«Come corridore fu un cavaliere dell’ideale sino all’ultimo giorno. Io ricordo quel giorno. Dovendosi ritirare per sempre, andò a scegliere la cima del colle di Vars.
Si sarebbe vergognato di ritirarsi a valle. Quella grande montagna del Tour, a ripensarci, diventò il piedistallo del suo monumento». Chi scrive è Bruno Raschi, che immortala in modo encomiabile Luison Bobet, uno dei corridori più amati di Francia. Se è vero che il destino non sceglie mai a caso, allora potremmo pensare che il fatto che questi due grandi se ne siano andati nello stesso anno, il 1983, non sia una combinazione. Infatti, proprio quarant’anni fa se ne andava Bruno Raschi, una delle penne più poetiche, leali, rigorose e prolifiche (solo in Gazzetta oltre 3000 articoli) che il ciclismo, ma potremmo dire lo sport tutto, abbia mai avuto. Uomo senza fronzoli o complimenti, che sapeva vivere di poche ma essenziali regole. Non è un caso che il palazzetto dello sport di Parma, teatro dei successi della Maxicono Parma sia stato intitolato al giornalista di Borgo Val di Taro: il Palaraschi, appunto.
Il percorso scolastico di Bruno fu influenzato dallo zio paterno. Mamma Letizia si convinse che la vita da seminarista potesse offrirgli delle buone opportunità. Lo zio, che si trovava a Torino, convinse la madre a iscriverlo presso l’istituto “Fratelli delle Scuole Cristiane”, con l’intento di evitare a Bruno i vincoli imposti dalla vita da seminarista. Bruno, oltre alle lettere e allo sport, amava il canto e il pianoforte. I primi passi nel giornalismo sportivo gli servirono per mantenersi agli studi. Raschi amava dire: «Se ricordare è vivere, noi vivremo ricordando», e questo vogliamo fare anche noi di Biciclette d’Epoca ricordando un uomo che il 1° ottobre del 1959 mise piede nella sede della Gazzetta dello Sport.
Raschi arriva alla rosea dopo una gavetta importante fatta a Tuttosport sotto l’ala protettrice di Carlo Bergoglio, per tutti Carlin, già vicedirettore del quotidiano torinese dal 1945 al 1949, quando ne prese le redini andando a sostituire Casalbore, tragicamente scomparso nel disastro di Superga. E anche per Raschi la scomparsa del proprio direttore è legata al passaggio al quotidiano milanese, dove trova un altro gigante del giornalismo italiano, quel Giuseppe Ambrosini famoso ai più per aver scritto il libro “Prendi la bicicletta e vai”, un manuale che per decenni ha accompagnato generazioni di ciclisti.
Ambrosini spinge subito Raschi in mezzo alla bolgia delle corse, come un torero dentro l’arena. Il debutto avviene al Giro dell’Emilia. È il 1° ottobre del 1959. Vince Ercole Baldini, romagnolo pure lui, ma è il 4 gennaio dell’anno seguente, il 1960, che Raschi mette sul piatto tutte le doti di cantore del ciclismo. L’evento è quello che per tutti ha rappresentato uno spartiacque nella storia di questo sport: la morte di Fausto Coppi. Un pezzo da antologia che sarebbe inopportuno andare a ricordare scostandosi di una sola virgola da ciò che andremo a riportare nelle sue parti salienti: l’inizio e la fine. Un pezzo circolare come una corsa che parte e si conclude nello stesso luogo:
L’Incontro con l’ammiraglia
Castellania, 4 – Ed ora tutto è compiuto. Abbiamo visto Coppi salire l’ultima erta, quella che porta al piccolo cimitero di Castellania in cima al colle di San Biagio. Da poche ore Egli riposa quassù, nell’infinito silenzio che sigilla la vita, fra campi teneri di grano, sotto le grandi ali del perdono di Dio… Quando giunse al bivio del cimitero la sua sosta diventò più lunga e dolorosa. Cercammo di indovinare il perché e fu allora che, spartendo con gli occhi la folla e guardando al di là della strada, restammo colpiti da una visione improvvisa e quasi irreale per la ridda di ricordi gioiosi e crudeli che condusse vivi nella nostra dolorosa fantasia: la sua “ammiraglia”, la sua vecchia ammiraglia biancoceleste che per anni lo aveva scortato come un invulnerabile carro guerriero in tante vittoriose battaglie. Arrugginita e nuda, con gli scheletri di metallo deserti di ruote, essa giaceva affondata nel fango come un antico favoloso trofeo.
“Bianchi S.9” – MI 50882 – 36° Giro d’Italia. Alto sul parabrezza, con il megafono incollato alla bocca ci parve di vedere il povero Tragella incitare il suo campione verso la conquista dell’ultima vetta.
Tutto, tutto vero. Al bivio del camposanto i due morti s’incontrarono e si sorrisero. E tutti, intorno, si misero a piangere. (5.1.1960)
SCRITTURA VELOCE
Una caratteristica di Bruno Raschi era che non aveva bisogno di rileggere e correggere i propri articoli, gli bastava meditare un attimo e poi via, la penna scorreva nel foglio come per magia senza dubbi o incertezze. Ma Raschi sa essere polemico quanto poetico, vorrebbe un ciclismo meno corrotto e contaminato da facili soldi e lancia i propri strali anche dal palco del “Processo alla tappa” di Zavoli, ma sempre con toni garbati, mai provocatori.
Raschi spesso è allineato con lo storico patron del Giro d’Italia, Vincenzo Torriani, uomo coraggioso e innovativo, come quando decide di inserire il Muro di Sormano nel Giro di Lombardia. Dopo aver aggiunto il Poggio nel finale della Sanremo, ecco che tocca alla “Classica dalle foglie morte” (sua la definizione). Nel settembre del 1960 Torriani, Raschi e Rino Negri, accompagnati da Cantoni che guida, si recano in ricognizione verso il Muro, segnalato da quella vecchia volpe di Eberardo Pavesi, “l’Avvocatt”. Negri dall’alto della sua esperienza sentenzia: «Ma qui, i corridori saranno costretti a salire a piedi, in bici non ce la faranno mai!». Queste parole saranno musica per le orecchie di Torriani che vede il Muro come un’opportunità per ridestare interesse sulla gara. Favorevoli all’inserimento anche Ambrosini e Magni, quest’ultimo facente parte della commissione professionisti. Contrari la gran parte dei corridori, con i quali Raschi più volte era entrato in polemica. Ed è lo stesso Raschi a convincere gli atleti e l’opinione pubblica della bontà del progetto.
Il Muro rimarrà per tre anni, con le vittorie di Daems, Taccone e De Roo, quando poi ci si rese conto che le spinte del pubblico falsavano il risultato finale. Qui ancora Raschi, con parole sagge ed equilibrate disse:
«Senza il Muro di Sormano ed il conseguente spostamento del traguardo a Como, il Giro di Lombardia sarebbe continuato ad essere una corsa a inseguimento con esito scontato… Ora, tre anni di vicende sono sufficienti a dimostrare l’assoluta validità tecnica e suggestiva delle innovazioni. Il problema è ora solo quello di difenderle, di garantirle. Siamo stati testimoni afflitti di quanto è successo sabato e vi confessiamo di averne provato autentica vergogna. Sul Muro di Sormano non c’è più stata corsa ma un’autentica corrida. La folla, oltre che il contegno, sembrava aver smarrito il senno, come succede a Pamplona il giorno della festa dei tori. Con melanconico eccesso potremmo considerare la morale salva soltanto pensando che le irregolarità siano tornate a profitto universale, a beneficio di tutti. Ma questo è un concetto di comodo che non può appartenerci». (23.10.1962)
Stessi toni, o forse addirittura più forti, Raschi li usa a proposito di quanto successo nella tappa Udine – Tre cime di Lavaredo del Giro 1967, allorché, tra fango, pioggia, nevischio e vento gelido, i tifosi balzano in mezzo alla strada e spingono i corridori. La tappa, vinta da Gimondi («che sta in bici come su un trono»), viene annullata e Raschi l’indomani scriverà: «Il Giro d’Italia ha scritto quest’oggi la pagina più triste, forse, della sua lunga storia… Per colpa di un pubblico assolutamente irresponsabile… Così estraneo alla realtà di uno sport che è soprattutto un mestiere, e che è stato profanato al di là di ogni limite di concorso di un furore collettivo, privo di senno e privo di coscienza».
“Il Professore”, questo il suo primo appellativo per aver insegnato a Torino presso i Salesiani, diventerà col tempo “il Divino”. Alla Gazzetta tutti gli davano del Lei, tutti tranne Maurizio Mosca. Ma il 1960 sarà un anno di grande fermento. Ad Ambrosini succede infatti Gualtiero Zanetti (lo affiancherà da aprile ’60 a giugno ’61) e Raschi, giornalista duttile e capace, racconterà anche le Olimpiadi di Roma. Ma non si pensi che Raschi non voglia bene ai corridori: per lui i gregari sono compagni e quando il conterraneo Adorni vincerà il Giro d’Italia nel 1965 quello sarà «Il rosa più bello dopo quello di Coppi». I corridori sono consapevoli che una vittoria raccontata da Raschi diventa più importante, una storia destinata a rimanere più a lungo nel tempo. Parole d’amore per Adorni anche dopo la vittoria al Campionato del Mondo di Imola ’68: «Vittorio Adorni è campione del mondo. Sembra essere il suo, un arcobaleno immenso, disegnato nel tempo, nello spazio storico di dieci anni. Da tanto stavamo ad attenderlo. Anche per questo, esso acquista per noi colori indelebili».
UNA PENNA UNICA
Ma Parma tornerà nuovamente al centro della ribalta l’anno successivo, quando nella Parma – Savona il grande Eddy Merckx risulterà positivo a un controllo antidoping ed estromesso dalla corsa rosa: «… È un caso clamoroso, madornale, diciamo pure assurdo. Ma la legge, di fronte alla sua oggettività, non può deflettere, deve contemplare anche l’assurdo. Dove essa finisce, comincia l’accademia di chi vuol discuterla, trasferendo il regolamento sul piano dell’opinione personale». Raschi è al seguito delle grandi corse a tappe, non solo il Giro ma anche il Tour, e ha sempre le parole giuste per tutto e per tutti. Dirà di lui sempre Adorni: «Sapeva scrivere di tutto. Ho sempre avuto l’impressione che fosse stato catapultato nel ciclismo quasi per caso, poi se ne appassionò e ne divenne il cantore». In Gazzetta in tutte le stanze c’erano delle piccole insegne che indicavano il ruolo delle persone che le occupavano ma senza il nome, per cui si poteva leggere direttore, caporedattore, ecc. Ma per lui no. Fu deciso col tempo di mettere una targhetta personalizzata: Bruno Raschi.
Ma dicevamo, il Tour. Anquetil, il primo a vincerne 5 edizioni, abbandona l’attività nel 1969 e Raschi, che nel frattempo è stato promosso a redattore capo, descrive magistralmente la carriera (e la vita) del Normanno che all’esordio ebbe parole d’elogio da Coppi: «Lo tenga d’occhio, è più bravo di me», rivolto a Torriani. E ancora: «Pregate che quello continui a vivere spensieratamente, poiché in caso contrario dovrete correre soltanto per arrivare secondi», sempre il Campionissimo a colloquio con Rino Negri. Raschi con due pennellate ce lo descrive alla perfezione: «Anquetil è stato campione unico e senza analogie, eccezionale in tutto, nel bene e nel male, nella qualità e nella forma, nell’orgoglio e nella pigrizia… Ha programmato sempre tutto, non ha sciupato nulla, uno sforzo in meno anziché uno sforzo in più… Non v’era rapporto, in lui, fra cervello e cuore, e per questo il pubblico, quello francese soprattutto, riuscì soltanto ad ammirarlo, ma ad amarlo mai».
Memorabili i suoi pezzi sui Mondiali, quelli vinti da Merckx e quelli… persi da Merckx! Ma Raschi legge lo sport e le vicende dei suoi protagonisti così bene che negli anni scriverà anche di calcio e di pugilato, di Formula 1 e di atletica leggera. Prima che una tremenda malattia decidesse di mandarlo in cielo troppo presto, ebbe modo di scrivere dei duellanti per antonomasia degli Anni ’80, Moser e Saronni, ma sempre facendo trasparire nei suoi racconti l’umanità e il sentimento, e non i numeri e la tecnica. Scriverà, dopo la vittoria del giovane Saronni sullo Sceriffo Moser al Giro del 1979, «Il fiorettista ha sconfitto lo sciabolatore».
Ma poi, nuovamente rattristato per come viene trascurata la storia di questo sport, rivolgerà parole addolorate per la mancata presenza dei big del pedale a quello che sarebbe stato il tentativo di far rinascere la Gran Fondo, gara di 660 km che unisce Milano a Roma. Nata nel 1894 e morta nel 1941 quando i pionieri erano «Uomini infinitamente buoni e incredibilmente poveri, molti dei quali firmavano il foglio del via con un segno di croce». E ancora: «Correndo la loro disperata avventura, essi aprirono la strada al ciclismo dei ricchi… La ruota del tempo non ha lasciato più spazio alla bella credulità di una volta, allorché il vero era vero anche quando non era visibile a tutti. Il ciclismo dei pionieri fa paura ai campioni».
L’ultimo articolo del Divino sarà pubblicato l’11 aprile del 1983. Scrive all’indomani della Parigi – Roubaix vinta dall’olandese Kuiper. Chiude con una classica monumento e monumentale è stata la sua figura, soprattutto se andiamo a riscoprirla oggi, a 40 anni dalla sua morte. Bruno ha vissuto a Milano da scapolo, abitudinario, amava l’eleganza e, lontano dalle gare, passava le serate nella solita trattoria che ne testimoniava la solitudine, spesso a chiacchierare con Nereo Rocco, allenatore del Milan. Un suo qualsiasi racconto diventava uno spaccato di umanità. Ha scritto solamente un libro, tra l’altro postumo, “Ronda di notte – Storie personaggi e fiabe del Giro e del Tour” (Edizioni Landoni 1984), una raccolta di articoli dal 1958 al 1983. Alla domanda del perché non avesse mai scritto un libro, magari su Merckx, rispose: «Ho sempre pensato che il giornale è fatto per durare 24 ore. Ciò significa che un articolo, quando è brutto, ha una vita brevissima, può andare dimenticato. Un libro no. Un libro dura e, quando è brutto, puzza per tutta la vita».
Caro Bruno, permettici di non essere d’accordo: i tuoi articoli profumano anche a distanza di quattro decenni, anzi, forse oggi più di allora. Profumano come un fiore, come l’asso di fiori che dal 1970 appare nelle biciclette Colnago e che proprio Bruno ispirò. Si narra infatti (ed Ernesto Colnago conferma, ndr) che dopo la vittoria di Dancelli alla Sanremo di quell’anno si fermarono a cena a Laigueglia Molteni, Albani, Negri, Colnago e Raschi, che presa la macchina da scrivere cominciò: «Una bici in fiore a Sanremo…». Fu così che chiese a Ernesto perché le sue biciclette fossero marcate Molteni e, senza attendere una risposta, lo spinse a inventare un marchio. Prese un mazzo di carte, estrasse l’asso di fiori e lo mostrò. Il giorno dopo Colnago registrò il simbolo che ancora oggi è vincente in tutto il mondo.
A cura di: Vittorio Landucci – Biblioteca del Ciclista Archivio fotografico: Carlo Delfino