«Diavolo Rosso, dimentica la strada. Vieni qui con noi a bere un’aranciata controluce tutto il tempo Se ne va…»
Tutti noi amanti della storia del ciclismo – e dei suoi campioni – dobbiamo ringraziare il cantautore astigiano Paolo Conte per averci lasciato dei capolavori musicali che ingigantiscono il mito dell’uomo solo al comando.Oltre a Gino Bartali, e alla canzone famosissima che porta il suo nome, anche il conterraneo Giovanni Gerbi, astigiano come Conte, ha avuto il proprio testamento musicale dove, tra le parole poetiche, la chitarra sembra inseguire la fisarmonica, la batteria stimola alla fuga il clarinetto e il violino lo incalza.
Ma musicale è anche quello che è saltato fuori qualche tempo fa dall’archivio radiofonico della RAI. La trasmissione, curata da Gigi Marsico ed Enzo Tortora, si intitolava “Vecchio Giro” ed era composta da “istantanee sonore” dedicate ai campioni del passato che – dice l’audio – erano nel “cielo della leggenda”. Tortora e Marsico (giornalista piemontese) incontrarono Giovanni Gerbi nella sua casa di Asti, dove mostrò loro foto e trofei e rispose alle loro domande. Quell’intervista fu anche l’ultima rilasciata da Giovanni Gerbi, che sarebbe morto il 7 maggio del 1954, pochi giorni prima del Giro vinto quell’anno dallo svizzero Carlo Clerici.
Questa la trascrizione fedele, un documento che pensiamo possa essere d’interesse per i nostri lettori.
Giovanni Gerbi a “Vecchio Giro”, con Enzo Tortora e Gigi Marsico – RAI 1954
Se n’è andato alla vigilia del Giro il Diavolo Rosso, Giovanni Gerbi, il grande campione astigiano che entrò nel cielo della leggenda assai prima di morire, e che rimase giovane gagliardamente sino all’ultima sua ora. La notizia della sua fine ci colse inaspettata e ci parve prematura, come tutte le morti degli atleti, siamo così abituati a considerarli come simboli di giovinezza, così vivo è il ricordo della loro potenza vitale da crederli personaggi soprannaturali tetragoni alla legge del tempo e alla sorte comune. Anche lui invece è scomparso laggiù oltre l’ultimo traguardo.
Caro Giovanni Gerbi, che aveva acconsentito con quel suo inimitabile brio ad accordarci un’intervista per “Vecchio Giro” proprio alla vigilia della sua scomparsa.
Ci ricevette il settantenne Diavolo Rosso nella sua bella casa astigiana, piena di memoria dei tempi eroici della bicicletta e ci parlò a lungo affettuosamente. Nessuno forse compì imprese leggendarie nel mondo dello sport come il settantenne campione scomparso, enormi erano le sue sfide, impensabili i suoi propositi e le sue vittorie. È stato veramente il primo grande protagonista del ciclismo piemontese, il protagonista di un tempo lontano in cui la bicicletta era una novità, le strade assomigliavano a letti di torrenti e il primo premio consisteva in una povera medaglietta di bronzo.
Ascolterete tra poco, la voce di Giovanni Gerbi, l’ascolteranno commossi gli sportivi e soprattutto i giovani, ragazzi che del Diavolo Rosso hanno sentito soltanto favoleggiare, come di una romanzesca figura tratta da libro d’avventura. Soprattutto ai giovani pensava quando ci accordò l’intervista. «Voglio parlare per loro dei miei tempi», diceva sorridendo e sempre con la sua aria lieta candida e bonaria si avvicinò al microfono e ci parlò argutamente della sua epopea.
«Quando pedalava il Diavolo Rosso», ci disse Giovanni Gerbi, «tutti si mettevano dietro di me, dove andavo io. Se andavo anche dentro un lago, tutti mi correvano dietro, talmente l’impressione che gli davo. Io mi fermavo loro si fermavano, io mangiavo loro mangiavano, io andavo a dormire loro andavano a dormire e volevano stare con me. Non volevano andare avanti a me, volevano vedere che fine facevo io».
Visse tranquillo fino all’ultimo nella sua bella casa di Asti, dove un’intera camera da lui chiamata “Il salone” ospitava la commovente galleria dei suoi ricordi. Eccoli ordinati in ingenui dagherrotipi, gli attimi essenziali del “Diavolo Rosso”. La preistoria del Giro d’Italia nelle classiche corse che precedettero il via del 1909, la ritroviamo raccontata nelle pallide immagini di un Gerbi giovanotto. Qui il trofeo ricevuto dalle mani di un sindaco in tuba e stiffelius e accanto la Vittoria Alata in argentone con la dicitura “Un lume ti die’ la forza che il pedal tuo rese superna”.
I sorrisi che sbocciavano dai baffi di questo Gerbi in berretta e in pantaloni alla zuava si inseguivano sulle pareti del salone, erano sorrisi legati alle fettucce d’arrivo guadagnate clamorosamente con distacchi dal sapore di favola. «Al Giro di Lombardia una volta sono arrivato 41 minuti prima davanti a tutti i francesi e l’altro Giro che c’erano tutti gli italiani 47 minuti. Poi ho vinto tre volte la Roma-Napoli e ritorno: 1907, 908 e 909. E il 906 ho dovuto ritirarmi per un incidente di strada che non c’era nemmeno le segnalazioni lungo la strada, e invece di andare a Formia, Gaeta e Terracina non so dove sia andato a finire. Ho sbagliato completamente la strada. Avevo già circa… non so… un’ora di vantaggio. Ho dovuto ritirarmi».
Squilla la Diana del 1909 [espressione che indicava nel linguaggio militare il salutare l’alba, ndr], quella del primo Giro d’Italia, è un richiamo magico che elettrizza per la prima volta la Penisola e calamita alla partenza sul vialone di Monza i più grandi campioni del tempo. Risponde all’appello naturalmente anche il Gerbi e i tecnici informatissimi, gli strateghi del caffè Mazzini assicurano che il Diavolo Rosso ha già il Giro in tasca, ma le equazioni della vigilia non avevano tenuto conto della imponderabile incognita della sfortuna.
«Siamo partiti a Loreto, a Milano. Dopo 200 metri dalla partenza succede un intruso che mi traversa la strada e mi fa cadere. Rompo le 2 ruote e siccome la bicicletta è regolarmente timbrata e non si poteva partecipare con un’altra macchina, se non si è arrivati con quella, mi han preso io e la bicicletta, mi han portato in viale Abruzzi dalla ditta Bianchi, mi han fatto star là due ore e mezza sulla sedia per cambiare i raggi delle ruote… E io son partito dopo due ore e mezza in questa gara da solo, e ho fatto tutto il giro da Milano a Bologna 400 e tanti chilometri tutto solo. Questo incidente ha capovolto completamente le mie energie, perché questi sforzi sopra sforzi di [incomprensibile] vuol dire che io dopo 3 o 4 o 5 tappe, non so più quale sia, la tappa di Firenze mi ero poi ritirato».
Volevano tutti bene a nonno Gerbi, impossibile non rimanere affascinati da questo spirito vivo elettrizzante, vagamente garibaldino. Nonno Gerbi che riassumeva in pochi sapidi tratti la propria simpaticissima condotta di gara.
«Se il mio carattere è che mi sono imposto verso… dico… i nemici, cioè quelli che correvano per battermi. Mi sono imposto un momentino perché avevo il mio carattere! Quando correvo non scherzavo con nessuno, volevo vincere, o le bone o le cattive, non andavo per ridere, io volevo vincere! Quando la canzone era vinta era vinta, se non vincevo per me era una cosa di un dispiacere, uno dei più [grandi] dolori che provavo nella mia vita. In casa mia stavamo dei mesi senza parlare insieme, quando arrivavo solo secondo, perché per me non c’era mai soddisfazione se non arrivavo primo almeno a staccarli mezz’ora tutti».
Minuto più minuto meno, i distacchi di Gerbi erano autentiche voragini, le scavava pazientemente per mesi prima della corsa ricorrendo ai mille sapientissimi espedienti, alle cento trappole degne di un maresciallo napoleonico.
«In ogni gara ne studiavo una nuova, sempre per trovare che il nemico non seguisse con tanta facilità la mia ruota. Un giro di Lombardia… vi descrivo il primo che c’è ancora sulla storia del libro delle mie venture, dove li ho fatti rientrare tutti nella ferrovia, nella ferrovia tramviaria che si trova tra Lodi e Crema, li ho fatti rientrar dentro. Poi ho trovato il punto strategico di uscire e sono caduti quasi tutti perché prima di fare la corsa io sapevo già tutto quello che succedeva. Perché il percorso io lo facevo una volta, due, tre, dieci magari. Il giro di Lombardia quella volta lì l’ho fatto 27 o 28 mattine di fila: tutte le mattine il giro di Lombardia. Venivo alla conoscenza che sapevo quante pietre c’era, tutti i casellanti, l’orario dei treni, l’età che avevano i casellanti, la maniera se passava il diretto o l’omnibus. Giocavo su tutte le mie buone capacità che avevo, perché potessi fare tutto il percorso da solo».
E qui Giovanni Gerbi ci fece comprendere che l’intervista era finita. Pochi giorni dopo il Diavolo Rosso non se n’è andato per sempre. Rimane di lui, a Vecchio Giro, l’ombra di questi suoi ricordi infinitamente cari. Aveva quasi 70 anni Gerbi quando se ne andò. Da quando l’ultima volta alla soglia dei 50 aveva inforcato una bicicletta per disputare l’ultimo testardo Giro d’Italia, viveva all’ombra della sua maglia rossa, e ogni anno proprio in questi giorni, quando il primo sole di giugno scherza coi pampini dei vigneti astigiani, mi sembrava di riudire lontano il magico squillo di quella Diana che l’aveva chiamato tante volte al meraviglioso appuntamento con le strade d’Italia.