Bussarono alla porta.
«Perché diamine bussano», pensò. «Non hanno letto il cartello? Cosa non hanno capito della scritta “aperto”?». C’era, ne era sicuro, aveva controllato lui stesso poco prima, al ritorno dall’ennesimo caffè. Non se l’era neppure gustato, pensò. L’aveva ingollato velocemente. E prima di rientrare aveva girato il cartello: APERTO. Faceva freddo in quei giorni. Un freddo dannato, del tutto ingiustificato, che l’aveva costretto a chiudere la porta. E non succedeva mai, pensò, che a lui la porta piaceva aperta, così non c’erano barriere per i clienti. Sempre aperta. Anche quando faceva freddo. Il freddo in quei giorni era però troppo anche per uno come lui che non lo soffriva. Nessuno se lo aspetta mai un freddo così quasi ad aprile.
Bussarono ancora.
«Eccheddiamine. È aperto», gridò.
Apparve un omuncolo, basso e secco da far impressione. L’aveva già visto, un viso familiare. Sì l’aveva già visto, pensò, ma non ricordava dove e neppure quando. Gli capitava a volte di ricordare un volto ma non il contesto, il dove e il quando l’aveva visto. Sua mamma sosteneva che l’avesse sempre fatto.
Quell’uomo gli sorrise. E mica un sorriso qualsiasi, uno di quelli che si fanno a persone che già si sono incontrate, che si conoscono. Uno di quei sorrisi che forse non sono intimi, ma complici sì.
Possibile che non si ricordasse né dove né quando l’aveva visto? Possibile, pensò.
«Le devo lasciare questi», disse l’omuncolo appoggiando sul bancone cinque rose con un enorme busta bianca legata attorno ai gambi. Una busta bianca imbevuta di profumo di donna.
Rimase interdetto. Guardò l’omuncolo senza dire nulla.
L’omuncolo continuava a sorridere.
«Sono per me? Davvero?», chiese dopo un bel pezzo.
«Per lei. Rue des Saint-Perès 66, Saint-Germain-des-Prés, Paris. Non è questa rue des Saint-Perès 66?», chiese guardando il fogliettino con su scritto l’indirizzo di consegna.
«Lo è».
«E allora sono per lei. L’ordine parla chiaro: da consegnare a rue des Saint-Perès 66. Il suo nome e cognome già lo conosco. Lo conosciamo tutti nel settore».
Avrebbe voluto dire all’omuncolo che si sbagliava, che su quel foglietto ci sarà stato anche scritto quell’indirizzo, ma che le rose non potevano essere per lui. «Eddai, chi diamine è così sciocco da regalare rose a un fiorista?», pensò. E forse non lo pensò solo, visto che l’omuncolo davanti a lui sogghignò ben più di quanto aveva sino a quel momento sogghignato.
«C’è un biglietto. Magari nel biglietto c’è scritto chi ha mandato le rose a un fiorista».
Si sentì preso per il culo. Gli avrebbe tirato volentieri un ceffone e con ogni probabilità l’avrebbe fatto se non avesse sentito il tintinnare del campanellino che sua madre aveva chissà quanto prima legato alla porta.
Lo odiava quel campanellino. La porta la teneva sempre aperta anche per evitare di sentirlo.
Si liberò sbrigativamente dell’omuncolo, mise le rose sotto il bancone e con la gentilezza di sempre si occupò dei desideri floreali della signora.
Ne venne fuori la solita giornata. Qualche pianta, un po’ di fiori, gente che festeggiava l’amore, gente che si regalava un po’ di colore, gente che piangeva qualcuno. Al solito, insomma. Se non fosse per quell’omuncolo che non riusciva a ricordare dove e quando l’avesse già visto.
E per quelle cinque rose.
Se ne ricordò quando stava per uscire. Le prese da sotto il bancone. La busta odorava ancora di profumo di donna. La aprì.
“Caro Jacques, è da quando ti ho visto biondo e bellissimo sul podio di Nizza che ho capito che la mia vita senza di te non ha più senso.
Mathilde”
Dentro la busta c’era anche una foto. Una donna mora, con grandi occhi chiari e un viso e un corpo da diva del cinema. C’era poco da immaginare di quel corpo. La camicetta trasparente lasciava vedere, e non solo intuire, quasi tutto.
Strappò la lettera infastidito. Che scherzo idiota. Non c’era mai stato a Nizza. La foto la mise invece in un cassetto, era troppo bella quella donna per finire in un bidone.
Mentre stava per uscire si fermò davanti allo specchio che aveva sulla destra del negozio. Era da parecchio che non si guardava davvero allo specchio. Si trovò grasso, vide i suoi capelli, un tempo neri e voluminosi, ormai un po’ meno neri e parecchio radi in testa. Solo il naso era rimasto lo stesso: un bulbo di prua grande quanto un pugno di uomo. E la sua bocca certo non aiutava, un taglio sul viso quasi totalmente senza labbra. Aveva trentatré anni e non ancora moglie. E ora qualcuno gli mandava pure delle lettere.
«Stronzi», pensò.
Già che c’era strappò il foglio con la data del calendario: domani sarebbe stato il 29 marzo 1957 e il freddo non voleva saperne di andarsene via.
Abbassò la serranda. La guardò soddisfatto. Aveva fatto un buon lavoro suo cugino, che si dava arie di gran pittore. Ci sapeva fare però: la scritta era raffinata ed elegante: “Anquetil Fleurs, chez Jacques”.
Lettere e fiori – «Fiori a un fiorista che idiozia» – continuarono ad arrivare. Jacques aveva pure detto a Bernard, un bulletto del bar che alle prime aveva riso, di smetterla, che dopo un po’ lo scherzo diventava indigesto. Bernard non aveva capito cosa volesse e dopo un po’ l’aveva spedito al tappeto con un destro su uno zigomo dopo aver detto che non si poteva accusare Bernard ingiustamente e passarla liscia. Bernard parlava di sé sempre in terza persona.
Fu aprendo il Figaro il 21 luglio che ogni cosa si chiarì. Capì che non era uno scherzo e che nessuna donna s’era davvero innamorata di lui. Al solito. Ci rimase un po’ male. Perché, insomma, quel momento da rubacuori non lo aveva davvero infastidito, come dava a vedere: in fondo in fondo ci sperava un po’ che fosse davvero così.
“Jacques Anquetil ha vinto il Tour de France”.
Jacques Anquetil. L’altro. Quello davvero biondo e bellissimo.
Che disdetta. Proprio a lui doveva accadere una cosa del genere. Proprio a lui che nemmeno aveva imparato a pedalare.
* Questo racconto è liberamente tratto dall’intervista a Jacques Anquetil – il fiorista – apparsa su L’Equipe del primo novembre del 1963 e riferita ad avvenimenti reali.