Ci sono realtà ciclistiche in provincia che vanno riportate un po’ più sotto i riflettori.
Se si fossero sviluppate in città o in zone più industriali avrebbero forse avuto ancora maggiore successo. Un carico di storia enorme, che è bene raccogliere prima che vada disperso. Ecco allora giunto il momento di ascoltare Irio Tommasini, classe 1933, telaista e fondatore dell’omonimo marchio di biciclette. Irio ci accoglie nel negozio di famiglia, alle porte di Grosseto. Telaista fin da giovanissimo, ha accettato di raccontarci momenti ed evoluzione della saldatura e la nascita dei suoi preziosi telai. Il tutto sotto un’ottica imprenditoriale e, al tempo stesso, di artigiano illuminato.
Come nasce la passione di Irio Tommasini per la bicicletta? Si racconta di Varazze, nel 1946, della Milano-Sanremo. L’immagine di Fausto Coppi affascina. La prima cosa che gli chiediamo è com’era il ciclismo a Grosseto e in Maremma. «Da ragazzo vedevo sempre una bicicletta da corsa in casa», ci risponde. «C’era il fidanzato della zia che correva. Qualche mese dopo il ritorno da Varazze fecero una corsa di dilettanti a Buriano (paese natale di Tommasini). Venne a mangiare un corridore, Alfredo Falsini, originario di Castiglione della Pescaia – all’epoca c’era l’abitudine di andare a mangiare nelle case. Era uno che andava forte e mi disse: “Ti do la bicicletta di mio fratello, così puoi cominciare ad andare”. Ne fui molto contento e questo gesto mi fece prendere passione. In quell’occasione Falsini arrivò secondo. All’epoca ero a retta presso una famiglia a Grosseto. Nel tragitto tra la casa e la scuola passavo sempre davanti all’officina del meccanico di quel corridore. Quando lo vedevo lo chiamavo: “Alfredo! Ma quando me la porti la bicicletta?”. Falsini rimandava sempre, perché quella bicicletta serviva al fratello, che difficilmente se ne sarebbe separato».
Ma la passione per il ciclismo del giovanissimo Irio lo porta a chiedere l’acquisto ai genitori. Una bicicletta col manubrio da corsa, ma senza cambio. «Ho cominciato a pedalare e al tempo stesso a smontarla e rimontarla». Nel 1948 gli zii aprono un’officina dove si riparavano anche le biciclette. «Io dopo la scuola andavo ad aiutarli. Fino agli anni ’55-’56 sono stato con loro». Gli zii non erano corridori, ma dopo la guerra, con l’Italia distrutta, la bicicletta è il primo vero mezzo di trasporto popolare e quindi c’era molto lavoro sia per le riparazioni sia per la vendita. «Lo zio era stato un ufficiale dell’esercito e, una volta congedato, aveva aperto l’officina su suggerimento del cognato, che stava a Milano e gli aveva fornito i primi strumenti. Montavamo sia i telai che le ruote. Si vendeva due o tre marche, tra cui la Fuchs e la Bottecchia».
«Ho fatto l’avviamento commerciale», continua Tommasini, «ma a me non piaceva. Ero attratto dalla meccanica. Ricordo che durante la pausa della merenda in cortile m’incantavo a guardare gli apprendisti a lavorare nelle officine dell’ITI. Se i miei genitori mi avessero iscritto all’Istituto Tecnico avrei completato le scuole, non avrei smesso come ho fatto. Quello era il mio lavoro». Nel 1956 il trasferimento a Milano, a fare apprendistato alla Fuchs. «Qui a Grosseto vendevamo sia biciclette che motorini Fuchs e fu abbastanza naturale chiedere di andare a provare». Era un’epoca in cui alla Fuchs non facevano ancora internamente le biciclette da corsa, così dette “speciali”, ma si concentravano soprattutto su quelle da passeggio. Quelle speciali venivano fatte fuori, da Faliero Masi.
«Ero alloggiato in via del Giambellino e la sera andavo da Faliero. Per il montaggio delle biciclette era un esempio, copiato da tutti, e io osservavo. Eravamo entrambi toscani e lui era chiacchierone, mi ha trasmesso molto». Il discorso casca su Ernesto Colnago, anche lui per un periodo apprendista presso Masi. «Ernesto l’ho conosciuto nel 1956, alla Roma-Grosseto del Giro d’Italia, la stessa in cui Magni si ruppe la clavicola. Nell’officina di Masi ho ritrovato questo ragazzo, che aveva un anno più di me. Gli ho chiesto chi fosse e mi rispose: “Ernesto Colnago”. Mi disse che aveva corso, ma era caduto, si era rotto il femore e aveva smesso per questo di gareggiare».
Continua Tommasini: «Nel 1960 ho conosciuto l’altro fratello, Paolo, in occasione della San Pellegrino a tappe (il Giro d’Italia per dilettanti). La prima tappa partiva da San Marino. C’era una bicicletta anonima. Guardandola dissi a chi era con me: “Quella bicicletta è di Masi”. A sentir quelle parole un ragazzo che era lì vicino rispose: “No, quella bicicletta la facciamo noi”». La bicicletta era di Clay Santini (forte in volata e buon passista) che nel mondo dei dilettanti era un nome importante. Lo stile di Masi, quasi inconfondibile per Irio, era stato studiato e adattato dai fratelli Colnago. «Con Paolino siamo stati sempre amici» aggiunge Tommasini. «Era una persona garbata, bravissimo anche nel montare le biciclette, era sveltissimo».
Grandi personaggi
Un altro toscano segna la strada di Tommasini, Cino Cinelli. «L’avevo conosciuto a Milano». C’era sempre bisogno di andare a prendere qualche componente o pezzo e la città lombarda era la più fornita. «Qualche volta, però, quando tornavo dopo qualche tempo mi dicevano: “No, questo non c’è più”, le aziende erano quasi tutte chiuse». La Cinelli, invece, era ancora aperta e produceva. Tommasini comincia a servirsi da Cino.
«Con Cinelli siamo sempre stati in ottimi rapporti, anche se aveva diversi anni più di me. Lui veniva da me a Santa Fiora (borgo sulle colline del grossetano). Aveva fatto il garzone di macelleria e le bistecche, condite e preparate, le portava direttamente lui da Firenze. Non era ingegnere, ma era un fenomeno, sapeva tutto. Aveva una presenza incredibile». Cinelli, insieme a Magni, era stato uno dei fondatori dell’Associazione dei ciclisti professionisti, per la regolamentazione dei contratti e per sviluppare la contribuzione pensionistica una volta terminata la carriera agonistica.
«E non solo, con Zeno Colò (sciatore e olimpionico di sci degli Anni ‘50) mise insieme l’Associazione per gli sciatori. Seguirono poi quella dei tennisti e dei piloti. Da giovane correva, ma per potersi mantenere si era fatto assumere alla libreria Le Monnier (storica casa editrice di Firenze). Aveva sfruttato l’occasione per farsi una cultura». «Era uno di quelli duri», ricorda Irio. «Quanti confronti con Rodoni, il Presidentissimo della UVI. Erano personaggi che venivano dalla guerra. Avevano subito le conseguenze della fame, restrizioni non indifferenti. La vita era più dura, ora è tutto facile».
Un altro incontro che cambia la vita di Tommasini è quello con Giuseppe Pelà. «Andai a Torino, sempre per rifornirmi di materiale. Conoscevo di fama Pelà, ma non sapevo che fosse toscano (nativo di Roselle, vicino a Grosseto). La famiglia, ho saputo dopo, era originaria di Ferrara. A Moncalieri c’era una ditta che faceva attrezzi per lavorare le biciclette. Andai lassù per comprare qualche componente. Mi avevano ordinato una forcella alta (per freni alti), ma non avevo il cannotto. Chiesi quindi al proprietario della ditta, visto che in zona c’erano tanti telaisti, se ce ne fosse stato uno che potesse fornirmi di una forcella da 280/300 mm. Telefonò a questo Pelà e poi me lo passò. Pelà sentì che ero toscano e mi invitò ad andarlo a trovare. Mi recai subito e dopo dieci minuti eravamo già amici».
«Pelà era tosto», racconta Tommasini. «Faceva sette telai e sette forcelle al giorno. Da solo. Le maschere non le aveva. La gente andava lì e non capiva niente di quello che faceva. Siamo rimasti amici e ogni tanto diceva: “Io tra qualche anno smetto”. Quando andavo a Torino, magari passando da Nisi (famoso per i cerchi) a comprare pezzi, poi mi fermavo da lui. Se gli chiedevo una qualsiasi cosa lui me la realizzava. Cosa che ad altri, anche molto importanti, non faceva».
Tommasini s’illumina ricordando il maestro e amico. «Ha fatto un telaio in 4 ore, per Bracke (ciclista belga), per il Record dell’Ora. Si vive di queste cose qui».
Tra gli incontri importanti a Torino, manca Lino Beltramo. «Mai conosciuto. Ho visto suoi telai, Pelà mi parlava dei suoi telai, ma non l’ho mai incontrato (morto nel 1968). Ad Alessandria, al Museo ACDB, c’era un telaio Beltramo e accanto uno di Pelà. Su quello di Pelà non era riportato il nome. Un vecchio telaio con il cambio a bacchetta. Indicai alla segretaria che quel telaio era di Pelà, che faceva i telai Edelweiss. Pelà aveva fatto il Giro d’Italia, fino al 1949, con la squadra Edelweiss. L’anno dopo Pelà fece la Taurea (1951-1953). In questa squadra ci correvano quasi tutti toscani (Martini, i fratelli Baroni, Maggini)». La collaborazione con Pelà va avanti fino alla fine del 1971. «Decise di smettere veramente. Gli ultimi telai che fece furono per Gios, la Brooklin e per la Sammontana».
Tommasini decide di rilevare da Pelà attrezzatura e macchinari. «Forse sbagliai, dovevo rimanere lì perché c’era già il personale, c’era tutto. Fossi rimasto là forse sarebbe stato meglio. Tra Torino e Grosseto c’è differenza. Lì c’è tutto, qui non c’era niente». All’inizio è stata dura. «Sono andato avanti a saldare fino a mezzanotte, per Pasqua, per Natale. Avevo molti ordini e non potevo rimandarli indietro».
Irio inizialmente lavora solo su biciclette da corsa. «Preparavo i tubi, li scaldavo e poi saldavo. Al tempo le congiunzioni erano difficili da trovare. Allora prendevo quello che era disponibile e i telai venivano di un tipo e poi di un altro. Dalla fine del 1971 alla fine del 1976 ho sempre adoperato le stesse congiunzioni. Le prendevo da Grati, poi le modificavo. Si trovava qualcosa in Francia. Quelle piccole, che montava Masi, che poi ha cominciato a montare anche De Rosa (fatte da Masi) con i posteriori schiacciati (bucati con tre asole). La testa forcella piatta veniva sempre da Masi».
ALL’ESTERO
In quel periodo nasce il marchio Thomas, poi subito dopo la Tommasini, perché a qualcuno piaceva di più col nome proprio. «All’estero non piaceva il marchio Thomas, negli Stati Uniti e in Australia. Avevo un corridore australiano, Kevin “Clyde” Sefton (medaglia d’argento in linea ai Giochi Olimpici 1972 e poi professionista dal 1977 al 1984), che aveva cominciato a portare delle mie biciclette, sia strada che pista, laggiù. Mi diceva che “non piacciono marchiate Thomas, devi fare Tommasini”. Cominciai così a lavorare in parallelo sui due marchi». Il marchio Thomas ha comunque vita breve e chiude già nei primi Anni ‘70.
I primi lavori all’estero furono con i belgi. «Avevo già una squadra qui in Toscana (G.S. Mobili Gori, con base a Perignano), molto forte. C’erano Cialdini (vincitore Giro d’Italia dilettanti) e Phil Edwards, che conquistò la Montecarlo – Alassio. In zona Crespina (sempre in provincia di Pisa) si allenavano i corridori della Flandria. Feci subito un telaio a un compagno di Maertens, poi a Freddy stesso e quindi a Marc Demeyer (vincitore della Roubaix). Si inserì il loro massaggiatore e cominciai a fare le biciclette da pista per lui. Poi l’Australia, a cui si aggiunse anche l’Inghilterra. In questo caso c’era Edwards che importava il materiale e col fratello faceva il rappresentante. Roba vecchia o nuova non faceva differenza; bastava anche un cappellino e lui lo riprendeva».
Segue poi lo sbarco in America. «Sì, nel 1973. Se avessi avuto 100 telai al giorno in America sarebbero andati venduti tutti». Lo sbarco nei mercati esteri non è solo commerciale. I materiali stanno cambiando, si affacciano nuove leghe e componenti. Bisogna saperli trattare. Ecco che la tradizione telaistica italiana incontra l’avanguardia americana.
Nel 1991 il titanio. «Sapevano già saldare il titanio, ma non avevano le competenze sui vari materiali. Abbiamo collaborato con la Hi Speed di Chattanooga (Tennessee). Loro ci mandavano i tubi e le sostanze chimiche per poter lavare i tubi. La famiglia che era proprietaria della Hi Speed proveniva dal settore della chimica. Un figlio cascò di bicicletta e si ruppe una gamba. Il padre, molto dinamico, suggerì al giovane malcapitato di farsi la bicicletta da solo. Avevano macchinari per fare i tubi e si misero a costruire la bicicletta, ma non venne tanto bene. Poi si presentarono al nostro stand a una fiera in America. Noi gli abbiamo dato dei telai, le misure e come procedere alla realizzazione. Loro ci inviavano le tubazione, perché in quel periodo non si trovavano. Proponevano tubi trafilati, molto interessanti (doppio batted). Ho avuto molte squadre importanti negli Stati Uniti. Una di Philadelphia (3 anni), poi altre squadre con Shimano. Abbiamo collaborato con Chris Carmichael (team manager e scopritore di Lance Armstrong). Un anno siamo stati quelli che hanno inviato più materiale di tutti negli Stati Uniti. Quando andavo là mi chiedevano gli autografi e io mi vergognavo quasi di tanto clamore».
«Presentammo il telaio in titanio alla fiera del marzo 1991», continua Irio. «Nella stessa occasione un altro costruttore italiano presentò la sua versione. Il nostro non era bluastro, mentre il loro era molto blu nelle congiunzioni. Quando il titanio è blu significa che ha preso troppo ossigeno ed è contaminato. Ora lo saldano tutti, ma agli inizi degli Anni ’90, era più difficile. Ancora adesso facciamo tanti telai in titanio. Hanno usato questi telai corridori come Fabio Casartelli e Cacaito Rodriguez e i corridori che correvano nelle squadre dei fratelli Petito. Per un periodo le tubazioni le faceva la Columbus. Erano eccezionali e leggere, mai rotto un telaio. Poi hanno smesso».
Tommasini ricorda un aneddoto. «Abbiamo fatto telai per tante ditte, come Benotto. Quando c’era la GIS, quell’anno il Giro d’Italia partiva dalla Sardegna, arrivarono dei tubi che sembravano quelli di Masi, tre tubi uguali (struttura della 3V). Per questioni di rapida consegna quei telai furono tutti verniciati di nero. Questo trasse in inganno Adriano De Zan, che in telecronaca disse che Petito e Martinello stavano utilizzando telai in carbonio. Il carbonio, invece, abbiamo cominciato a trattarlo nel 1988. Abbiamo fatto subito due serie e poi la terza, che abbiamo battezzato Granducato. Era semplice da farsi. Il metodo l’aveva studiato Pesenti».
L’Eroica
Vulgata vuole che la storia di Irio Tommasini sia legata all’Eroica, la creatura di Giancarlo Brocci. «Sì, io e il Tenti di Arezzo, siamo stati tra i primi. A prendere freddo, a fare tutto. Un anno il Tenti non venne perché non si sentiva bene. Io ero solo a controllare quelli del percorso lungo, che partono la mattina presto. Avevamo due fogli, uno per l’abbigliamento e uno per la bicicletta. Era già una mezz’ora che questi spingevano perché volevano partire. Io ero solo e dovevo segnare tutto. A un certo punto da dietro sento, in veneto, descrivere la bicicletta nei particolari. Mi girai e dissi: “Te ne intendi?” – “Un pochino” – “E allora dammi una mano”. Era Alberto Paccagnella, che poi ho inserito nel Registro Biciclette Eroiche. In quell’occasione mi diede un aiuto tutto il giorno. L’anno dopo dovevo chiamare il Brocci affinché lo richiamasse perché non trovavo più il numero. Poi lo ho recuperato e Giancarlo l’ha inserito nel Registro. È un vero intenditore».
«Inizialmente non andava bene come era stato strutturato il Registro», dice Irio. «Non si poteva stare fino alla sera al buio ad aspettare l’ultimo che arrivasse. Col buio che tanti non avevano neanche le luci, e io gli dicevo: “Comprate le lampadine”. Proposi allora di fare un’unica scheda in cui si riportasse tutto. Da lì cominciammo a registrarle prima della corsa. Poi l’anno dopo fu introdotta la foto della bicicletta e si sono sviluppate le cose. Però all’inizio quelli che hanno tribolato tanto, a prendere il freddo, eravamo noi due: io e Tenti».
Continuano i racconti eroici: «Una volta c’erano quattro dell’Est Europa, che avevano sempre fatto la cronometro, un paio avevano fatto anche i professionisti qui in Italia, correvano con le biciclette Diamant. Son partiti la mattina presto sul percorso lungo e poco prima di mezzogiorno erano già arrivati. Si misero tutti al sole a recuperare. Che atleti che erano. Fecero una media incredibile.
Qualche anno dopo mi sono fatto male, non ho più avuto la possibilità. Sono andato un anno a trovarli a Gaiole, ma solo per un saluto. In quegli anni ero sempre dentro a controllare le biciclette, non mi godevo molto del Sabato del Villaggio».
L’anno scorso, dopo gli anni della pandemia, il Registro è stato rimesso in piedi e il Brocci ha chiamato a presiederlo Giovanni Nencini. «Figlio di Gastone», commenta Irio. «Va dato atto al Brocci di aver messo su una cosa incredibile. Anche se sulle auto e sulle moto c’era già un mondo vintage. Però se vedevi una bicicletta vecchia ti affascinava di più, almeno per la gente come me. Una bicicletta, quando è fatta bene, è da ammirare. E per farla bene ci sono dei particolari che tanti non vedono. Anche nella saldatura, che è importante. La saldatura delle congiunzioni tanti la limavano. Dicevano: “Ora poi c’è da limare…” Ma la congiunzione non la devi limare. La devi tirare prima. Poi quando la vai a saldare ci vuole tecnica. Prima si saldava con il propano e l’ossigeno. Veniva un bel dardo e da questo potevi dargli la forma che volevi. Quando avevi finito saldarvi il tutto, con il sistema del Pelà. Si tirava indietro il cannello e l’ossigeno faceva come il riccio, si ritirava, e la congiunzione rimaneva pulita».
Tommasini continua con le specifiche tecniche: «Prima si diceva: “Vanno saldati con l’argento…”. No, con l’argento non vanno saldati. Perché se saldi il telaio in argento dopo poco ti si rompe. Se si supera anche di pochi gradi la soglia di fusione l’argento diventa nero e quindi non scorre più dentro la congiunzione. Invece se hai l’ottone buono… Anzi, il contrario, meno buono è, meglio è. Si usava l’ottone ricotto, sia io che Pelà, e si saldava con il propano. Usavano tondini da 5 mm di diametro. Perché lo prendevamo da 5? Perché quando lo tuffavo dentro il borace (composto di boro), essendo il diametro più grosso come superficie me ne prendeva di più. Così quando il borace si scioglieva andava anche a ripararmi il tubo. Non arrivava proprio il caldo dentro il tubo. Con pochi gradi se ne andava».
«Avevamo una corrispondenza con un costruttore di tubi francese», ricorda Irio. «I telai li facevo io, lui faceva i tubi. In Italia li montavamo io e Alberto Masi. Questo francese aveva fatto un tubo che era la composizione di acciaio, carbonio e kevlar. Ne ho fatti tanti, tenevano. Poi hanno cominciato a chiedermi le varianti, magari cromato, quando mettevo i telai nei bagni galvanici. Il prodotto che usavamo per saldare si scioglieva alla semplice fiamma di un accendino, ma poi s’irrigidiva con l’acido solforico, alla base del bagno galvanico, che però mangiava questo prodotto e dopo poco veniva la ruggine e il telaio si sciupava. Ho smesso di farli, un po’ anche perché la fornitura non era regolare, molto occasionale.
Quelli che avevo fatto prima, con questi tubi, erano telai bellissimi, perché erano leggeri. Ne avrò fatti 400. Alberto li faceva meglio, perché li componeva sul modello della 3V, però qualche volta mi telefonava e mi chiedeva quanto tempo fosse che non sentivo o incontravo il costruttore. Anche lui si lamentava dello scarso approvvigionamento. Ogni tanto capitava che il francese, che era originario dell’Abruzzo, passasse di qua. Faceva questi tubi con un’azienda aerospaziale».
«Questi tubi», prosegue Tommasini a ruota liberissima, «li accoppiavamo con una pasta, una sorta di amalgama, che quando cominciava a bruciare faceva un fumo incredibile. Saldavamo senza mascherina, eravamo veramente a rischio. Poi al momento del passaggio nell’acqua tiepida questa pasta si scioglieva e se ne andava. Il telaio era un nostro Prestige, con la variante kevlar e carbonio. Con tubi similari abbiamo fatto un telaio da crono per un corridore francese che correva qui in Italia. Quel telaio era rimasto a me e ho sbagliato a darlo via. Telaio molto particolare, la parte bassa aveva un coefficiente CX bassissimo».
Tommasini racconta di un tempo che sembra antico, al limite tra la fucina del fabbro e l’alchimia. La tecnica dei mastri artigiani, la perizia e l’intuizione. E come tale vige la regola del mai accontentarsi, guardare sempre oltre. Fare una cosa e già pensare alla variante. Una definizione che abbiamo sempre sentito abbinata a Enzo Ferrari, ma che può essere estesa tranquillamente a un’intera generazione di sarti dei telai. «Sono stato il primo in Italia a fare i telai a corna di bue. Di quel tipo i primi erano stati i tedeschi dell’Est. In quel periodo lavoravo parecchio con la Bulgaria (con la Lokomotiv). Li portai a Firenze, al Campionato del Mondo Juniores (1982). Uno di questi ragazzi, con quel telaio, fece anche un record nella pista di Mosca».
«Mi ordinarono una novantina di biciclette» racconta Irio «sia da cronometro sia da pista. Adesso le biciclette da pista le fanno tutte uguali, ma non è così. Ci sono quelle da inseguimento individuale, che sono simili a quelle da crono, con la pedaliera bassa, un po’ più lunga. A seconda delle piste si fa lo sterzo». Tommasini racconta la bicicletta come se fosse un oggetto fluido, che si forgia a seconda delle necessità, con piccoli accorgimenti che portano maggiori vantaggi al ciclista.
«Adesso lo sterzo lo fanno uguale per tutte le piste. Invece se la pista è corta fai lo sterzo più dritto. Per le piste da 6 giorni o più lunghe si facevano biciclette con lo sterzo un po’ più aperto. Poi ci sono le biciclette del quartetto, che devono essere più robuste, più alte di pedaliera. In modo da non toccare la pista quando si dà lo strappo al cambio e si sale nella parte alta del catino. Altra cosa la bicicletta da cronometro da fermo. Stai sempre sulla corda sotto, puoi tenere la bicicletta più bassa, con pedivelle più lunghe, da 170 mm».
Dopo la pista, la strada: «La bicicletta da cronometro da strada la facevi un pochino più lunga dietro, più bassa. Anche le biciclette che faceva Pelà per i corridori dei giri d’Italia o di Francia, se il piantone era di 73° tale doveva restare, indipendentemente dal tipo di bicicletta. Poi ci poteva essere il tubo dello sterzo un po’ più dritto. Ma il colpo di pedale doveva essere sempre uguale. Dovevi pedalare alla stessa maniera. Quando vai a cronometro e vai a tutta, quando arrivi hai le gambe in croce. E quindi se invece salvi le gambe, perché il raggio di pedalata è sempre lo stesso, sei meno stanco e di conseguenza il giorno dopo puoi anche attaccare. Tante volte vedi la gente che deve stare ferma il giorno dopo la cronometro perché è molto stanca. Ora c’è la possibilità di avere biciclette un po’ ibride, diciamo così. Prima erano più centrate su quella particolare prestazione».
«All’epoca c’erano anche dei meccanici competenti», continua Irio. «A Firenze c’era il Pini. Brunetto era bravo. Ne ho fatti tanti di telai per lui. Qui in Toscana i telai li ho fatti a tutti. A Vasco Poccianti (meccanico della Filotex) li facevo io. Li ho fatti per Saronni, per Moser. Francesco Moser vinse una corsa dura qui in Toscana. Sotto il diluvio staccò tutti. Dopo un quarto d’ora mi telefona Poccianti e mi chiede una bicicletta da cronometro per Francesco, “tanto le misure le sai”. Da poco mi erano arrivate 10 serie di tubazioni (Reynolds) dall’Inghilterra. Di quelle grosse ma leggerissime. Vasco mi diede delle indicazioni su come sarebbe dovuta essere la bicicletta per Moser. Più dritta davanti, la forcella meno inclinata, più bassa, più indietro. L’inclinazione sempre uguale. Quando andai a vedere una tappa del Giro d’Italia di quell’anno, in cui De Muynck staccò tutti, notai che Moser aveva corso con la bicicletta da cronometro. Chiesi a Poccianti se davvero avesse corso con quella bicicletta. Vasco mi confermò. Francesco aveva fatto la discesa del Monte Serra a tutta, con gli avversari che si dannavano per riprenderlo e non ci erano riusciti. Si era trovato benissimo a correre con quella bicicletta. “Meglio così”, pensai».
«Qualche giorno dopo andò al Gran Premio di Francoforte», ricorda il telaista toscano. «Arrivarono lui e Thurau e il tedesco lo batté in volata. Sulla Gazzetta il giorno dopo scrissero che Moser aveva corso con una bicicletta con misure da dilettante e quindi aveva mal di schiena e per questo è stato battuto… Quella stessa bicicletta che aveva fatto meraviglie in Toscana adesso sembrava inadatta in Germania».
Irio Tommasini è stato un fiume in piena nel raccontare la propria storia. Un fiume talvolta incontenibile così come incontenibili sono state le imprese compiute dai suoi telai, sia in ambito sportivo che imprenditoriale. È grazie ad artigiani capaci e visionari come lui che l’Italia può vantare, ancora oggi nel mondo, un prestigio inarrivabile quando si parla di telai che hanno fatto la storia del ciclismo.
A cura di: Marco Pasquini Web: inbarbaallebici.wordpress.com Si ringraziano: Irio e Roberta Tommasini , Moreno Bianchini, Andrea Martini