Quella del Record dell’Ora è una storia dal sapore antico, una favola raccontata e tramandata fino ai giorni nostri.
Il finale di questa bellissima storia l’ha scritto il nostro Filippo Ganna con una prova epica e trionfale che l’ha portato a staccare, l’8 ottobre 2022 nel velodromo di Grenchen (Svizzera), la prestazione strepitosa di 56,792 km, miglior risultato di tutti i tempi a prescindere dal tipo di bicicletta utilizzato. Prima di lui, l’ultimo italiano capace di frantumare il Record fu Francesco Moser, che in quel 19 gennaio del 1984 a Città del Messico riuscì a infrangere il muro dei 50 chilometri orari per 808 metri, ripetendosi quattro giorni dopo con l’ormai famoso e sensazionale 51,151 km. Quel primato è considerato ancora oggi l’inizio del ciclismo moderno, il punto zero di una rivoluzione che cambiò il modo di concepire lo sport della bicicletta dal punto di vista tecnico, della preparazione e alimentare. Ma fu fondamentale anche da quello tecnologico e della ricerca, dato che in pochi anni si sarebbe arrivati ai cardiofrequenzimetri e alle biciclette “spaziali” che vediamo oggi, oltre che ai mezzi sperimentali che per decenni hanno caratterizzato la corsa dei campioni contro l’ora.
Ma ben prima di Ganna e Moser – e quindi profondamente negli anni del ciclismo d’epoca – altri italiani hanno segnato la storia del Record dell’Ora. I nomi sono importanti: Giuseppe Olmo, Fausto Coppi ed Ercole Baldini. Prima di raccontare le gesta di questi giganti della strada – in questo caso della pista – facciamo un salto nel tempo e andiamo a vedere come nasce il mito del Record dell’Ora.
CONTRO IL TEMPO
Le regole del gioco sono poche e piuttosto semplici: percorrere la maggior distanza possibile con la propria bicicletta in un’ora esatta di tempo. La partenza avviene da fermo, al termine del conto alla rovescia scandito da un giudice. La conclusione dello sforzo è determinata da un colpo di pistola durante il passaggio sul traguardo successivo allo scoccare dell’ora. Complessi calcoli portano a stabilire esattamente la distanza coperta nell’ultimo giro. Tutto questo deve avvenire all’interno di un velodromo, senza freni e con una bici a scatto fisso. Il protagonista è sempre un uomo sulla sua bici, che con i suoi sogni e suoi silenzi dovrà compiere quel viaggio che durerà un’ora, non un secondo di più, non un secondo di meno. Giro dopo giro la fatica, quella che fa male, si fa sempre più forte, i rumori diventano ovattati e il tempo passa inesorabilmente. Scrive il grande Giampaolo Ormezzano: «Il Record dell’Ora è, se si vuole, la prova massima sul piano psicologico per un ciclista che voglia dare una rotondità assoluta al suo personaggio, che voglia essere compiuto, rifinito, smussato da ogni angolatura».
I primi arcaici tentativi sull’ora risalgono alla preistoria del velocipedismo. Erano però tentativi isolati e senza un regolamento, né un organo super partes in grado di omologarli. Come quella volta, nel 1873, che James Moore percorse in un’ora 23,331 km su una pista di terra battuta di Wolverhampton. Si trattò più che altro di una scommessa per vedere fin dove si potesse spingere l’umana virtù. Per la cronaca, Moore era stato anche il vincitore della prima corsa per velocipedi, disputatasi al parco di Saint Cloud nel 1868. Nel 1876 fu il turno di un altro inglese, Frank Dodds, che sulla pista dell’università di Cambridge percorse 25,598 km con un Grand Bi dotato di una ruota anteriore gigantesca. Negli anni successivi altri avrebbero tentato imprese simili, ma solo Henri Desgrange – futuro patron del Tour de France e grande giornalista del periodico L’Auto – seppe attirare l’attenzione del pubblico e della stampa su di sé, portando la sua idea all’attenzione dell’Associazione Ciclistica Internazionale, l’antenata dell’odierna UCI. Desgrange stilò un regolamento, fece abilitare la sua bicicletta “safety frame” (stesso diametro per entrambe le ruote) e fissò la data del suo tentativo per l’11 maggio 1893 presso il nuovissimo velodromo Buffalo, a Parigi, una pista di 333,33 metri di sviluppo. In quell’occasione migliorò il record del chilometro da fermo, quello dei 19 chilometri e, dopo sessanta minuti, raggiunse la distanza di 35,325 km: era nato il Record dell’Ora.
I tentativi di battere il record si susseguirono poi numerosi negli anni a seguire. Da ricordare l’americano Willie Hamilton, che a Denver nel 1898 fu il primo ad abbattere il muro dei 40 orari, e lo svizzero Oscar Egg che per ben tre volte migliorò il record (1912, 1913 e 1914, con 44,247 km). È in questo percorso che si inserirono i nostri alfieri dell’ora: Olmo, Coppi, Baldini.
GIUSEPPE OLMO
28 ottobre 1935, alle ore 15, a Milano venne inaugurato il velodromo Vigorelli davanti a ventimila persone, per un incasso di 100.000 lire. L’impianto prese il nome dal suo promotore, l’assessore Giuseppe Vigorelli, noto industriale di Milano con un passato da buon pistard (ve l’abbiamo raccontato su BE56). La pista era lunga 397,37 metri, con una larghezza di 7,50 metri più uno della fascia di riposo. La ricoprivano listarelle larghe 5 cm e spesse 6 cm, che se allineate facevano un totale di 72 km. L’inclinazione nei rettilinei era di 6,57° e nelle paraboliche faceva segnare 42,5°. L’altezza massima in curva era di 5,10 metri. La direzione dell’impianto era stata affidata ad Anteo Carapezzi, ex-pistard e vecchio direttore del velodromo Sempione, e fu proprio lui ad accorgersi di quel ragazzo prestante che rispondeva al nome di Giuseppe Olmo, dato che nel pomeriggio del 30 ottobre del ’35 lo vide allenarsi e rimase impressionato dal brillante colpo di pedale. Così lo avvicinò e gli propose di provare il Record dell’Ora, anche perché, nell’ultimo anno Olmo aveva battuto più volte Maurice Richard nei tornei d’inseguimento, e quel ragazzo francese era il detentore del Record, conquistato due anni prima, con 44,777 km.
Giuseppe Olmo, classe 1911, era di Celle Ligure, un piccolo borgo incastonato nella riviera di ponente. Da piccolo lo chiamavano “Gepin”, un soprannome che lo accompagnerà per il resto della vita. Nonostante l’intransigenza dei genitori, a metterlo in sella fu Giuseppe Oliveri, vecchia gloria della pista italiana. I risultati non tardarono ad arrivare. Da dilettante, nel 1931, Olmo si classificò al secondo posto nell’unico Mondiale della storia disputatosi a cronometro, dietro al danese Henry Hansen. L’anno successivo conquistò l’oro a squadre alle Olimpiadi di Los Angeles e diverse altre vittorie piuttosto importanti. Dopo essere stato notato da Oliveri e ricevuta la proposta di provare il Record, Gepin decise che se avesse dovuto provarci, tanto valeva farlo subito, anche perché sentiva di aver raggiunto un tale picco di forma che sarebbe valsa la pena tentare a brevissimo.
Nel primo pomeriggio del 31 ottobre (tre giorni dopo l’inaugurazione), Olmo giunse al Vigorelli e iniziò a pedalare per mezz’ora alla ricerca delle sensazioni migliori. La condizione era eccellente, sentiva le gambe così come non le aveva mai sentite prima, ma restava ancora un nodo da sciogliere: quella mattina una pioggia fastidiosa, tipica dell’autunno milanese, aveva reso la pista scivolosa e non percorribile. Il cielo era ancora coperto e non prometteva nulla di buono, ma Olmo era deciso a provarci lo stesso, anche perché l’indomani sarebbe dovuto rientrare a casa per un periodo di scarico dopo una stagione estenuante, stracolma d’impegni e fatiche. La pista, però, versava in una condizione pericolosa. Oliveri allora ebbe un colpo di genio, e tra lo scetticismo generale ma con il benestare di Erminio Cavedini, uomo Bianchi, decise di riempire un innaffiatoio con della benzina e di cospargerla sulla pista. Quando le diedero fuoco, ottennero magicamente il risultato voluto: il fondo era finalmente asciutto. Vennero contattati la giuria e il cronometrista, che si presentarono poco dopo al velodromo, e fu inviato un brevissimo telegramma alle redazioni dei giornali milanesi, annunciando che quello stesso pomeriggio si sarebbe tenuto al Vigorelli un tentativo di record, senza specificare né la categoria né il nome del corridore protagonista.
Alle 15 era tutto pronto. Davanti ad alcuni amici e a un manipolo di curiosi, dopo qualche giro di riscaldamento, Olmo era pronto alla partenza al cospetto del cronometrista ufficiale, Ferruccio Massara, dei giudici Paolo Maraggia, Giovanni De Maestri, Guglielmo Ravizza, e di Armando Cougnet in rappresentanza della Federazione. La bicicletta era una Bianchi del peso di circa 8,5 chili, gomme leggerissime e un rapporto 48×14 con catena a passo Humber che sviluppava 7,32 metri a pedalata. Alle 15:18 il commendator Massara iniziò il conto alla rovescia e 10 secondi dopo Gepin Olmo, sorretto da Oliveri, iniziò la sua prova. La partenza fu piuttosto veemente, tanto che al quarto chilometro Olmo migliorò il record, ma Oliveri gli intimò di non preoccuparsi di battere i record parziali, perché la troppa foga non avrebbe pagato alla lunga. Qualche scettico iniziò a intravedere l’ombra di un nuovo fallimento in una disciplina da sempre ostile agli italiani e piuttosto generosa, invece, con i cugini francesi. Nemmeno Girardengo e Binda erano riusciti nell’impresa, e quelli erano campioni veri e riconosciuti.
Al quindicesimo chilometro arrivò la risposta: con 19,36 km venne polverizzato il record nazionale, che apparteneva proprio a Binda dal ’29. Al ventesimo Olmo era davanti a Richard di 4”, e dopo 75 giri il vantaggio era salito a 8”: ormai si trattava di un inseguimento alla storia. Con una strabiliante progressione nella seconda parte della prova, Giuseppe Olmo era il nuovo primatista dell’ora, sfondando per la prima volta nella storia il muro dei 45 km/h, con la distanza di 45,090 km. Un’impresa confezionata senza una preparazione specifica alle spalle, portando finalmente il Record in Italia e rompendo un muro di pregiudizi e perplessità, di complessi e paure.
La Gazzetta dello Sport, il giorno dopo, scrisse in prima pagina: «Giuseppe Olmo demolisce con 45,090 km il massimo mondiale dell’ora senza allenatori, conquistando allo sport dell’Italia Fascista un primato che pareva insuperabile». Nel frattempo, in Francia, l’anziano Henri Desgrange, tra le pagine de L’Auto, ammise: «Il giovane italiano ha proiettato nel nostro cielo sportivo il sole di un ammirevole record». L’ora era avvolta nel Tricolore.
FAUSTO COPPI
Correva l’anno 1942. Il Record dell’Ora era di proprietà di Maurice Archambaud detto il Nano, un parigino verace, passista autentico, statura da scalatore ma due cosce talmente possenti che i suoi tifosi dicevano che con quelle gambe avrebbe potuto spezzare anche il ferro. Si era in piena guerra mondiale e Fausto Coppi, 23 anni e caporale dell’esercito, stava svolgendo il servizio militare nella caserma Passalacqua di Tortona, presso il 38° reggimento di fanteria della divisione Ravenna. Fausto aveva vinto due anni prima l’ultimo Giro d’Italia disputatosi prima dell’inizio del conflitto. Partito come gregario di Gino Bartali, era arrivato in maglia rosa all’Arena Civica di Milano il 9 giugno 1940, proprio nel giorno della vigilia della dichiarazione di guerra italiana.
Nell’agosto del ’40 si era spento Henri Desgrange e il Vigorelli era diventato un centro di smistamento dell’esercito, dove venivano radunati i soldati per decidere poi dove spedirli sui vari fronti aperti dal Duce: Russia, Nord Africa e Grecia. I grandi giri erano stati sospesi ma il ciclismo in qualche modo continuava a vivere, anche se l’attività del Vigorelli era stata dimezzata per le ovvie ragioni appena citate.
Coppi, che nel ’42 aveva vinto il suo primo campionato italiano su strada, sentiva la guerra troppo vicina ed era consapevole che presto sarebbe toccato pure a lui partire per il fronte. Così pensò che l’unica possibilità per evitare tutto questo fosse quella di dimostrare di essere più utile al proprio Paese su una bicicletta piuttosto che con un fucile in mano. In quei mesi le aveva provate tutte, vincendo su qualsiasi terreno e contro ogni avversario, finché non gli restò che l’ultima vetrina per impressionare i superiori: battere il Record dell’Ora.
A incentivare Fausto sul tentativo fu proprio il suo mentore, Biagio Cavanna. «Tenta l’ora di Archambaud per commuovere chi di dovere», scrisse inoltre il grande Mario Fossati sulla Gazzetta, in quelle pallide giornate di fine ottobre. Anche gli appassionati volevano che fosse Coppi a provare quella sfida, e non Bartali, le cui apparizioni in pista erano state piuttosto sporadiche. E poi Gino era francamente nato per il corpo a corpo, non per girare per un’ora, da solo, in un velodromo. La sera del 24 ottobre, intanto, Milano aveva conosciuto il più grave bombardamento dall’inizio del conflitto: alle ore 17:57 settantatré Lancaster della Royal Air Force avevano riversato sulla città 135 tonnellate di bombe dirompenti e trentamila bombe incendiarie, con il risultato di 135 morti e 331 feriti. L’obiettivo sarebbe stato il Duomo, che ne uscì invece miracolosamente illeso, così come il Vigorelli. Fausto, che arrivò domenica 1° novembre per correre il Giro della Provincia di Milano, aveva ottenuto una settimana di licenza, così si trasferì in pianta stabile in città per preparare l’assalto al Record dell’Ora. Ormai era deciso.
Lunedì riposo assoluto. Martedì pedalò una trentina di chilometri per accompagnare il fratello Serse a una corsa a Seregno. Poi solo brevi uscite di 15 chilometri, su strada. Per evitare anche il minimo inconveniente digestivo, Coppi aveva iniziato a mangiare tutti i giorni gli stessi alimenti: un piatto di riso con verdura, un filetto, una ciotola abbondante di frutta secca, uno yogurt per dessert e niente vino, il tutto rigorosamente alla stessa ora. Si narra che il suo medico gli somministrò giornalmente piccolissime dosi di stricnina fino al giorno della prova. La data stabilita fu il 7 novembre, e quel giorno Milano si svegliò sotto una nebbia fittissima. La Prefettura aveva consigliato a Coppi e Cavanna di compiere il tentativo attorno alle 13, in quanto la possibilità di bombardamenti sarebbe stata minore. La prova comunque venne fissata alle 14, anche se la Gazzetta aveva annunciato di proposito che il tentativo si sarebbe disputato tra le 15:30 e le 16:31, in modo da evitare che una folla numerosa si accalcasse sugli spalti diventando facile bersaglio dei bombardieri inglesi.
Coppi, in quella solenne occasione, indossò la sua maglia verde oliva a 5 tasche, un paio di pantaloncini neri e slabbrati, calzini normali e le ormai vecchie e malridotte scarpette di cuoio: non voleva rischiare di trovarsi a metà strada con il male ai piedi. In testa gli avevano stretto un insolito caschetto di cuoio a strisce imbottite che pesava 600 grammi. La bicicletta Legnano era un modello assemblato dal meccanico Ugo Bianchi su un telaio in acciaio di Faliero Masi dal peso di 7,5 kg, con ruote di legno, e montava un rapporto 52×15 che sviluppava 7,38 metri. Tubolari in seta da 110 grammi per l’anteriore e 120 al posteriore, pedivelle da 17,1 cm che, come si diceva al tempo, dovevano corrispondere alla metà della lunghezza del femore dell’atleta. In realtà la Legnano – pur supportandolo – non era molto entusiasta di quel tentativo. Fausto veniva pur sempre da un infortunio serio e i vertici dell’azienda temevano un brutto fallimento.
Nel frattempo in corso Sempione era apparso un timido sole. Sul prato c’erano tutto il clan di Coppi e diversi personaggi illustri: l’Avocatt Eberardo Pavesi, Biagio Cavanna, il fratello Serse, Giovanni Cuniolo, Cino Cinelli, Tano Belloni; poi ancora il capo dei cronometristi, il commendator Massara, Emilio Colombo del CONI, Gelpi e Servegnini per la Federazione e molti altri personaggi importanti, tra cui un curioso Fiorenzo Magni (che proprio al Vigorelli due giorni prima aveva stabilito il record del mondo sui 50 km) in tenuta da allenamento. Sugli spalti cerano pure parecchi operai della vicina Alfa Romeo in pausa pranzo, giunti alla pista avvertiti dal megafono di un tifoso. Gianni Brera, nella sua cronaca, scrisse che Coppi negli attimi precedenti alla partenza aveva inghiottito cinque pastiglie di simpamina, uno stimolante derivato dall’anfetamina, mandando giù il tutto con un sorso di caffè bollente. Alle 14:12 il cronometrista Massara scandì gli ultimi cinque secondi finché al suono della campana il commissario Cattaneo tolse le mani dalla bicicletta.
Fausto partì veloce, forse troppo, ma non poteva fare altrimenti vista l’impossibilità di svolgere una prova generale nei giorni precedenti. Completò il primo giro in 33”, uno in meno di Archambaud, mentre il primo chilometro venne percorso in 1’17”. Dopo 11 giri il suo ritmo cominciò a calare, ritornando in parità con il francese, e dopo 48 giri era dietro di 6”, con Pavesi che aveva iniziato a fumare nervosamente la sua pipa di radica. «Tranquilli si riprenderà», sentenziò Cavanna, mantenendo dietro agli occhiali scuri un’espressione impassibile. Non si sbagliava. Coppi iniziò lentamente a limare lo svantaggio e alla mezz’ora aveva percorso 22,946 km contro i 23,007 di Archambaud: solo 4” di ritardo.
Mentre Emilio Colombo gli gridava che doveva vincere per il Duce, Coppi mise la mano nella tasca posteriore per prendere il rinforzo di caffè, zucchero e quant’altro da una boccetta di vetro opaco. Gli ultimi 30 giri furono una sofferenza, sia per Coppi sia per chi lo osservava: guadagnava metri preziosi in un giro per perderli poi in quello successivo. A ogni curva sfiorava pericolosamente i sacchetti di sabbia in modo da percorrere meno strada possibile. Dopo una lunga rincorsa, al settantaduesimo giro, Fausto appaiò Archambaud.
«La figura del corridore s’è plasmata nella ritmica di un movimento esatto fino alla monotonia, costante fino all’incubo», scrisse l’indomani il direttore della Gazzetta Bruno Roghi nel suo editoriale. Nove giri più avanti e dopo quarantun minuti di prova, Coppi era in vantaggio di due decimi. Ormai sembrò aver spiccato il volo arrivando al novantacinquesimo giro a ben 2”03 di margine. Dopo cinquantatré minuti tornò però nuovamente in parità. «Tutto da rifare», come diceva il suo rivale Bartali, perché Fausto al giro successivo tornò clamorosamente in vantaggio per un secondo. Quando mancavano 7 minuti, lo speaker diede l’ultimo incitamento: i minuti più lunghi della vita di Fausto. Al centododicesimo giro i due campioni erano ancora pari, dopodiché dopo la curva delle tribune Coppi si alzò per un attimo sui pedali come scosso da un sussulto: ogni pedalata era diventata un colpo d’ali.
«La bici di Coppi non è più un agile veicolo a due ruote che asseconda l’impulso del suo cavaliere. È un proiettile che l’atleta scaglia davanti a sé per colpire il bersaglio del primato», avrebbe proseguito Roghi nel suo resoconto. L’ora scoccò quando il campione aveva percorso 115 giri e 151 metri, che tradotti in chilometri facevano 45,871 km, ossia 31 metri in più di Archambaud. 103,3 pedalate al minuto. Fu un vero e proprio “Miracolo a Milano”, parafrasando il grande film di Vittorio De Sica che sarebbe uscito nel ’51. Il primo a soffocarlo di abbracci fu il fratello Serse, e il primo a stringergli la mano fu un certo Novaresi, un estroverso borghesotto milanese in cravatta, che estraendo un voluminoso portafoglio dalla tasca gli porse un biglietto da 1.000 lire. «Tieni Fausto, te lo meriti davvero», disse con aria visibilmente soddisfatta. A quei soldi si sarebbe aggiunto un cospicuo premio di 25.000 lire messo in palio dalla Legnano, che si sarebbe assicurata un grosso ritorno d’immagine nei mesi successivi. «Forza e volontà della razza italiana», titolava il giorno seguente la Gazzetta: si continuava a parlare di razza e di guerra, dato che il resto delle notizie riguardavano i contrattacchi delle truppe dell’asse. «È andata quasi bene», aveva confidato il campione tra gli abbracci del fratello. «Me la son vista brutta a metà percorso, quando ho dovuto lottare con tutte le mie energie contro la crisi che mi paralizzava le gambe, i garretti, le braccia, la testa, tutto. Poi improvvisamente, mi sono tornate le forze e il sangue nelle vene. Doveva finire così. Sono contento per la mia famiglia e specialmente per il mio colonnello Camillo Butti, che mi aiuta in tutti i modi».
La guerra, però, lo stava aspettando al varco: dieci giorni dopo il Record, Coppi fu imbarcato sulla nave che lo condusse a Castelvetrano in provincia di Trapani. Vani furono gli ultimi tentativi: il Campionissimo finì soldato in Nord Africa e di lì prigioniero di guerra. Coppi non provò più nella sua carriera il Record dell’Ora, che resistette ben 14 anni. Glielo tolse Anquetil con 46,159 km nel ’56. A Rino Negri disse: «Sai perché non penso più al Record? Perché non voglio più sentire nelle orecchie quel micidiale suono della campana a ogni giro. Il tormento dell’ultimo quarto d’ora era stato terribile». Ma se ne pentì.
ERCOLE BALDINI
Dopo 14 anni dal record di Fausto Coppi, come appena anticipato, il primato ritornò in Francia passando nuovamente per il Vigorelli. Il 29 giugno 1956 Jacques Anquetil fece registrare, come detto, il nuovo primato e diventò il nuovo padrone dell’ora. Lo scettro tornò nuovamente in mano ai francesi, cosicché le italiche speranze ricaddero su un romagnolo tanto verace quanto atipico, piuttosto posato e riflessivo, tant’è che il noto cronista Orio Vergani lo avrebbe ribattezzato “il ciclista riflessivo”.
Ercole Baldini, classe 1933, forlivese di Villanova, aveva ricevuto il nome dal nonno che si spense quattro giorni prima della sua nascita. Baldini cominciò a correre a 15 anni e dimostrò fin da subito delle eccellenti doti da passista. Il 30 ottobre del 1954 conquistò di prepotenza il Record dell’Ora nella categoria dilettanti con 44,026 km, battendo il precedente record di Franco Aureggi e andando molto vicino al primato assoluto che al tempo apparteneva ancora all’Airone. La Gazzetta del giorno dopo nel titolo scriverà: «Baldini minaccia Coppi». Nonostante il primato, però, i successi necessari per spiccare il volo tra i professionisti stentavano ad arrivare, e nel ’56 Baldini si diede un ultimatum: se quella stagione non fosse andata secondo le previsioni, avrebbe mollato il ciclismo. Nel frattempo era passato dalla Nicolò Biondo alla Gilberti Borelli, anch’essa di Carpi ma sicuramente più blasonata. Qualcuno della nuova squadra intuì che un corridore con il fisico possente come il suo fosse limitato per le gare su strada. Baldini, che rasentava gli 80 kg di peso, era tagliato per le prove su pista, soprattutto per l’inseguimento, così l’allora commissario tecnico dei dilettanti su strada, Giuseppe Proietti, propose l’idea a Guido Costa, il CT più vincente del ciclismo italiano. I due tecnici romani unirono le forze e misero Ercole in pista con l’intento di migliorarne la guida in vista delle cronometro su strada. D’altro canto, correre su strada gli avrebbe dato il fondo necessario per le prove di resistenza nei velodromi.
Nonostante la poca dimestichezza con gli anelli, Proietti iscrisse immediatamente Baldini al campionato nazionale d’inseguimento, dove batté tutti gli avversari vincendo in finale contro quello specialista fortissimo che rispondeva al nome di Leandro Faggin. Costa e Proietti, però, dopo quel successo ruppero paradossalmente l’intesa, poiché iniziarono a contendersi il ragazzo, che avrebbe potuto fare le fortune delle rispettive nazionali. Alla fine si trovò un accordo: Costa se lo sarebbe portato ai Mondiali su pista a Copenaghen, mentre Proietti l’avrebbe avuto a disposizione per le Olimpiadi di Melbourne.
Ai Mondiali danesi, Baldini arrivò in finale, guarda caso nuovamente contro Faggin, laureandosi campione del mondo in quella che era stata a tutti gli effetti un’autentica e combattuta rivincita. La freschezza che ostentava Baldini al termine delle prove mondiali aprì nuovi orizzonti nei programmi di Proietti, che iniziò a fiutare seriamente la possibilità di attaccare il record di Anquetil.
Baldini in quel momento era ancora dilettante sulla carta, ma aveva già l’accordo con Pavesi per passare professionista con la Legnano la stagione successiva. L’unico particolare che lo differenziava da Anquetil, più giovane di un anno, era la dicitura sul tesserino: “dilettante” e non “professionista”. Guido Costa si accordò così con il patron del Vigorelli, Vittorio Strumolo, per far svolgere la prova il 19 settembre 1956.
Baldini arrivò a Milano una settimana prima e iniziò da subito a fare le prove generali, prendendo piano piano confidenza con la pista e facendo registrare senza troppa fatica i nuovi primati mondiali sui 10 e 20 km. «Proietti mi chiese se avessi intenzione di andare avanti e provare l’ora», ricorda Baldini. «Io mi sentivo così fresco che ero certo di poter reggere tranquillamente per un’altra ventina di chilometri».
La mattina del grande giorno, Ercole si svegliò scrutando titubante il cielo, con l’allenatore che, sapendo come prenderlo, lo rassicurò garantendo che per l’ora della prova il vento sarebbe scomparso. La spavalderia cominciava a far posto alla paura. Dopo una colazione a base di caffellatte, senza proferire alcuna parola per la tensione, Baldini si mise nelle mani del massaggiatore Bartoli. Alle 8:30 uscì per una sgambata di 30 km per le strade della città, all’epoca facili da pedalare in bicicletta. Nel frattempo Proietti era rimasto in albergo a studiare le tabelle, dando l’appuntamento al suo pupillo alle 11:45 per collaudare in pista le ruote speciali che il meccanico della Legnano, Marnati, gli aveva portato direttamente dallo stabilimento di Porta Genova.
Come Coppi, anche Baldini avrebbe usato una bicicletta dei “ramarri”: il peso era di 6,45 kg, tre etti e mezzo meno di quella di Anquetil. Il telaio verde oliva aveva un’altezza di 60 cm, il manubrio era ricoperto da un nastro rosso. Le pedivelle erano lunghe 17,5 cm, le ruote da 32 raggi pesavano 750 grammi l’anteriore e 800 la posteriore, mentre i tubolari erano più leggeri rispetto a quelli del francese. Il rapporto usato era lo stesso degli ultimi due primati, un classico 52×15. Con quella bicicletta nuova fiammante, Ercole iniziò l’ultima prova, con Proietti che suonava la campana ogni 31 secondi come recitava la tabella, il Treno di Forlì riuscì facilmente a rispettare quei tempi sebbene indossasse i pantaloni della tuta. Alle 12.20 rientrò in albergo (in bicicletta) per un piatto di spaghetti e per isolarsi in camera in modo da trovare la concentrazione davanti ai giornali che parlavano del suo tentativo. Alle 16:50 entrò nello spogliatoio e 5 minuti più tardi uscì in pista, dove lo attendevano 5.000 persone sugli spalti, ma dopo 15 minuti ridiscese negli spogliatoi, impallidito. L’idea del vento continuava a ossessionarlo. Proietti provò a rasserenarlo con scarso esito. Qualche istante dopo, il giudice Giovannone invitò tutti a uscire.
Tornato all’esterno, il giovane corridore venne accolto da un boato assordante, con la gente sugli spalti che in dieci minuti era triplicata: 15.000 persone riempivano il grande anfiteatro del Vigorelli, mentre altrettanti tifosi erano stati bloccati all’ingresso perché non c’era più spazio. Nella testa di Baldini però ritornavano alla mente le parole dei giornalisti e degli addetti ai lavori, che dicevano che quella sarebbe stata un’impresa quasi impossibile. Con il dottor Strumolo non furono presi accordi contrattuali e di quei 15.000 paganti Baldini non vide una lira. Ma l’impegno verso i tanti tifosi presenti era fortissimo. La gente dagli spalti continuava a incitare il corridore forlivese e sul parterre c’erano i campioni Antonio Maspes, Learco Guerra e il concittadino Glauco Servadei. E poi ancora Cino Cinelli, che nel frattempo era diventato un affermato costruttore, il CT dei professionisti Alfredo Binda e il presidentissimo della Federazione, Adriano Rodoni.
Alle 17:47 Baldini iniziò l’allineamento alla partenza col caschetto in testa, addosso la maglia iridata dell’inseguimento e i pantaloncini della Gilberto Borelli. Sorretto dal giudice Maraggia attese il colpo di pistola e partì. Dopo un minuto vennero svelati i dati climatici della serata: 17,2° nell’aria, 19° sulla pista e 81% di umidità. Al passaggio del decimo chilometro Baldini era in vantaggio di 5” e 2 decimi, e al quindicesimo di 8”. Tra il 26° e il 28° giro il ragazzotto ebbe una leggera flessione. Si riprese velocemente e al ventesimo chilometro passò in vantaggio di 12”, divenuti 24” al trentesimo e 27” al quarantesimo. Fu una cavalcata trionfale, uno dei giorni più felici del Vigorelli e dello sport milanese. Ogni due giri Proietti gridava «Respira!», raccomandandogli di non farsi trasportare dalla foga. Nel frattempo Strumolo ordinò a Belloni di far accendere i fari così che il velodromo, illuminato a giorno, sembrasse ancora più pieno. Dopo 102 giri Baldini toccò il massimo vantaggio con 30” prima di cederne 5” nelle ultime tornate. Quando mancavano 8 minuti alla fine tutti erano ormai certi del trionfo. Il giudice Farina abbracciò Proietti, i giornalisti francesi stingevano le mani a quelli italiani: potere del Vigorelli, che in quegli anni sapeva unire i due popoli come nessun altro contesto. «Due giri, un giro… il delirio è tempesta. E Baldini, sommerso, ha ancora nei polmoni tanta voce per difendersi dall’assalto che fa paura. Poi il giro d’onore. L’urlo della folla non si placa. Il foglio del nostro taccuino che vola nell’aria. E qui il delirio sfiora la follia», scrisse Gianni Cerri sulla Gazzetta.
Nell’editoriale del giorno seguente il giornale milanese titolò “Prodigio al Vigorelli”: il Treno Baldini aveva percorso in un’ora 46,393 km, arrivando con 234 metri d’anticipo alla stazione della gloria. Negli anni successivi Baldini tenne sempre a precisare di essere riuscito a battere il Record al primo tentativo, a differenza di Anquetil che ci riuscì solo al terzo assalto.
L’ora di Ercole Baldini si era conclusa trionfalmente al crepuscolo, illuminato da migliaia di fiaccole che la folla festante aveva improvvisato dando fuoco ai giornali arrotolati. Il suo magico ’56 però non era ancora finito. Nei due mesi che lo separavano dai giochi Olimpici vinse cinque corse, tra cui la Milano – Bologna, e il 7 dicembre a Melbourne conquistò la medaglia d’oro da favorito, tanto che a fine stagione fu insignito del trofeo “Edmond Gentil”, il massimo riconoscimento per un ciclista dell’epoca, che per la prima volta veniva assegnato a un dilettante. Dopo quel ’56 da favola, l’Avocatt Pavesi mantenne la sua promessa ingaggiandolo alla Legnano, e nel giro di due anni vinse il Giro e il Mondiale su strada.
Giuseppe Olmo, Fausto Coppi, Ercole Baldini. Poi Francesco Moser ad aprire una nuova epoca e infine il prodigio di Filippo Ganna: il Record dell’Ora è una storia italiana!