La vera forza di Tullio Campagnolo era nel saper vedere più lontano di altri. Andava a dormire appoggiando sul comodino del letto un notes e una matita. Capitava che si svegliasse la notte, accendesse l’abat-jour e appuntasse su carta un’idea, uno schizzo, due righe per fissare quell’illuminazione che l’aveva visitato, tra il sonno e la veglia. L’indomani, al bancone d’officina un tempo, e poi in uno dei reparti del grande stabilimento che aveva messo in piedi in decenni di lavoro, metteva alla prova insieme ai suoi collaboratori la bontà di quei flash d’invenzione: spesso restavano le idee restavano idee, ma molto più che qualche volta diventavano modelli, e poi brevetti, e poi prodotti.
Tullio aveva fin da ragazzo un senso spiccato per i metalli: li sentiva, li manipolava, li plasmava come se fossero forma viva, sensibile, reattiva alle sue sollecitazioni. Prorpio per questo aveva in grande considerazione la qualità dei materiali. Voleva solo materie prime di prima scelta. Un giorno, irritato perché un cliente gli obiettava, lagnandosi, che i prodotti Campagnolo era molto più cari degli altri sul mercato, Tullio, grande istrione, s’inventò questo coup de theatre. Era una giornata scura di pioggia battente, uscì dal negozio e, mettendosi ben in vista del cliente che lo scrutava perplesso dalla vetrina, rimase dieci minuti in mezzo alla strada sotto la pioggia incessante, senza ombrello, soltanto con cappotto e cappello a proteggerlo da Giove pluvio. Poi rientrò. Si tolse il cappello, si levò il cappotto. Testa e abito erano perfettamente asciutti. «Il mio cappello e il mio cappotto – disse – costano il doppio di quelli che ti metti tu. E come vedi, c’è un motivo. Ecco, ficcati intesta che lo stesso discorso vale anche i miei prodotti: se costano di più è perché valgono di più». Il cliente, ammirato da tanta persuasiva teatralità, firmò l’ordine.
Ma Tullio sapeva che non bastava saper pensare, inventare e produrre il meglio. Bisognava anche farlo conoscere e, soprattutto, vendere. Anche in questo l’orizzonte di Campagnolo era molto più vasto della concorrenza. Il mondo delle corse era il suo campo di battaglia preferito. E i motivi erano due: il primo, perché le corse erano il miglior banco di prova dell’efficacia dei suoi prodotti. Come la Formula 1 è l’incubazione sperimentale di ogni innovazione tecnologica del mondo dei motori, prima che diventino standard di mercato, così le grandi corse ciclistiche erano, e in verità lo sono ancora, il laboratorio determinate per verificare se un prodotto funzionava bene oppure no. Tullio avvicinava i corridori e chiedeva loro i riscontri diretti della loro esperienza sul mezzo meccanico, e accuratamente annotava ogni reazione, ogni suggerimento, ogni umore. E poi si raccomandava: «E zitti con gli altri!», quasi un’intimazione di esclusiva.
Quando infine un prodotto era pronto per essere commercializzato, allora il corridore, specie se era un campione, diventava l’obiettivo della sua strategia commerciale. Tutti i più grandi campioni, da Bartali a Bobet, da Van Steenbergen ad Anquetil, da Adorni a Merckx, furono uomini Campagnolo. E Tullio, anche in questo, non lasciava niente al caso: corridore lui stesso nell’animo, i corridori sapeva corteggiarli e adescarli, a volte con generosità da grande magnate, a volte con volitiva determinazione. All’apice dell’epoca d’oro del ciclismo, ovvero nei primi anni del secondo dopoguerra, Tullio sapeva che il suo successo imprenditoriale non avrebbe potuto fare a meno di lui, del Campionissimo, di Fausto Coppi.
Coppi, e la Bianchi, utilizzavano già il cambio Campagnolo nei primi anni del dopoguerra, ma nel 1949 Coppi, convinto da un lauto ingaggio dal patron Lucien Juy, scelse di montare il francese Simplex e con quel cambio portò a termine la leggendaria doppietta Giro-Tour. Ma Tullio non si diede per vinto: il grande Fausto non poteva sfuggirgli così. E allora rilanciò. Per la stagione seguente sottopose al Campionissimo un contratto da capogiro per l’epoca: un triennale da 23 milioni di lire. Come racconta Gianni Brera, nel suo “Il gigante e la lima”, biografia un po’ romanzata di Campagnolo, la trattativa non fu semplice, ma finalmente, dopo un incontro a Milano, Tullio la spuntò. Convinse il Campionissimo impegnandosi a versare un anticipo di 5 milioni, con assegno allegato al contratto da controfirmare e gli spedì una raccomandata, senza intestazione, dice Brera, «perché non trovasse corda lo spionaggio della concorrenza». Ma la risposta tardava ad arrivare.
Allarmato, paròn Tullio, dopo un po’ di giorni fece chiamare Coppi. Gli dissero che era fuori per l’allenamento e che provasse a cercarlo al numero della casa della madre, a Castellania. Lo trovarono e Coppi stupì: non aveva ricevuto davvero nessuna lettera, e non aveva quindi incassato nessun cospicuo assegno. A Tullio vennero i sudori freddi. «Ma come, non è possibile…» balbettò, «la missiva è stata spedita già da parecchi giorni…». A Coppi venne un dubbio. Si precipitò allora a Novi, dove un segretario gli teneva la corrispondenza, fittissima di centinaia di richieste degli ammiratori, una fotografia, un autografo, o meglio ancora tutte e due…
La lettera “pesante” di Campagnolo era finita proprio «dove si ammucchiano le fanfaluche dei tifosi», come scrive Brera. Per fortuna «le dita lunghe di Fausto cavarono fuori l’assegno sgualcito ma integro». Coppi richiamò subito Campagnolo, tranquillizzandolo. E da quel momento il nome del Campionissimo si legò per sempre al celebre marchio della ruota con le ali.