Questa è la storia di un ciclista milanese.
La milanesità ha la sua importanza. Basti pensare alla nebbia, al Vigorelli, alla Legnano, alla Bianchi e a tutti quei corridori lombardi, illustri e non, che hanno contribuito a rendere famosa la bicicletta da corsa in Italia e in Europa. Vigna non è un uomo di sport qualunque, ma uno che ha le sue radici piantate nella storia del ciclismo e che, a sua volta, la storia l’ha scritta pedalando. Solo per citare alcuni momenti della sua carriera: oro olimpico a Roma nel 1960, direttore sportivo di Eddy Merckx, in ammiraglia con Alfredo Martini per 16 anni ai Mondiali. Intervistare Marino Vigna (classe 1938) è quindi come aprire un baule custodito in soffitta e far uscire liberamente le memorie che tanto ci appassionano.
Marino è figlio di Ernesto, ciclista a sua volta. Papà Vigna era stato iscritto allo Sport Club di Porta Genova, fondato nel 1913 dal giovanissimo Adriano Rodoni, poi presidentissimo UVI e UCI. In quest’ambiente, Ernesto aveva vinto da dilettante la Coppa Italia nel 1920, insieme a Pierino Bestetti, Angelo Guidi e Ugo Bianchi. Proprio quell’Ugo Bianchi che poco dopo sarebbe diventato meccanico e colonna portante dello squadrone Legnano, guidato da Eberardo Pavesi. Ernesto, conclusa la carriera, aprì un’officina meccanica, frequentata spesso e volentieri dall’Avocatt, instancabile affabulatore. Ed è lì che si forma il giovane Marino.
I primi passi
Da dove parte la sua passione per il ciclismo?
«Onestamente all’inizio ero più attirato dal motorino (siamo negli Anni ‘50). All’epoca c’erano i Mosquito. Subito dopo la guerra erano rimaste molte moto americane, come le Harley, e mio papà riusciva, tramite un telaista, ad ammortizzarle. Guidavo queste moto grosse. Avrò avuto 12 o 13 anni (i miei non volevano), facendo 2-3 km fino a piazzale Firenze».
Alla bicicletta come arriva?
«Attraverso gli amici. Un po’ di questi avevano la bicicletta e io andavo via con loro. Il papà era contrario che corressi così presto. Pavesi, che ogni tanto veniva in negozio, sentenziava: “figlio di un corridore mai diventato un corridore”».
Come comincia?
«Con la categoria Allievi, gli attuali Juniores, nel 1955».
Nel 1956, la vittoria nel Campionato Italiano.
«Più precisamente in una individuale a punti. Io non ho una maglia di Campione Tricolore, anche se di Campionati Italiani ne ho vinti tanti. Poi sono approdato alla pista, ma non mi entusiasmava. Preferivo correre su strada. L’ingresso in pista è arrivato per caso. Da Allievo al primo anno i piazzamenti migliori li avevo fatti in cima alle salite (Milano – Cappelletta; Milano – Marcolina; Averano – Brianza). Non facevo le volate. L’ultima corsa di quell’anno era a Villasanta. Il papà mi avvertì: “Se domani non fai la volata, non corri più”. Feci la volata, lunghissima, partito all’ultimo km, e arrivai quarto. Lui fu contento e la cosa fu chiusa lì: potevo continuare. Quell’inverno nevicava sempre. Io continuavo ad andare in bicicletta, con quella da passeggio con i freni a bacchetta. Andavo a fare la spesa, da Doniselli o alla Legnano. Poi allo Sport Club Genova, per il quale all’epoca correvo, mi dissero: “perché non vai a girare in pista?”. Ci andai, ma non al Vigorelli, che era vicino a casa, ma al Palazzo dello Sport, in Piazza 6 febbraio, adesso noto come il Palazzo delle Scintille. Lì mi diedero una bicicletta Drali, con la quale ho corso 2-3 anni».
Come fu la prima volta in velodromo?
«La prima volta che ci andai dopo tre giri ero in cima alla curva. Girai un paio di volte e tornai alla corda senza cadere nella discesa. Alla fine mi dissero che la domenica successiva ci sarebbe stata una corsa e mi chiesero di partecipare. Accettai con un po’ di titubanza. La prima corsa fu ad handicap (adesso non le fanno più). Io ero l’ultimo arrivato e mi misero per primo. Non mi hanno più preso. Da lì sono diventato pistard, in una società che ci teneva molto alla pista e in un periodo molto favorevole e sentito. Ricordo che tra la società Azzini e lo Sport Club Genova facevano 400 tesserati in due (al Vigorelli, ma anche al Palazzo dello Sport). Ognuna delle due società aveva un centinaio di bici a disposizione. Ecco perché era facile avere la bici da pista. Ti insegnavano a incollare le gomme, a tenere preparata la bicicletta».
Quando arrivarono le prime vittorie importanti?
«Allo Sport Club Genova con Faccini, da Dilettante, il primo anno abbiamo battuto le rappresentative della Padovani e dell’Azzini. Campionato Italiano di Società si chiamava. C’era la velocità, il km con un Allievo e Esordiente e poi gli inseguitori che facevano l’inseguimento a coppie. Io e Faccini abbiamo vinto l’inseguimento a coppie battendo tutti gli altri. Con quel punteggio abbiamo vinto il Campionato Italiano a squadre. Fu di quel periodo l’incontro con Coppi, quando il Campionissimo in una serata di allenamento vide il gruppo dei giovanissimi pistard assiepati sulle gradinate del velodromo. Loro non erano stati autorizzati a girare perché di lì a poco si sarebbe tenuto un incontro di pugilato. Fu proprio Fausto a chiedere agli inservienti di farli girare con lui. Così ho avuto la possibilità di pedalare anche con Coppi».
Le Olimpiadi del 1960
Di lì a poco arrivarono le grandi Olimpiadi romane, di cui abbiamo parlato proprio nello scorso numero. Come ci arrivò?
«Correvo molto in pista con lo Sport Club Genova. Da Allievo ho vinto 5-6 corse. Feci una vittoria anche a Fiorenzuola (individuale a punti, della quale non mi ricordavo, ma che grazie a Claudio Santi, direttore del velodromo, ho recuperato traccia). Ho continuato in pista anche da Dilettante. Mi sono appassionato un po’ di più, facendo l’inseguimento a squadre e le americane. Al Vigorelli si correva tutti i mercoledì, da lì la definizione del ‘Mercoledì del Dilettante’. Quel giorno evitavo di andare ad allenarmi. Le americane erano di 100 giri, bastavano quelle perché si andava sempre a tutta. La prima l’ho fatta con Mario Dagnoni (il papà dell’attuale presidente FCI), perché lui era il più esperto. Come detto, allo Sport Club Genova c’era Silvio Faccini, altro ottimo corridore, che non era stato convocato per le Olimpiadi del 1956 (quelle di Campana), perché era emiliano, mentre erano in auge i veneti e i lombardi. Ho imparato molto da lui già da Allievo, soprattutto la grinta in corsa. In quattro ero bravo su qualsiasi pista».
A proposito di avvicinamento alle Olimpiadi. Il quartetto viene formato da due veneti e due lombardi e stabilite subito il record del mondo.
«Sì, al Vigorelli di Milano. Ci conoscevamo, era sempre guerra tra noi. Di là, come allenatore dei veneti, c’era Severino Rigoni, ‘bandito’ come loro due. Allora per fare una finale di inseguimento ci voleva quasi mezz’ora perché lui faceva apposta a farci stancare… Gli forava una gomma a uno con una puntina nascosta nel guanto… Ne vedevo di tutti i colori. I giudici alla fine, per risolvere la questione, decisero che una volta partita la corsa non si sarebbe più dovuta fermare, e siamo arrivati così alla pista di oggi».
Tornando alla vittoria con Faccini, avevate già vinto nel 1958.
«Quello lì era il quartetto, che non c’entra col Campionato di Società. Nel quartetto eravamo: Bono, Officio, Arienti e Vigna (per la Lombardia). E abbiamo battuto i veneti, se ricordo bene. Poi abbiamo perso nel 1959, sempre contro i veneti. Nel 1960 li abbiamo ‘bastonati’ a Roma (nelle gare pre-olimpiche). Però ci avevano già messi assieme prima. Io nel frattempo avevo cambiato società, passando dallo Sport Club Genova alla Azzini, dove ho incontrato Gaiardoni. Con Gaiardoni in due anni avremmo fatto qualcosa come 50 americane senza perderne neanche una. Abbiamo dato un giro a tutti a Vincennes, 500 metri di pista. Lui aveva appena vinto il Gran Premio di Parigi, finale a tre. Io avevo vinto un Omnium dietro derny, battendo quelli che poi sono diventati Campioni del Mondo, come Marcel Delattre. Nell’americana c’erano tanti seigiornisti, come Sigi Renz o Hans Mangold, quelli della mia generazione. La pista italiana ha vinto 4 medaglie su 4 alle Olimpiadi di Roma».
Anche perché allora pagava andare in pista…
«Per me, continuo a dirlo, è l’Università del ciclismo. Uno che si difende in pista va bene anche su strada. Uno stradista non sempre. Per dirne una, Gimondi non avrebbe mai vinto il Campionato del Mondo a Barcellona (1973) se non avesse fatto le Sei Giorni. Con la gomitata che prese da Maertens si sarebbe fermato. Adesso la pista la stanno riscoprendo, ma dopo qualcosa come 20 anni. Quando ho fatto il Commissario Tecnico della pista andavo a chiedere il corridore alle squadre, ma era come andare a chiedere l’elemosina. Perché non correva più nessuno su pista, sembrava che ci fosse solo la strada».
Adesso c’è questa cultura della multi disciplinarietà che ha fatto tornare in auge la pista.
«Per un bel po’ di tempo in pista correvano quelli che non vincevano su strada. Testa e Vallotto hanno vinto una Coppa Italia, ma vincevano anche su strada. Io e Arienti uguale. Vincemmo appunto anche l’Oro a Roma. L’unico rimpianto di quell’Olimpiade fu di non averle disputate all’estero. Prima sono andati a Melbourne (1956), dopo sono andati a Tokyo (1964). Però la gente è stata fantastica. Poi, vincendo tutto, si erano presentati i ministri. C’erano Fanfani, Andreotti, Gronchi… Tutti, insomma».
Sempre per le Olimpiadi c’è un aneddoto che riguarda un incontro con Renzo Soldani, in cui lei, vestito di giallo Ignis (1965), parlava di una Legnano da pista.
«Alla Legnano mi conoscevano. Andavo a trovare Lupo e Marnati, i meccanici della squadra. Quando sono passato alla Azzini, da Dilettante, mi hanno detto di andare alla Legnano che mi avrebbero fornito la bici da strada. Quei due quando mi hanno visto hanno cominciato a sbuffare: “Ma no, corri in pista cosa vuoi la bici da strada”. “Oh, a me hanno detto di venire qui. Se me la date bene, sennò cerco la bicicletta per conto mio” ho risposto. Allora me l’hanno data. Un mese dopo ho vinto la Popolarissima delle Palme. Sono arrivato là, il martedì o il mercoledì, a fare il solito rifornimento di componenti per il papà. Mi avevano preparato due ruote speciali, con tubolari Pirelli L, che allora erano un sogno. Forse per scusarsi. Poi con la bici da pista è successa la stessa cosa. Vado là e gli dico: “Io vado a fare le Olimpiadi. Almeno, vado a Roma”. Rispondono: “Non c’è qui”. Tirano giù un telaio, era quello di Albani. “Ma questo è piccolo”. “Vedi questo di Baldini”. “Si, quello è un 60, quando mai ci arrivo”. “Va bé, ma vai con la tua” mi rispondono. Io avevo una Doniselli che avevo fatto io, l’ho verniciata, e al posto del telaio mi hanno dato i soldi. Avevo la guarnitura in alluminio, uno dei primi, una Stronglight».
C’è una storia su quelle pedivelle, giusto?
«Sì, perché fui io a portare le Stronglight di Rivière alla Bianchi, quando fece il Record dell’Ora (1958). Ero a Parigi a correre, lui è venuto lì e ha chiesto: “Chi è che abita a Milano tra di voi?” Eravamo al ristorante Au Père Tranquille, vicino alla Gare de Lyon, e mi diede queste pedivelle. Il martedì successivo sono andato a Lambrate, dove allora c’era la Bianchi. Ho incontrato Pinella, famoso meccanico Bianchi, e gliele ho consegnate. Le Stronglight di alluminio erano una novità. Avevano le cinque viti al passo, erano un po’ scomode. Ho corso con quelle fino alla finale delle Olimpiadi. Avevo comperato le moltipliche da 50, 51 e 52. Alle Olimpiadi per la finale volevano il 53. Allora c’era il buon Polato, della Campagnolo, che mi ha cambiato le pedivelle e mi ha dato il 53. L’unica roba che io ho guadagnato dalle Olimpiadi: pedivelle, addirittura Campagnolo!».
Un 1960 che le regalò altre soddisfazioni…
«Io e Gaiardoni avevamo firmato tutti per la Philco, che aveva già Terruzzi e Faccini, e che con noi avrebbe fatto la squadra dei pistard. Ho fatto un finale di stagione da stradista. Ho vinto la Coppa d’Inverno e il Trofeo Baracchi con Fezzardi. C’era Magni (consulente tecnico della Philco) a vedere la corsa, da lì il contratto. Come Dilettanti siamo andati più forte dei Pro Ronchini e Venturelli. C’era Anquetil con Graf, c’era Daems con Eliot, c’era Baldini con Aldo Moser, che aveva vinto nel 1958 in coppia con Coppi. Per andare più forti di tutti quell’anno bisognava essere veramente forti».
Professionista
Nel 1961, alla Philco il primo anno da professionista. Com’è stato questo passaggio?
«Un po’ strano, perché praticamente ero ancora militare a Roma. Sardi era il DS, Magni faceva il supervisore. I miei compagni li ho visti per la prima volta alla Milano – Torino, la prima corsa a cui ho partecipato da professionista, che sarà poi anche quella che che mi darà più risultati. L’ho vinta nel ’66 battendo Dancelli. Eravamo in 10 o 12 in cima alla salita e ho visto Zilioli che si metteva in coda. Siccome sapevo che in discesa andava e che correva in casa ho curato lui. Mi sono disinteressato di quelli davanti. Appena finita la salita Zilioli è partito. Dopo due curve non c’era più nessuno dietro. È andato giù per un pezzo e poi si è schiantato contro un muretto. Io son passato sopra la sua bici. Mi son tremate le gambe per un po’. Arrivo giù e penso che stavolta arrivo da solo. E vado. A un certo punto da dietro sento: “Dai!” Mi giro e di tutti quelli che c’erano mi ritrovo proprio Dancelli, che era il più veloce del gruppo».
Anche Zandegù andava.
«Zandegù non mi preoccupava perché aveva fatto la salita. Allora io mi difendevo un po’ di più di lui. Comunque sia, entrati in pista, Dancelli l’ho fulminato. L’anno prima, nel ’65, avevo perso male con Taccone. Colpa di Adorni, che aveva fatto come con Merckx al Lombardia. Erano in fuga in quattro su cui siamo rientrati in quattro della Ignis. Eravamo Cribriori, Vicentini, Poggiali e io. Non ho fatto in tempo a prendere posizione, però ho trovato Venturelli che stava rimontando. Ho preso la sua ruota e sono arrivato fino all’ultima curva, dove lui s’è impiantato. Io di sopra non potevo passare, sono passato sotto. Quando Adorni mi ha visto mi ha buttato nel prato. Ho fatto la volata nel prato, perdendo per un niente con Taccone. Se non fossi finito sull’erba vincevo anche quella lì».
Nel 1963 arriva in maglia Legnano.
«Chiude la Philco, trovo Pavesi e Massignan. È stata una buona esperienza. Specialmente il secondo anno. Eravamo con Ciampi gli uomini di appoggio di Emile Daems nelle corse invernali in Belgio. Perciò ho fatto Roubaix, Liegi-Bastogne-Liegi, Freccia Vallone».
Di Pavesi alla Legnano che ricordo ha?
«Era un mito. Io sono del ‘38. Lui diceva che era come me, perché era dell’83. Bastava girare i numeri. Quindi pensi che nel ‘63, aveva 80 anni. Mi è rimasto in mente quando un anno eravamo in Riviera ad allenarci. Lui usciva dall’albergo e tutti i vecchietti lo conoscevano. Si sedeva sulla panchina e cominciava a parlare. Noi tornavamo dall’allenamento e lui era ancora lì che raccontava. Dicevo: “Questo qui ha cominciato a fare il Giro nel 1909, se ve li racconta tutti stiamo qui altri sei anni!”».
Gli anni migliori sono quelli dopo, tra il 1964 e 1966.
«Il 1964 è stata una buona annata. Purtroppo vincevo poco. Ho provato ad aiutare, a tirare le volate, ma arrivavo prima di quello per il quale tiravo. Anche a Dancelli una volta. Nel Giro di Campania, sono arrivato quarto».
Nel Giro delle Tre Province una bella vittoria con arrivo in salita.
«Si con Motta, l’ho staccato. Lì è stata colpa di Albani, che continuava a gridare a Motta: “Staccali! Staccali!” C’ha staccato, poi s’è impiantato. A Camucia».
Era una cosa un po’ atipica che un pistard andasse forte anche in salita.
«Eh sì, però quando stavo bene mi difendevo anche in salita. A Laigueglia quell’anno avevano inserito nel percorso tre volte la salita di Testico. Poi se prendiamo l’ordine d’arrivo possiamo vedere chi c’era: Taccone, Zancanaro, Anquetil, Poulidor, Vicentini, Poggiali, Fontona, che erano i miei compagni. L’unica volta che mi han tirato la volata. È stato Vicentini».
La vittoria che ricorda con più piacere, a parte l’Olimpiade?
«La tappa del Giro del 1963, a Cremona. C’erano tutti. Partenza da Saint-Vincent. Venivamo da quattro giorni che, come diceva Enrico Villa: “Se state in silenzio sentiamo tossire il Signore”. Talmente in alto da poter toccare quasi il cielo. Un arrivo a Oropa; uno a Saas Fee; uno a Saint-Vincent, facendo il Gran San Bernardo».
Direttore Sportivo
Marino Vigna smette di correre a soli 29 anni.
«Ho smesso presto. Ha insistito Magni, alla fine del 1967. Mi diceva: “Guadagni di più, fatichi di meno e hai un contratto per tre anni”. Quest’ultima cosa m’ingolosì. Avevo sempre fatto un contratto di un anno alla volta. Io ero alla Vittadello, che stava per diventare Pepsi, e non avevo ancora incontrato i dirigenti per capire se mi avrebbero tenuto o meno. Io gli anni migliori li ho sempre fatti, fin da Allievo, con gli anni delle Olimpiadi (1956, 1960, 1964…). Così nel 1968 ho deciso per la svolta».
Però Magni ci vedeva anche lungo, nel senso che dal punto di vista relazionale lei era più avanti degli altri.
«Probabilmente sì, anche se dopo la Philco non l’avevo più frequentato molto. Anzi, qualche volta avrebbe potuto magari aiutarmi a trovare la squadra. Con Legnano e Vittadello forse De Zan ci ha aiutato un po’. Sennò eravamo liberi. Infatti la prima volta che ho visto Venezia è stata quando sono andato a firmare per Vittadello, con Cribriori eravamo oramai una coppia da tre anni. Perciò il passaggio a DS è stato naturale. Mi sono immedesimato in fretta, non potevo perdere tempo. C’erano l’abbigliamento, le valigie. C’è stato Giacotto che ha insistito con Magni per farmi correre ancora. Probabilmente se lo avesse fatto con me mi avrebbe convinto».
Partì subito con una squadra forte, la Faema, dove c’erano Eddy Merckx e Adorni. Come furono i rapporti con questi corridori?
«Sono stati subito buoni, perché io parlavo benino il francese, avendo frequentato tanto Daems. Allora il francese era la lingua ufficiale del ciclismo».
Com’era allora il ruolo di direttore sportivo? È famosa la battuta secondo cui lei ha insegnato a Merckx ad andare piano.
«L’ho detto per ridere, come lo dico adesso, ma in effetti è vero. Io sono servito per l’alimentazione. Poi abbiamo modificato un po’ la bicicletta. Addirittura gli ho fatto fare dei tubolari apposta per la ruota davanti. Clément faceva dei Parigi-Roubaix in seta, seta extra. Gliene feci fare uno un po’ più grossi da montar davanti e si sentiva più sicuro. È migliorato tanto anche in discesa, cambiando un po’ la forcella. Dopo gli è venuto il pallino dei telai».
Se li faceva fare da Masi.
«Il primo anno li ha fatti tutti Masi. Il secondo anno li ha fatti Pelà di Torino, soprattutto perché legato a Giacotto. Il terzo anno li ha fatti Terryn, che era un meccanico belga anche telaista. Forse qualcosa gli ha fatto anche De Rosa, l’ultimo anno. Ora sembra che tutti gli abbiano fatto i telai. A me non risulta più di tanto».
Avevate nove belgi in squadra.
«Il primo anno erano 8. Perché, come da regolamento UCI, per ogni straniero bisognava avere due corridori della nazione di appartenenza della squadra. Su 24, quindi, gli altri 16 erano italiani. Due dei belgi avevamo dovuti farli tesserare come pistard. Uno era Sercu e l’altro Martin Van de Bossche, che andava forte anche su strada. Così a un certo punto abbiamo cambiato, spostando Lelangue su pista e Van de Bossche ha fatto lo stradista. Il discorso era quello lì, altrimenti andavamo fuori dai numeri. L’anno dopo è diventato l’inverso: affiliazione in Belgio, quindi pochi italiani e tanti belgi. Costavano meno e andavano di più».
Chi era il più difficile da gestire di quel gruppo?
«Quando c’era Merckx non erano difficili da gestire. Quando non c’era lui era un po’ più difficile. In Riviera non volevano far le salite. Se c’era lui non parlava nessuno. L’anno dopo, con il cambio di affiliazione, i belgi non hanno più voluto allenarsi con i nostri corridori perché gli italiani, appena si svegliavano, aperta la finestra e vista una nuvoletta accampavano qualche scusa. I belgi non guardavano nemmeno fuori: scendevano vestiti da corridore, facevano colazione e andavano, a prescindere da acqua, vento, neve».
Era uno slogan di Merckx quello che diceva: «Se hai paura della pioggia vai a giocare a carte e non fare il ciclista».
«Ed è vero. Una volta non ha più voluto Portalupi, che dormiva con lui, per la storia della nuvoletta. Poi stava con Adorni, che in gara divenne un suo DS personale. In un’intervista Vittorio ha detto: “Ho fatto metà Giro attaccato ai calzoni di Merckx”, perché sennò il belga tutti i giorni era in battaglia. Gli è servito molto».
Si racconta che Vittorio Adorni vinse alla grande il Mondiale di Imola del ’68, ma con la benevolenza di Merckx.
«Sì, credo che il problema sia stato Van Looy in fuga. Quando poi Van Looy si è staccato dalla fuga, Eddy aveva ormai troppi minuti di ritardo. Ho appena letto un libro su Dancelli in cui si dice che c’era Valente, e questo mi sembra strano, e che abbiano passato un biglietto a Merckx dicendo: “Lascia perdere”. Del resto la vittoria di un italiano a Imola era una cosa troppo importante».
Anche la carriera di DS finisce relativamente presto.
«Io ufficialmente da Molteni non ricevetti richieste. Il manager di Merckx ed Eddy stesso invece mi chiesero se sarei stato disponibile a seguirli anche alla Molteni. Onestamente ho pensato che ci fosse già Driessens, che era un ‘canchero’, anche se non avevo mai avuto discussioni con lui. C’era Albani, soprattutto, e c’era Fontana. Allora bastava un solo Direttore Sportivo, per cui lasciai perdere e mi concentrai sul lavoro. Faema mi aiutò. Misi in piedi un’impresa di distributori automatici che portai avanti per una decina d’anni. Sono rimasto legato alla Faema, adesso c’è mio nipote che è direttore commerciale. A ottobre festeggiano i 60 anni della mitica macchina da caffè E61».
In Federazione
Nel 1976 entra in Federazione. Da dove venne questa decisione?
«Mi hanno cercato, sempre Magni».
Per 16 anni in macchina con Martini.
«Sì. E detto tra noi se non ci fossi stato io, il Mondiale di Moser (San Cristobal, 1977) non l’avrebbe vinto. Francesco aveva forato a 6 km dall’arrivo, erano andati tutti in confusione. Martini non sapeva più cosa fare, i meccanici pure. Allora gli ho detto: “Fermati prima della curva, che così fai in tempo”. Così facemmo, e lì fu bravo il meccanico Piazzalunga a saltare giù dalla camionetta e a cambiargli la bicicletta in un attimo. Primi».
Non fu il suo unico contributo.
«Penso di essere stato determinante anche nel secondo Mondiale di Bugno, a Benidorm (1992). Ormai la davano per persa. Mancavano 40 km dall’arrivo e c’erano in fuga Jalabert, Rominger, Indurain e Chiappucci. Dicono dai box via radio: “Bloccate la corsa che vanno all’arrivo questi”. Io dissi ad Alfredo: “Scusa, avevano 20”, sono passati 10 km, hanno ancora 20”, chi tira dietro?”. Erano i colombiani della Chateau D’Ax, la squadra di Bugno. Ai Mondiali bisognava guardare anche i calzoncini mica solo la maglia».
Adesso non è cambiato moltissimo.
«No, però con la televisione ti si vede di più. Là, a Benidorm, non si era accorto nessuno di chi tirava dietro. Nella registrazione RAI si sente che dico: “Quando passa Bugno ditegli di andar davanti, perché la corsa comincia adesso”. In effetti cominciava allora. Lui correva troppo nascosto. Son dovuto andare a dirgli: “Gianni, son stufo di vederti in coda al gruppo. Guarda che se si spacca il gruppo devi inseguire”. Allora, finalmente, è andato un po’ avanti. Uno che non ho mai visto all’ammiraglia è stato Saronni, imboscato nel gruppo. Mentre Moser ogni tanto veniva. Gli piaceva parlare, raccontare. Bitossi, invece, era un direttore sportivo in corsa».
Saronni però poi l’abbiamo visto al traguardo.
«Due volte. A Praga, nel 1981, l’ha buttata via perché ha fatto la volata con le mani sulla parte alta del manubrio. Se avesse tenuto le mani in basso avrebbe vinto. A Goodwood nel 1982, invece, tirò la famosa “fucilata”».
Che rapporto aveva con Martini sull’ammiraglia, ai Mondiali?
«Per me era un fratello maggiore. Avevamo un rispetto e un’amicizia non comuni. Fiorenzo Magni diceva che Martini aveva tanti che conosceva, ma pochi amici. Gli amici li contava su una mano. Con Alfredo ho avuto successi ma anche alcuni momenti critici, come abbiamo detto prima. La sua forza era la diplomazia, e poi ha sempre difeso i corridori. Io qualche volta sarei stato più cattivo. Non potevo fare il CT, anche se mi hanno detto che sarei stato l’ideale».
Finita la carriera in Federazione, nel 1990, va in Bianchi.
«Sì. Dal 2000 mi occupo dell’equipaggiamento di tutte le formazioni giovanili che gareggiano su biciclette Bianchi. Abbiamo 5 Mondiali con i Dilettanti».
E Adesso?
«Adesso faccio il nonno e quando posso pedalo con gli amici. Mi piace parlare di ciclismo e quando m’invitano partecipo sempre volentieri a cerimonie e interviste».
Il baule della memoria di Marino Vigna è senza fondo. Le storie che ne escono sono incredibili e portano con sé tutti i personaggi e le vicende degli ultimi 70 anni di ciclismo, quelli in cui i corridori e le imprese italiane hanno saputo distinguersi per forza, capacità, visione. Amatissimo ancora oggi, Marino Vigna è stato un campione gentile, garbato nei modi ma molto determinato nell’inseguire i propri obiettivi, sia personali sia al servizio di grandi campioni che hanno fatto la storia del ciclismo. Averlo ospitato sulle nostre pagine è per noi un onore e speriamo di aver dato il giusto tributo alla sua luminosa carriera.
“Maestro” di ciclismo
La bicicletta ha insegnato qualcosa a Marino Vigna? «Io dico sempre: ho avuto molto dalla bicicletta e dal ciclismo, però gli ho dato anche tanto», ci ha risposto. «Per un decennio, all’inizio degli Anni 2000, sono andato per le scuole a insegnare ai ragazzini a rispettare i cartelli stradali, a comportarsi bene, a mettere a posto la bici, i freni, le gomme. Le maestre mi ringraziano ancora adesso».
Uno degli aspetti su cui Vigna ha insistito di più, nel corso della sua attività formativa, è stato quello dell’alimentazione. «È un’attenzione che viene dall’esperienza come corridore», dice. «Nelle corse a tappe i primi 3/4 giorni devi comportarti come se fossi “ammalato”, ovvero mangiare solo cose facilmente digeribili. Dopo mangi anche i sassi. Però finché non ti sei abituato è necessario stare molto attenti. Adesso hanno tutti i professori dietro, anche esageratamente. Hanno il preparatore, addirittura il motivatore; lo psicologo, il mental coach. È cambiato molto dai miei tempi».
Fermata vigna
A Milano, nella fermata Romolo della linea MM2, c’è una targa che dedica la stazione a Marino Vigna. Una vicenda che parte da lontano. «A Londra, quando hanno fatto le Olimpiadi nel 2012, hanno deciso di intestare le fermate della metro a diversi grandi campioni dello sport, non solo inglesi», spiega Vigna. «Con la metro lombarda hanno voluto fare qualcosa di simile limitandosi però ai soli atleti lombardi, con poche eccezioni, come Adolfo Consolini, discobolo, che fece il giuramento a Roma; la bandiera la portava Mangiarotti, veneto. Lui ha gareggiato sempre per Pirelli o per la SNIA, che sono ditte lombarde. Stessa cosa per la campionessa di salto in alto Sara Simeoni e per il marciatore Maurizio Damilano. Ogni stazione un abbinamento. La notizia è apparsa sui giornali ma a me l’ha detto il mio prevosto».
Anche all’ex-corridore della Legnano Ottavio Cogliati – anch’esso campione a Roma nel 1960 con Trapè, Bailetti e Fornoni nella 100 km a squadre – compagno di squadra di Vigna alla Legnano, è stata dedicata una fermata della MM2 Verde, quella di piazzale Abbiategrasso. Ironia della sorte, proprio quella dove Marino Vigna è venuto a prenderci in auto per l’incontro che ha portato a questa intervista.