partenza vittima di una caduta nei giorni precedenti. All’ultima prova, Gaiardoni partì in testa. Dapprima accennò a scattare, poi andò in alto e aspettò. All’improvviso picchiò in basso e finse nuovamente di attaccare, mettendosi poi ad aspettare con Sterckx che lo pedinava stretto. Alla penultima curva, il belga scattò all’interno e si presentò per primo all’ultima curva del velodromo, stracolmo di spettatori urlanti. Gaiardoni si gettò in avanti nel tentativo di passarlo all’esterno, riuscendoci con un’impresa ai limiti dell’incredibile e andando così a vincere la sua seconda medaglia d’oro in quell’Olimpiade. Fu un vero e proprio trionfo. Il pubblico lo acclamò, i giornalisti lo cercarono per le interviste, ma lui era già scappato in centro in compagnia dell’indimenticabile Walter Chiari, fedele amico e conterraneo, per brindare sotto il cielo stellato della città eterna.
TANDEM SU PISTA
E venne il momento della gara di tandem, disciplina olimpica dai Giochi di Londra 1908 e poi ininterrottamente dal 1920 al 1972. La specialità venne poi abbandonata perché il tandem era ormai considerato vecchio, superato e anacronistico, ma fu un vero peccato, perché la spettacolarità di quelle gare era ad alto contenuto emotivo. L’Italia in quell’occasione era rappresentata dai veneti Beghetto e Bianchetto. Bianchetto di nome fa Sergio, è padovano di Torre di Ponte di Brenta. Beghetto è Giuseppe, padovano di Tombolo. Sergio faceva il carpentiere meccanico e Giuseppe il vaccaro. Bianchetto e Beghetto avevano in comune il dialetto, l’accento, l’aria, la scuola di ciclismo che era quella del velodromo Monti e della società Ciclisti Padovani, ma soprattutto condividevano quello straordinario mezzo che era il tandem, bicicletta a due ruote, due manubri, due selle e quattro pedali, specialità di forza acrobatica.
I due, dopo avere eliminato una dopo l’altra le coppie avversarie, si ritrovarono in finale per l’oro olimpico. Erano le 20:45 di sabato 27 agosto 1960. Il tandem, lo strumento vetusto che scendeva dalla soffitta ogni quattro anni, in occasione delle Olimpiadi, vedeva i due ragazzotti italiani in finale contro la fortissima coppia tedesca formata da Jürgen Simon e Lothar Stäber. La gara si svolse su quattro giri. Nei primi, bloccandosi, controllandosi, fingendo di scattare, entrambi gli equipaggi recitarono la commedia degli inganni. All’improvviso il tandem italiano scoccò come un dardo per raggiungere velocità intorno ai settanta chilometri orari. Bianchetto e Beghetto furono i più coraggiosi, i più veloci, ed entrarono per primi nell’ultima curva, respingendo l’attacco dei tedeschi e tagliando il traguardo nettamente primi. Avevano ventuno anni tutti e due, tutti e due erano nati nei sobborghi di Padova, erano alti un metro e settantatré e pesavano settanta chilogrammi. Beghetto, il secondo, pedalava e obbediva mentre Bianchetto, il conduttore, comandava e decideva come condurre la gara. Tutta la spregiudicatezza e l’ardimento della gara si sciolsero nella commozione del successo.
INSEGUIMENTO SU PISTA
Quella dell’inseguimento su pista fu una gara al cardiopalma. L’Italia si presentò alle batterie con un quartetto fortissimo, tanto che gli allibratori la davano per favorita. Il poker azzurro era formato dal brianzolo Luigi Arienti, dal padovano Franco Testa, dal compianto Mario Vallotto di Santa Maria di Sala e infine dal milanese Marino Vigna, che fu l’ultimo a essere inserito nel quartetto imponendosi a suon di risultati nell’approssimarsi dell’appuntamento olimpico, tra cui il titolo italiano vinto nell’inseguimento a squadre.
La formula era tanto semplice quanto spettacolare: partenza da fermi, 4000 metri, 10 giri da percorrere intorno alla pista. Le due squadre partivano da due punti diametralmente opposti sui due rettilinei della pista: vinceva chi per primo raggiungeva l’avversario o, caso molto più frequente, chi copriva la distanza nel minor tempo, che viene fermato al passaggio del terzo concorrente. In batteria l’Italia incontrò per prima la Germania, che batté piuttosto agevolmente per ritrovarsela poi in finale per l’oro. Non c’erano gare di domenica, così le qualificazioni e i quarti di finale si disputarono venerdì 27 agosto. Il quartetto azzurro, appunto, batté subito la Germania e ai quarti ebbe la meglio su una fortissima Argentina. La tensione domenicale nell’attesa delle fasi finali andò alle stelle e dopo una lunga e interminabile notte, arrivarono le semifinali del lunedì pomeriggio. L’Italia ebbe la meglio su un’ostica nazionale russa, stabilendo addirittura il record olimpico con un tempo di 4’30”90, facendo ulteriormente salire la tensione.
Ore 21, la finale. Gli azzurri si trovarono davanti, dalla parte opposta del velodromo olimpico, i quattro ragazzi tedeschi che avevano già battuto in batteria ma che ora sembravano rigenerati e determinatissimi. La pista si presentava piuttosto scivolosa a causa dell’umidità di quella surreale notte romana. Allo sparo dello starter la ruota di Luigi Arienti slittò sul fondo. Franco Testa si spaventò e lasciò andare gli altri due. la gara sembrava compromessa e invece… Il punto di forza del quartetto azzurro fino a quel momento era stato la partenza al fulmicotone, ma quella volta dovettero inseguire e ci volle un giro e mezzo per ricomporre la squadra. Il recupero fu portato a compimento da Franco Testa con una strepitosa tirata di un giro intero. Tutti e quattro i ragazzi italiani furono poi straordinari e uniti fino in fondo, fino all’ultimo centimetro di quel magico parquet che li consegnerà alla storia. La gara finì con l’Italia che trionfò sulla Germania “quattro a tre”, tanto per usare termine di paragone calcistico entrato nella storia, in quanto i tedeschi persero un componente negli ultimi due giri, ma a quel punto erano già ampiamente battuti.
TIRANDO le somme
L’Italia del ciclismo, nell’edizione della grande Olimpiade romana, vinse alla fine cinque medaglie d’oro su sei disponibili e una medaglia d’argento, praticamente regalando l’oro alla Russia. Si dice che se quella gara in linea potesse essere ripetuta altre cento volte, il nostro Livio Trapè indosserebbe cento medaglie d’oro, ma alla fine andò così, con onore al merito del biondo sottufficiale sovietico. Rimane il fatto che gli italiani che corsero a Roma sono rimasti nel cuore della gente come la più forte nazionale di tutti i tempi nell’Olimpiade più bella di sempre.
Antonio Bailetti
Il campione lombardo che fu protagonista, insieme a Livio Trapè, della 100 km a squadre ricorda così quei giorni a Roma: «Le Olimpiadi in Italia sono state per noi un evento importantissimo, ancora oggi ho un ricordo di ogni giorno. Abbiamo vinto facilmente ma abbiamo dovuto andare molto forte, a 45 di media, che per quei tempi era una velocità incredibile. Siamo partiti con qualche difficoltà perché io saltai un cambio all’inizio, ma poi ci siamo ripresi e abbiamo vinto l’oro».
Bailetti ci racconta anche come arrivarono a quell’Olimpiade: «Facevo già parte di una squadra dove eravamo tutti lombardi tranne Livio Trapè, che fu aggiunto dopo, e per tre mesi ci allenammo sapendo che avremmo corso insieme. Prima di Roma facemmo solo una gara, a giugno, dove le sensazioni erano buone. Era una bella squadra e andavamo forte, anche se nessuno di noi era professionista. Io, per esempio, facevo il panettiere».
Livio Trapè
«Per me le Olimpiadi sono state fonte di gioia e di amarezza», ci racconta il campione di Montefiascone, ancora lucidissimo e persino arrabbiato a distanza di oltre sessant’anni. «La 100 km a squadre fu una grande cavalcata a quattro con un team affiatatissimo: io, il rimpianto Fornoni, Cogliati e Bailetti, che ebbe un piccolo cedimento forse per l’emozione ma che poi si riprese benissimo».
Quello che ancora oggi anima Livio, invece, fu il rocambolesco esito della prova individuale su strada: «Persi la gara per centimetri e ancora oggi sono convinto che fu per incompetenza o malafede di alcune persone. Avevo chiesto per l’ultimo giro una borraccia con degli zuccheri ma invece ne arrivò una contenente solo tè. Per la rabbia la gettai e restai così senza liquidi per gli oltre 30 km finali. Certamente Kapitanov era molto forte. Lo conoscevo bene per averci corso assieme due campionati del mondo e una Berlino – Praga – Varsavia. A Roma ho subito la sua passività per 50 km. Provai a staccarlo sulla salita di Grottarossa ma non ce la feci perché ruppi il pignone del 16, che montavo insieme al 52 all’anteriore. Pinella De Grandi – meccanico della squadra olimpica e mito del ciclismo – incredibilmente non aveva una ruota di ricambio con i miei rapporti! Così non ho cambiato la ruota e ho dovuto concludere la gara passando dal 14 al 18: quando cambiavo restavo sui pedali e davo modo a Kapitonov di restarmi attaccato, così me lo sono portato all’arrivo».
Il finale di gara lascia a Livio Trapè l’amaro in bocca ancora oggi: «Nell’ultimo chilometro, in piazzale Toscana, ci siamo quasi fermati. A 6/700 metri dall’arrivo Lillo Pietropaoli, storica firma del Messaggero, incominciò a urlarmi: “Parti! Parti! Che ti riprendono!”. Partii lungo con un rapporto pesante e fui saltato negli ultimi 10 metri. Ancora oggi se ci ripenso è un grande dolore, perché quell’oro lo sentivo mio».
Sante Gaiardoni
«Pensate che alle Olimpiadi di Roma avrei potuto vincere tre medaglie. Sì tre, perché avevo maturato il diritto di partecipare anche con il tandem in quanto io e Giacomo Zanetti eravamo la coppia più forte e anche Campioni Italiani della specialità. Ma Costa, (il DT degli azzurri) mi ha pregato di lasciare il posto a i due della Ciclisti Padovani, Bianchetto e Beghetto, che erano della federazione veneta e che battevamo regolarmente. Insomma motivi di politica sportiva. Dalla delusione, Zanetti ha abbandonato la bicicletta ed è andato ad Amsterdam a fare l’intagliatore di diamanti. E forse l’ha indovinata più di me…», così racconta Sante Gaiardoni, grande protagonista della pista a Roma 1960. «Comunque sia, non siamo andati al Villaggio Olimpico, troppo casino. Guido Costa ci ha trovato una sistemazione in un convento di suore alle Frattocchie. Aria buona, tranquillità e buon cibo cucinato dalle religiose. Alla mattina ci allenavamo con gli stradisti: 70/80 chilometri, poi loro continuavano e noi tornavamo in convento per un po’ di ginnastica».
Le memorie di Sante proseguono: «Appena vinto l’oro nel chilometro, mica una formalità, mi hanno chiamato che avevo ancora il fiatone per gli ottavi di finale della velocità. Ma niente poteva fermarmi. Quando Leo Sterckx in semifinale ha battuto Gasparella, che era il favorito, mi sono detto: “Adesso il belga lo sistemo io”. Non sentivo il carico delle responsabilità, ero tranquillo ma determinato e concentrato. Vedevo la medaglia, c’era solo da andare a prenderla. Avevo curato i dettagli aerodinamici: guantini superaderenti, niente nastro al manubrio, peli delle braccia rasati… La mia ultima prova è stata un capolavoro. L’ho lasciato sfogare in testa e poi l’ho superato in curva. Qualcuno s’è preso la briga di misurare la velocità degli ultimi 100 metri: 73 all’ora. Sterckx, un amico, mi ha abbracciato facendomi i complimenti più sinceri. Fanfani, premiandomi, disse che ero l’orgoglio della nazione. Alla sera, senza essere riconosciuto, mi sono mescolato alla folla romana che brindava a “Gagliardo, Gagliardo!”».
Ci fu pure un’auto su cui si discusse: «Il CONI, ai vincitori di medaglia d’oro regalava una FIAT 500. A me che ne avevo vinti due ne diedero una sola. “È un’ingiustizia!”, protestai, ma non ci fu niente da fare. “Gaiardoni non puoi pilotare contemporaneamente due biciclette e quindi non puoi guidare insieme due vetture”, mi dissero. Sarà per quello che, per riparare al torto inflittomi, 50 anni dopo fui inserito tra le 100 Leggende dello sport Italiano insieme a Coppi, Bartali, Nuvolari, Thoeni e Carnera. Comunque due ori olimpici: non è cosa da tutti i giorni».
Bianchetto & Beghetto
«Quella Roma del 1960 era una città sempre in festa, piena di colori, meravigliosa in agosto, soprattutto in quei giorni di Olimpiadi. Io e Beghetto, il giorno dopo la finale che abbiamo vinta, l’abbiamo girata tutta con la vespa che avevamo in dotazione», ci racconta Sergio Bianchetto.
«Venti giorni mi dovettero bastare per prepararmi a quelle gare, che erano un po’ cose da matti», spiega invece Giuseppe Beghetto riferendosi al fatto che nel 1972 il tandem fu cancellato dal programma olimpico a causa dell’eccessiva pericolosità, dovuta a volate corse sul filo dei 90 all’ora come quella vissuta dalla coppia azzurra contro gli olandesi Marinus Paul e Mees Gerritsen, favoriti della vigilia assieme agli australiani Browne e Smith. Sconfitti nella prima manche, nella seconda gli orange tentano di passare all’interno del tandem italiano, ma un contatto li manda gambe all’aria provocando infortuni tali che dovranno dare forfait nella finale per il bronzo.
«Avevamo stile e affiatamento», continua Beghetto. «Ci parlavamo solo con un colpo di pedale, bastava mollare un attimo o premere per capirsi». Beghetto spiega anche la tattica della finale, dove i padovani se la vedono con i tedeschi Jurgen Simon e Lothar Staber, due che agli ottavi si sono divorati proprio gli australiani: «Sergio era un grande tattico e per le manche della finale aveva un piano: prendere la testa dall’inizio. Avremmo impedito ai tedeschi di fare lo stesso, visto che era il loro forte». Nella prima delle due prove, previste su quattro giri di pista, il gioco riesce grazie allo snervante zigzag che blocca sul nascere ogni accenno di rimonta avversaria.
Nella seconda manche, Simon e Staber pensano di essere ancora in fase di studio, ma a un giro e mezzo dalla fine il pedale di Bianchetto manda il segnale a quello di Beghetto per la picchiata improvvisa che, dalla parte alta del velodromo, porta a lanciare lo sprint lungo la corda interna. La vela biancoazzurra formata dalle maglie delle due coppie per il mezzo giro di pista in cui restano appaiate, sfiorando i 90 orari, resta fra gli spettacoli più emozionanti dei Giochi di Roma.
Beghetto avrebbe poi vinto tre Mondiali da professionista, nella velocità, ma senza più provare la gioia di quell’oro olimpico. Ci sarebbero anche i due argenti iridati ottenuti fra i dilettanti, battuto nelle finali dall’ex-compagno di tandem Bianchetto. «Ma con Sergio non c’era niente da fare», conclude Giuseppe ridendo, «lui era troppo tattico…».
MARINO VIGNA
A Marino Vigna, personaggio gigantesco del ciclismo italiano, abbiamo chiesto qualche ricordo di quell’Olimpiade. «Quell’anno sia il quartetto regionale della Lombardia sia quello del Veneto erano fortissimi. Difficile però che uno dei due avesse reali possibilità di vittoria. Fu deciso allora di fare un mix dei due, con due componenti per regione. A fine aprile al Vigorelli ci fu un quadrangolare in cui il nostro quartetto riuscì a fare il record del mondo. Improvvisamente diventammo i favoriti per l’Olimpiade».
Marino ricorda l’avvicinamento a Roma: «Per San Pietro e Paolo (29 giugno) si tennero i campionati nazionali, sempre al Vigorelli. Partecipai alla finale dell’inseguimento contro Arienti, dove ottenni un ottimo tempo. La settimana dopo, a Roma, ci sarebbero stati i campionati delle specialità olimpiche. Il CT Costa mi invitò a rimanere in città in attesa delle Olimpiadi. Erano i primi di luglio, mentre le Olimpiadi si sarebbero svolte a fine agosto. Rimasi quasi due mesi fuori di casa. Non era proprio la vita che faceva per me, che avevo sempre lavorato. Infatti la sera del giorno successivo la finale, una volta visitato il villaggio olimpico, ero già sul treno per tornare casa».
Vigna ci spiega anche le difficoltà della finale: «Nel quartetto per primo partiva Vallotto, a seguire Arienti, Testa e poi io. La pista era umida perché era sotto il livello del Tevere. Dovettero asciugarla. Infatti il tempo migliore non lo facemmo in finale ma nel pomeriggio, durante la semifinale. Alla partenza Arienti rischiò la scivolata, ma restò in coda a Vallotto. Testa si spaventò e rimase staccato, con me a ruota. In mezzo giro Testa mi riportò sotto e dopo un giro eravamo a regime. Il nostro punto di forza era la partenza, ma in un attimo quel vantaggio era sfumato. Era importante arrivare prima dei tedeschi, che nel frattempo erano rimasti in tre».
Infine, il punto sulle biciclette: «Ognuno aveva la sua. Vallotto e Testa erano in orbita Bianchi e avevano quella marca. Arienti aveva una Colnago e fu probabilmente la prima medagliata olimpica. Io una Doniselli, fatta costruire su misura e montata direttamente nell’officina ciclistica di mio padre. Le gomme erano tubolari leggerissimi in seta bianca. Come rapporto montavamo il 52/15, al massimo facevamo 50 km/h. A pensarci adesso fa sorridere, un rapporto da Allievi o da Amatori, ma all’epoca era il massimo che potevamo usare».