Ci sono ciclisti che lasciano il segno pur non avendo vinto molto nella loro carriera o non essendo diventati professionisti.
Pensiamo a Ernesto Vigna, padre dell’olimpionico Marino, o a Ettore Balmamion, zio del due volte vincitore del Giro d’Italia Franco. Appassionati pedalatori, faticatori della strada, che con le loro imprese e storie hanno influenzato le scelte e dato l’esempio per le generazioni successive.
A questa categoria appartiene Tito Brambilla, lombardo di San Vittore Olona, piccolo paese nella provincia di Milano, dove nasce il 7 ottobre 1897. Appartiene a quella generazione che ha vissuto sulla propria pelle la Grande Guerra, e come tanti coetanei è rimasto affascinato dalla bicicletta. Galetti, Ganna, Pavesi, i Moschettieri dell’Atala, il Diavolo Rosso Gerbi, “Manina” Cuniolo – solo per citarne alcuni – sono i loro eroi. La bicicletta è già entrata nella vita della famiglia Brambilla grazie a Cesare, cugino di Tito. Cesare è del 1885 (12 anni più vecchio), ed è stato campione italiano velocità nel 1902. Passato professionista nel 1905 nella Türkheimer, la sua miglior stagione è quella del 1906 quando, nella sorpresa generale, in sella a una OTAV (acronimo di Officine Türkheimer per Automobili e Velocipedi) vince il Giro di Lombardia, superando in volata il favorito e compagno di squadra Carlo Galetti (vittima di una foratura) e Luigi Ganna.
Quando Tito corre, tra i suoi compagni di squadra nella già gloriosa U.S. Legnanese c’è un ragazzo di Parabiago, Libero Ferrario (1901). I due fanno amicizia e diventano inseparabili compari di allenamento. È a Tito che Libero si rivolge quando ci sono allenamenti impegnativi da fare, contento della sua compagnia e del suo impegno. Giuseppe Saronni ci ha raccontato: «Con Ferrario andavano ad allenarsi e partivano per due giorni, dormivano in campagna. Si affidavano alla frutta dei campi per sfamarsi. Avevano amici sul lago Maggiore, verso il Mottarone. Seguivano la statale verso Arona e il Sempione, 100-150 km. Se pensiamo che all’epoca anche fare 10 km o andare in città era un viaggio verso l’ignoto, loro sembravano essere andati sulla Luna. Cose di altri tempi, erano degli eroi».
Corrono con Ugo Bianchi, poi fondamentale meccanico della Legnano guidata da l’Avocatt Pavesi e Binda. Oppure con Domenico Piemontesi (vincitore poi di 11 tappe al Giro d’Italia, del Giro di Lombardia e sarà terzo al traguardo dei 4 italiani al Campionato del Mondo di Adenau del 1927 vinto da Binda). Tito corre anche con Giuseppe Tragella, successivamente DS della Bianchi di Coppi.
Saronni: «Tito ha trascorso la sua carriera in bicicletta come corridore indipendente, di appoggio agli altri. All’epoca tutti lavoravano, erano tutti dilettanti, e per raggranellare qualche lira in più correvano. Lui aveva fatto la Grande Guerra ed era stato ferito dalla scheggia di una granata alla gamba sinistra, da allora camminava male. Nonostante questo riusciva a pedalare discretamente». Nel 1923 l’obiettivo di Ferrario è quello di partecipare al Campionato del Mondo di Zurigo, a cronometro. Deve quindi allenarsi per aumentare la resistenza per una distanza oltre i 150 km come quella prevista per il Mondiale. Il 13 maggio si iscrive con il compagno Tito Brambilla alla Cento Chilometri di Cremona, una cronometro a coppie.
CON LIBERO FERRARIO
Scrive Claudio Gregori in “L’Italia che vola”: «Il percorso nella Bassa è adatto ai passisti: Cremona-San Giovanni in Croce-Casalmaggiore-Bozzolo-Piadena-Cremona. Dopo un avvio veloce, Ferrario patisce una crisi nel tratto tra Bozzolo e Piadena. […] Libero riscatta, però, quell’eclissi con un finale meraviglioso. Così Ferrario-Brambilla vincono con 4’ di vantaggio su Bianchi-Carpani all’ottima media di 37,5 km/h». La forte coppia si iscrive anche alla Coppa Crespi, organizzata dalla loro società la U.S. Legnanese. Ferrario però è costretto a rinunciare. Successivamente Libero, dopo una sequenza di vittorie, riesce a essere prima selezionato per il Mondiale e poi a entrare nei 4 che compongono la squadra italiana. Ferrario vincerà il Campionato a Zurigo, primo italiano a vestire la maglia iridata su strada (come abbiamo raccontato su BE61).
Nella primavera del 1924 Brambilla partecipa alla Milano-Sanremo, classificandosi intorno alla quarantesima posizione. Meglio fa in autunno, quando ottiene un 16° posto al Giro di Lombardia (1924), quello in cui si mette in luce un giovanissimo Binda (sarà poi quarto), vinto da Brunero su Girardengo. Nel 1925 partecipa al Giro d’Italia, il primo conquistato dall’astro nascente Alfredo Binda, dove si classifica al 28° posto. Tito è uomo di fatica, si esaltano le sue doti di gran passista. L’anno successivo partecipa ancora alla Milano-Saremo classificandosi al 33° posto. Sarà individuale tra il 1926 e il 1928. Nel 1929 la famiglia Brambilla si allarga. Nasce Giuseppina, che sarà la mamma di Giuseppe Saronni (1957). Del nonno Tito, Giuseppe racconta: «Di lui ho un ricordo fin da allievo, mi ha seguito tra i dilettanti e nei primi anni di professionista. Mi ha visto vincere, anche bene. Mi aiutava nell’allenamento, quando facevo dietro motorino, e mi parlava delle avventure con Libero Ferrario». Di quegli allenamenti con Ferrario Tito menzionava al nipote un simpatico aneddoto: «Un giorno Libero si presentò con un frutto, raccontava Tito, che sembrava una zucchina. Gliela offrì e Tito ne mangiò due bocconi. Ricordava che dentro era dolce e fuori amaro. Ne rise con i compagni, aveva assaggiato la prima banana, una rarità per l’epoca».
Tito Brambilla fece in tempo a vedere tutti i più grandi successi del ben più celebre nipote, spegnendosi sempre in quel di Parabiago il 1° ottobre 1988.
A cura di: Marco Pasquini Web: inbarbaallebici.wordpress.com Foto: Archivio Fotografico Carlo Delfino, Beppe Saronni
L’ALTRO BRAMBILLA, PIERRE
È nipote di Cesare Brambilla (figlio di un fratello emigrato in Svizzera), nato nel 1919 e mantiene inizialmente la nazionalità italiana. Si mise in luce in Francia ancor prima di passare professionista e i risultati del 1939, tra cui la vittoria nella Lione-Grenoble-Lione, non fecero che confermare la sua fama. Si impose come corridore da corse a tappe (nel 1942 vinse l’undicesima tappa alla Vuelta a España) e come discreto scalatore, affermandosi nel 1943 nelle scalate del Mont Chauve, del Mont Ventoux e nel Tour de la Haute-Savoie. Nel 1947 partecipa alla spedizione italiana per il primo Tour de France del dopoguerra, sotto la guida del giornalista Guido Giardini (commissario tecnico pro tempore). Dopo un Tour combattuto, Pierre è maglia gialla prima dell’ultima tappa (269 chilometri da Caen a Parigi). In classifica generale comanda con 53″ sul compagno Aldo Ronconi e 2’58” su Robic. Nell’ultima frazione i francesi portano un attacco congiunto con Robic, Fachleitner e Teisseire. Brambilla va in crisi e conclude la tappa al 34° posto (con un distacco di 20’41”), scivolando al terzo posto della generale. Si impose, tuttavia, nella classifica scalatori. Non ottenne più risultati di rilievo da allora, terminando ancora undicesimo al Tour de France del 1950 e quarto al Critérium du Dauphiné Libéré dello stesso anno. E poi più nulla. Nel 1949 con decreto presidenziale aveva ottenuto la cittadinanza francese. Dopo il ritiro fu direttore sportivo per sei stagioni alla Liberia-Hutchinson, poi Liberia-Grammont.