«Quando correvo… volevo vincere con le buone o con le cattive».
Ecco, in quelle parole tratte nell’intervista di Gigi Marsico ed Enzo Tortora, che andò in onda, postuma, nel 1954 alla radio per la trasmissione “Vecchio Giro”, vi è tutta l’essenza di Giovanni Gerbi, forse il primo corridore “moderno” formatosi solo sulla bicicletta senza passare dalle grand Bi o dai bicicletti. Un campione discusso, a volte discutibile, ma che non si è mai risparmiato e che è indubbiamente figlio indelebile della sua epoca.
Un’infanzia difficile
Giovanni Gerbi nasce il 4 giugno 1885 a Trincieri, più nota come Borgata Tanaro, una frazione di Asti sulle riva del fiume, fatta da poche misere case abitate da pescatori, contadini e carrettieri. “Piciot” era il soprannome di quel monello che non prometteva nulla di buono, di indole litigiosa e poco avvezzo alle prediche paterne, neanche quando queste erano accompagnate da sonore “busse”. A tredici anni viene espulso dalla scuola elementare e inizia a confrontarsi con il mondo del lavoro. Innumerevoli i lavori tentati: scalpellino, ma è duro stare accovacciato e tirare delle mazzate allo scalpello; sarto, ma un litigio con un compagno e il lancio del ferro da stiro rovente sulla testa del malcapitato lo faranno allontanare dalla bottega; salumaio ad Asti ma dopo una settimana torna a casa, scalzo, lacero ed affamato; garzone d’osteria ma gli avventori non sempre li trattava bene; contadino ma tira un colpo di Flobert (una carabina dell’epoca) a un compagno ferendolo gravemente; conciatore di pelli, muratore. Insomma la famiglia era disperata dal comportamento di Piciot e lui nulla faceva per migliorare il suo carattere, duro, scontroso, un po’ fannullone.
Agli inizi del 1900, Giovanni va a lavorare nell’officina di un armaiolo meccanico. Finalmente il lavoro gli interessa e questo lo porta a cambiare comportamento. Nell’officina si riparano anche biciclette e ciò gli da la possibilità di usarle quando le va a consegnare ai clienti. La bicicletta, il suo amore fin da ragazzino, quando sfacciatamente chiedeva a tutti quelli che l’avevano di fargliela provare. La bicicletta, uno strumento pericoloso in mano a Piciot, tant’è che per colpa sua una donna anziana si ritroverà menomata per tutta la vita. La bicicletta però sarà anche la sua occasione di riscatto… e che riscatto!
La scoperta delle corse
Finalmente, grazie a un aiuto del padre, Giovanni riesce ad avere le 30 lire che gli permettono di comperarsi una bicicletta, che come per molti viene utilizzata per andare al lavoro non per farci delle gare. Però vedere quei corridori
che si allenano in Piazza d’Armi ad Asti lo affascina, chissà
se potrà prima o poi essere tra loro.
Asti sta vivendo un periodo di crisi dei vari club velocipedistici per cui non ci sono gare, così il nostro Giovanni viene a conoscere che c’è la gara Torino – Rivoli, una ventina di chilometri. Eccolo quindi percorrere i sessanta chilometri per raggiungere la città e la domenica pomeriggio schierarsi alla partenza dopo aver investito l’unica lira che aveva in tasca per l’iscrizione. La gara non andrà benissimo sarà ottavo, ma siamo solo all’esordio. Ovviamente il ritorno a casa sarà un dramma perché il padre vuole tenerlo lontano dalle corse, ma non sarà possibile.
Una settimana dopo, raggiunta ancora Torino in bicicletta, sarà a alla partenza della Torino – Trana dove si classifica secondo. Non può quindi neanche tenerlo segreto perché ne parla la stampa e così sono altre interminabili discussioni in famiglia. Ma egli non demorde e sarà secondo anche alla Torino – Pianezza. Sente la vittoria vicina, per cui anche le difficoltà in famiglia sono solo un passaggio cui bisogna sottoporsi per arrivare al risultato.
La prima vittoria
E la vittoria arriverà nel mese d’agosto del 1901, quando si corre la Asti-Moncalieri valida per il campionato provinciale. Gerbi riceve in prestito dal suo principale una bici da corsa – una vera bici da corsa – per cui si sente subito forte e imbattibile, gestendo il pre-gara con una determinazione al limite dell’arroganza. Si crea i suoi tifosi tra i ragazzini di Borgo Tanaro che egli col suo carattere rude e scontroso sa dominare, ed essi senza saperlo costituiranno quel nocciolo iniziale della sua tifoseria che sarà una delle più agguerrite, determinate ed esaltate della storia antecedente la Prima Guerra Mondiale. Dopo una gara dove Giovanni ha fatto letteralmente il diavolo a quattro con urla e invettive contro gli avversari, si trova all’inizio del rettilineo d’arrivo, uno stradone bianco e polveroso. È tra i primi ma non in buona posizione per la volata finale, ha davanti altri quattro corridori. La determinazione è tanta, ce la può fare, abbassa la testa e inizia con tutta la sua forza a pigiare sui pedali. Non può, non deve arrivare secondo, deve essere primo. Ai lati una folla di ragazzini grida il suo nome, non può tradirli. L’arrivo si fa sempre più vicino, e Giovanni è ancora contornato dalla polvere, non è ancora davanti, dà il massimo di sé e finalmente la polvere scompare. Davanti ha solo il traguardo: è primo! È l’attuazione del motto di un altro grande astigiano, Vittorio Alfieri: “volli, e volli sempre e fortissimamente volli”. A sedici anni vince così la sua prima gara e tutto fa presagire che potrà essere un campione. Stranamente, però, abbandona Asti. Forse il diverbio con la famiglia si è fatto troppo pesante per cui è meglio allontanarsi per trovare quella serenità che gli permetta di gestire il suo tempo per gli allenamenti.
Il periodo Milanese e le prime vittorie
Lo ritroviamo così garzone di fornaio a porta Ticinese a Milano, il lavoro gli permette di avere il pomeriggio libero per allenarsi in Piazza d’Armi. Gerbi sarà tra i primi corridori a credere in una preparazione atletica metodica, a provare tutti i percorsi, a non affidarsi più al caso ma a programmare la gara. Corre la Milano – Magenta – Milano che vince davanti a Ugo Scivocci, anch’egli in piena ascesa. Va a correre la Milano – Pavia dove si classificherà primo davanti a Giovanni Rossignoli, che diventerà il suo antagonista storico. Ad Alessandria sarà secondo dietro a Omodei e davanti a Remondino. Sulla pista di Alba arriva primo nel trofeo giovinetti.
Ma vi sembra che Giovanni Gerbi possa essere contento di aver vinto quella categoria? Neanche per sogno. Allora gli organizzatori mettono in piedi una sfida con Trombetta di Mondovì, un campione molto noto e che già aveva vinto molto in pista, il quale aveva perso un occhio in una discussione piuttosto accesa alla fine di una gara a Buenos Aires. Sta di fatto che Gerbi cede alle insistenze per un accordo con Trombetta il quale dovrà vincere la prima manche, Giovanni la seconda e poi se la giocheranno alla terza. Gerbi rispetta gli accordi e fa aggiudicare la prima gara a Trombetta. Nella seconda manche Gerbi non forza più di tanto, l’accordo è che debba essere lui a vincere, invece il Trombetta non rispetta i patti e all’ultimo momento, davanti ad un Piciot allibito, scatta e vince anche la seconda manche. Da allora Giovanni imparerà che bisogna sempre dare il massimo e solo il massimo. Nel 1902 si affermerà con una strepitosa fuga nella Coppa del Re sul tragitto Alessandria – Novara.
Gerbi la rivelazione del 1903
Innanzitutto dobbiamo chiarire che in quest’epoca i corridori sono atleti liberi, non ci sono squadre, ognuno corre per sé gestendo i propri allenamenti e i trasferimenti per raggiungere le città di partenza delle gare avvengono su quella stessa bicicletta che si userà per correre. Quindi Gerbi corre per sé stesso, in modo libero, ma con una tifoseria nata da quel Borgo Tanaro che si è espansa e che lo segue formando uno dei gruppi più organizzati, compatti, chiassosi, e perché no, anche rissosi nel panorama ciclistico di quegli anni.
19 aprile Milano – Alessandria: l’arrivo avviene in gruppo ma Gerbi ce la fa ad imporsi davanti all’amico Massimo Remondino; Cuniolo e Rossignoli saranno rispettivamente terzo e quarto. 10 maggio, Milano – Genova: sotto una pioggia battente, con la strada trasformata in un fiume di fango. Nel tratto appenninico Gerbi tenta la fuga ma è seguito da Rossignoli e Giupponi che presto abbandonerà il ritmo di quei due forsennati, che proseguiranno da soli per molti chilometri. Gerbi e Rossignoli non si risparmiano né per lo sforzo sui pedali né le invettive reciproche che a volte arrivano all’ingiuria, poco importa che piova ancora e la strada sia a tratti un torrente d’acqua. Gerbi aumenta ancora il ritmo tanto che Rossignoli è obbligato a mollare permettendo al nemico astigiano di entrare da solo, e da trionfatore, nella pista di Bisignano. All’arrivo Gerbi è stremato tanto che lo toglieranno di peso dalla sella per sdraiarlo per terra dove resterà per molti minuti prima di riprendersi.
24 maggio Milano – Torino: un capolavoro di preparazione tattica e una dimostrazione di forza fisica unica. Gerbi va in fuga a Novara, gli avversari lo lasciano andare. «Tanto prima o poi lo riprendiamo, la strada per Torino è ancora tanta», pensano. Grande errore di valutazione. Gerbi è scatenato e prosegue con una pedalata che esprime potenza a ogni giro di pedivella, su una strada polverosa riesce ad imporsi una media di 36 km all’ora, una follia per l’epoca. Arriverà all’arrivo alla Barriera di Milano con 40 minuti di vantaggio sul secondo. All’arrivo trova un po’ di spettatori ma non c’è la giuria, la quale arriva un bel po’ di tempo dopo. Tra la giuria vi è un signore alto e piuttosto grosso che si meraviglia della presenza di Gerbi e gli dice: «Ha preso il treno per arrivare così presto?». Gerbi non è nel momento di accettare scherzi, ha fatto un’impresa impossibile perciò le parolacce verso quel tipo partono come un fiume in piena. Quel Signore è Eugenio Camillo Costamagna nientemeno che il direttore della Gazzetta dello Sport, quello che diventerà poi il primo patron del Giro d’Italia.
10 luglio Circuito di Cremona: 82 km in tutto arriva primo con 18 minuti di vantaggio. 6 settembre Coppa del Re: fuga a 20 km dall’arrivo arriva primo con 7 minuti di vantaggio sul secondo. A fine ottobre non pago delle vittorie su strada vuole cimentarsi su pista, al trotter di Milano, nella sei ore stayer, quella strana specialità dove le bici sono messe dietro a degli allenatori in moto e dove bisogna tirar fuori tutta la forza possibile per vincere. E Giovanni riesce a imporsi anche in questa specialità. Vince nonostante una caduta e vince dando trenta giri di pista di distacco al secondo.
Al termine della corsa della Coppa del Re Gerbi era stato intervistato nientemeno che da Edgardo Longoni, che diventerà una grande firma della Gazzetta dello Sport, ma che in quell’anno aveva da poco iniziato la sua collaborazione con il giornale milanese in qualità di capo redattore. L’intervista avvenne a Milano fuori porta Vigentina dove vi era stato l’arrivo della gara. Dice testualmente Longoni: «Quel corridore [Giovanni Gerbi – n.d.a.] mi interessava moltissimo… ho potuto parlagli… mentre si toglieva la maglia rossa e si vestiva in borghese. Quando gli ho chiesto: “Speravate di vincere?” Gerbi mi ha guardato con stupore… e mi rispose: “Ero sicuro di vincere. Un corridore come me che si allena assiduamente e copre cento chilometri tutti i giorni, deve vincere!». Insomma siamo alla consacrazione di uno dei migliori corridori.
L’amico Massimo Remondino
Per via del suo carattere non facile, Gerbi non è portato per coltivare molte amicizie ma con Massimo la cosa è diversa. Rimondino è un buon corridore, non eccelso però è leale, si ritirerà nel 1905. Se ci fossero state già le squadre sarebbe stato il primo gregario, l’uomo cui sai di poter chiedere nel momento del bisogno e l’amico che in quel momento saprà darti tutte sé stesso. Molte le avventure che vivono assieme. Nell’estate del 1902 vanno a correre la Milano – Treviglio – Erba, solo che al mattino il locandiere dimentica di dare loro la sveglia per cui si presentano al nastro di partenza con un quarto d’ora di ritardo, nessun problema decidono di partire. Gerbi subito davanti a fare l’andatura come solo sa fare. A Treviglio sono già in vista del gruppo. Lo raggiungono e vanno in fuga. Altri chilometri in fuga da soli Giovanni davanti e Massimo dietro quasi ridendo per la loro impresa. A Erba saranno primo e secondo con qualche minuto di vantaggio sul terzo.
Meno esaltante invece l’impresa per la gara Roma – Napoli – Roma. I soldi che hanno in tasca sono sufficienti per il solo viaggio di andata e per qualche pasto, quindi acquistano solo il biglietto per partire. Le bici gliele hanno prestate. Arrivano a Roma e prendono la partenza. Massimo si ritira prima di arrivare a Napoli e con mezzi di fortuna e pedalando per quello che può arriva da amici a Roma. Gerbi invece arriva quarto ma i premi si fermano al terzo, per cui non c’è speranza di avere risorse per il ritorno. Gli amici romani per qualche giorno li ospitano, ma non si può approfittarne più di tanto.
Quindi, spedite le bici ai proprietari con tassa a carico del destinatario, i due si recano in questura per farsi dare il foglio di via. Con quel foglio le Ferrovie dello Stato sono obbligate a farti viaggiare anche se non paghi il biglietto perciò ecco a disposizione un omnibus, neanche la terza classe, ma un treno merci dove ci si deve sistemare alla bell’e meglio su qualche vagone semivuoto. Però un vantaggio c’è: il treno si ferma spesso nelle stazioni per manovrare per cui i nostri due hanno il tempo di scendere a farsi delle scorpacciate di acqua, l’unico bene disponibile gratuitamente alle numerose fontanelle che generosamente lo versano nelle mani dei due sventurati. Trenta ore per arrivare ad Alessandria ma ce la fanno, affamati ma arrivano a casa. Anche quando Remondino si ritirerà dalle gare resterà sempre vicino a Gerbi anche nella costruzione delle biciclette. Il Diavolo Rosso avrà la forza di far sua la Roma – Napoli – Roma per ben tre edizioni consecutive nel 1907, 1908 e 1909.
La Francia
Spiegare la prima trasferta d’oltralpe del 1904 è difficile. Forse è l’intemperanza di un giovane di 19 anni, che vuole cimentarsi in nuove sfide, non solo atletiche ma anche di vita. È da pochi mesi passato ai professionisti, per quanto all’epoca la demarcazione dai dilettanti era poca cosa. Per giunta le trasferte dei corridori italiani in Francia avevano avuto dei passati gloriosi ma solo in pista: ricordiamo la vittoria di Dei, di Tommaselli nel 1899 e nel tandem del 1900, ma le corse su strada sono più impegnative, occorre gestire la logistica, si necessita di assistenza anche se all’epoca era un nulla rispetto all’oggi. Ma egli non si cura di questi aspetti vuole conoscere altri campioni vuole cimentarsi con quello che era ritenuto il gotha mondiale del ciclismo con i vari Petit-Breton, Garin, Passerieu, Muller, Angereau e Georget. Trentacinque lire in tasca per pagarsi il viaggio e pochi i tratti in treno, forse solo il traforo del Moncenisio per risparmiarsi le salite dei passi alpini. Sta di fatto che il 28 maggio lo troviamo a Bordeaux schierato alla partenza della gara per Parigi. 575 km, lui e la sua bicicletta, senza rifornimenti lungo il percorso, ciò che gli serve deve caricarlo sulla bici e gli alimenti diventano zavorra. Però lui all’arrivo al parco dei principi a Parigi ci sarà, sarà nono, ma ha avuto l’occasione di misurarsi con quei campioni e la sfida non è finita.
L’8 luglio sarà alla partenza del secondo Tour de France. Nella prima tappa Parigi – Lione, di 467 km, sarà sempre davanti. A 300 km della partenza il gruppo di testa è composto da sei corridori e Gerbi è con loro. A 400 km restano intre: Garin, Pothier e… Gerbi. Il vantaggio è talmente elevato sugli inseguitori che Gerbi, contento di essere anche “solo” terzo si ferma in un casolare per rifocillarsi, nessuno passa in bici ma passano solo due macchine con degli strani personaggi imbacuccati nonostante la giornata calda. All’arrivo sarà quinto dietro a Garin, Pothier, Frederick e Chevalier che lo avevano sorpassato nascosti sulla macchina. Inutile il reclamo, non ci sono prove e lui deve accontentarsi di essere il quinto classificato. Ma due giorni dopo alla seconda tappa succede anche di peggio. Si va da Lione a Marsiglia e Gerbi, scambiato dai tifosi per l’odiato Maurice Garin, lo spazzacamino naturalizzato francese, viene preso a bastonate e gli viene rotta la bicicletta, così finisce il suo Tour.
Questa prima trasferta aprirà una strada importante per Gerbi, che ritornerà nel 1905, per vincere due gare minori, nel 1906 e nel 1907. Nel 1908 è seguito da una schiera di corridori italiani per il Tour di quell’anno. Con l’astigiano ci saranno Ganna, Rossignoli, Canepari, Cuniolo, Galletti e Chiodi. Dopo i 5000 km del percorso il primo del gruppo italiano è Ganna, quinto assoluto, quasi un presagio per il primo Giro d’Italia che si correrà l’anno dopo. Rossignoli sarà decimo, Canepari dodicesimo e Gerbi ventesimo. Ma Gerbi continua la serie delle sue sfortune anche in questo 1908. Nella tappa Grenoble – Nizza, a pochi chilometri dall’arrivo, mentre è in testa con Petit-Breton, Dortignac e Garrigou, una macchina sorpassa il gruppetto e lui la segue buttandosi nella polvere. Quando gli avversari se ne accorgono ha già duecento metri di distacco che lui, non nuovo a queste imprese, fa diventare rapidamente cinquecento sino ad arrivare ad oltre un chilometro.
La prima vittoria al Tour sembra dietro l’angolo, ma purtroppo dietro quell’angolo Giovanni trova le rotaie del tramvai. Cerca di evitarle, riesce a passare con la ruota anteriore mentre la posteriore entra nel solco ed il cerchio si spezza. Gerbi prende la bicicletta in spalla – il traguardo non è poi così lontano – si mette a correre ma sopraggiungono gli inseguitori e lui anche stavolta resterà senza vittoria. Però la memoria di quel corridore che corre con la bici in spalla, stremato, lo renderà famoso e gli darà il suo momento di gloria anche senza aver vinto. All’ultima tappa, poi, si romperà la forcella e arriverà al Parco dei Principi a Parigi trentacinquesimo, ultimo degli arrivati, ancora una volta con la bici in spalla.
Croce e delizia del Giro di Lombardia
Il 1905 è l’anno che vede la nascita del Giro di Lombardia. Doveva essere lo spareggio tra Pierino Albini, vincitore della Coppa del Re, ultima gara della stagione, e Giovanni Cuniolo che aveva contestato delle violazioni del regolamento da parte del vincitore. L’idea di Tullio Morgagni, giornalista della Gazzetta dello Sport, è quella di fare una gara di spareggio di fine stagione ma il direttore Costamagna è totalmente contrario: siamo già avanti, l’interesse del pubblico è scarso.Tuttavia il sostegno della stampa e dell’opinione pubblica convince il giornale a organizzare il Giro di Lombardia, che diventerà poi una delle grandi classiche. La partenza avviene l’11 novembre 1905, giorno di San Martino, noto per il sua estate, ma quell’anno sarà Giove pluvio a farla da padrone almeno nei due o tre giorni prima della gara. Il percorso si presenta infatti fangoso. Dando ragione all’intuito di Morgagni, si presentano alla partenza ben 54 corridori: un numero elevatissimo per l’epoca. Giovanni, come suo solito, aveva già percorso svariate volte tutto il tragitto della gara, c’è che dice almeno 20 volte. Lui stesso nell’intervista radiofonica accenna a 27 volte, forse esagerando. Comunque il percorso lo conosce benissimo e parte da Milano con già tutta la sua strategia in testa. Tra Lodi e Crema, a poco più di trenta chilometri dalla partenza, Lui sa che dietro una curva si nasconde l’insidia delle rotaie del tramvai e se gli avversari vi entrano in velocità potrebbero avere dei danni. Il gruppo procede compatto mantenendosi sulla banchina della strada per evitare il fango, mentre Gerbi, inspiegabilmente, sta nel centro della carreggiata facendo molta più fatica per tenere il passo.Appena prima della curva, e a circa 190 chilometri dall’arrivo, parte in fuga, gli altri lo seguono, ma non conoscono l’insidia delle rotaie che fanno una falcidia di ruote provocando cadute, mentre Gerbi, sapendo come passare se ne va. A Crema la maglia rossa transiterà con 3 minuti di vantaggio sul secondo, a Bergamo avrà 18 minuti su Cuniolo che lo segue, a Lecco 22 minuti, a Como 17 minuti sul secondo Rossignoli, a Varese 30 minuti sul secondo Ganna, sino ad accumulare un vantaggio complessivo di 39 minuti all’arrivo a Milano. Certamente Gerbi deve aver avuto molto a cuore questa vittoria perché la cita e ne parla ampiamente nella sua intervista radiofonica.
Ma sarà proprio il Giro di Lombardia a dargli anche una delle più cogenti delusioni, nel 1907, quando pur essendo arrivato primo si vede togliere la vittoria a favore dell’odiato francese Garrigou. Il comitato organizzatore infatti accetta i reclami dei corridori francesi presentati contro Gerbi il quale si sarebbe avvalso di allenatori, leggasi corridori che lo tiravano per un tratto di strada, e tifosi che avrebbero chiuso un passaggio a livello appena dopo il transito del Diavolo Rosso in fuga, costringendo gli inseguitori a fermarsi perdendo preziosi minuti. Per tutta la notte gli organizzatori sentono i testimoni compreso un certo Mori, corridore italiano, che sembra prendere le parti dei francesi. Insomma all’alba Gerbi viene retrocesso in ultima posizione. Ma oltre alla retrocessione in classifica viene deferito al Comitato Direttivo dell’U.V.I, in veste di comitato disciplinare, e nella riunione del 18 dicembre 1907 gli viene comminata una sospensione dalle corse di due anni. Figuratevi Gerbi come poteva essere arrabbiato anche perché la vittoria andava proprio ad un corridore di quella Francia dove egli era stato vittima di una serie di scorrettezze epiche e mai riconosciute. Comunque il consiglio UVI, su pressione degli appassionati che dicono che le corse non sono più le stesse senza il Diavolo Rosso, ritorna sui suoi passi riconoscendo l’esagerazione del termine di squalifica, e nel mese di maggio riduce la pena a sei mesi dal giorno in cui è stata inflitta, così Giovanni potrà ritornare a garaggiare dal 18 giugno 1908.
tre giorni dopo vince la Corsa Nazionale
Questa è una gara organizzata sempre dalla Gazzetta che in quell’anno l’ha prolungata per un percorso di ben 390 chilometri. Ma lasciamo parlare Vincenzo Baggioli, che così bene descrive quell’evento nella sua “storia del ciclismo italiano” (De Carlo Editore – 1943): «Ganna cominciò ad imporsi nel 1908, quando Gerbi sembrava declinare; e proprio tra questi due campionissimi, con l’intervento del terzo moschettiere Galetti, si ebbe in occasione della “Corsa Nazionale” di quell’anno un duello… che merita di essere ricordato. Lo faremo con le stesse parole di Vittorio Varale. Dopo Brescia, ed a 100 chilometri dal traguardo finale di Milano, erano venuti a trovarsi soli in testa i due grandi rivali: il campione che aveva iniziato il tramonto [Gerbi- n.d.a.], quello che era già sorto con la precisa intenzione di spodestarlo. “Gerbi contro Ganna” – dice Varale – “Ganna contro Gerbi”.
Gerbi dice a Ganna: “Adesso aggiustiamo i conti”. Ganna lo guarda di sotto la visiera del berretto e non gli risponde. Ma bada a stargli sotto, a ruota, però non troppo accosto che con quel caratteraccio non si sa mai…. Gerbi, infatti, non vuole che Ganna gli stia a ruota. Ed eccolo incominciare il suo vecchio gioco: salta in banchina, ne esce, vi ritorna. Ma Ganna duro, di là non si muove. Gerbi perde la pazienza, strepita, urla: “Mettiti di fianco e vediamo che ha più forza. È l’ora di aggiustare i conti!”.
Come parlare al muro. Ganna, e ha cento ragioni, non aderisce al singolare invito. Sono forse dei ragazzi, che si devono mettere a correre l’uno da un lato, l’altro dall’altro della strada? Ma intanto che per litigare avevano rallentato, sopraggiungono gl’inseguitori e a Melegnano, a pochi chilometri dal traguardo, sono in otto o dieci. Come fare per evitare l’arrivo in gruppo? Attraversando Melegnano fra un centinaio di ciclisti venuti incontro da Milano, Chiodi e Ganna si toccano nei pedali e cadono. Gerbi sente dietro di sé delle biciclette che vanno all’aria, degli strilli, delle bestemmie e senza voltarsi a guardare intuisce che quello è il momento decisivo. O allora o mai più. Parte in volata allargando le braccia nella sua caratteristica posizione, esce dal paese e abborda gli ultimi chilometri a quaranta all’ora.
Forse credeva di essere rimasto solo, ma sente dietro a sé un soffio rauco, pesante. Si volta: è Galetti, che sembra ancora più piccolo, tutto raggomitolato sulla macchina. Con quella mignatta dietro, Gerbi non ce la fa. Bisogna venirne fuori; e rieccolo a tentarle tutte per levarsi l’importuno dalla ruota. Dentro e fuori dalle banchine, rasenta a bella posta i paracarri, finché ci riesce. Ora, finalmente, eccoli di fianco, Galetti in mezzo alla strada, Gerbi in banchina. Chi ha più fiato e più forza vincerà. Adesso le malizie non servono più. Sono le due del pomeriggio, e il sole rovescia torrenti di calore abbacinante. Gli occhi dei due atleti si chiudono, quasi, per la grande stanchezza. Sono ormai sfiniti; le loro teste si dondolano sul manubrio, specialmente negli scarti in cui le biciclette traballano, ma uno sforzo le rimette diritte. S’intravvedono fra la polvere le spalle che s’infossano sempre più, sopra i visi sempre più pallidi in una smorfia di spasimo. Eppure solamente così, senza scoraggiarsi dietro un rivale che vi supera e tenta di fuggire, si merita di correre e di vincere, perché la prima condizione d’ogni vittoria è di non perdersi mai davanti a se stesso. Chi cederà per primo?
Essi sanno che nessuna forza estranea li può soccorrere. S’immaginano che il traguardo sia ad ogni chilometro, e come uno fa accelerare l’andatura ch’è di già sostenuta, l’altro risponde facendo appello a tutte le riserve della propria energia. Ma presto non ne possono più. Venti, cinquanta metri di volata (che pietà di volata, in quelle condizioni!), poi ripiglian fiato. Non avete mai chiesto a qualcuno dei corridori che cosa sentono quando si trovano in quei momenti, allo stremo letteralmente delle proprie forze? Io gliel’ho chiesto, a Gerbi come a Girardengo, a Micheletto come a Linari, e tutti mi hanno risposto: “Mi sento morire…”.
Qualcuno doveva quel giorno, su quella strada arroventata dal sole, se non morire almeno schiantarsi. Dopo 385 chilometri di corsa, e quel po’ po’ di “pancia a terra”, non era umanamente possibile continuare così. Chi cederà per il primo? Cederà quello dei due che meno dell’avversario sa dare tutto a stesso, fino all’ultima stilla di forza. Gerbi l’aveva, questa abitudine, di prodigarsi interamente. Egli graduava il dispendio delle sue forze in relazione alla distanza da compiere. In lui, nessun risparmio, nessuna riserva. Ce la metteva tutta… Il dramma precipita verso il suo epilogo. A due chilometri dal traguardo, Gerbi sente di fianco un gran sospiro: “Sônt mort!”, soffia una voce. Era Galetti che si dichiarava vinto».
Gerbi e le sue biciclette
A Giovanni Gerbi va certamente il merito di essere stato il primo corridore a fabbricare biciclette. È vero vi fu Dei alla fine dell’800 ma egli era prima costruttore e si trovò coinvolto nelle corse più per far pubblicità alla sua produzione che per necessità agonistiche vere e proprie. Per Gerbi invece la costruzione delle biciclette è un punto di arrivo. L’esperienza l’aveva e le macchine di cui disponeva probabilmente non lo soddisfacevano. Dopo di lui avremo altri corridori-costruttori: Girardengo, Guerra, Ganna, Bartali e tanti altri. Lui fu il primo a prendere la decisione di farsi le biciclette e di usarle per correre, poco importava se avevano qualche difetto e se magari gli chiedevano qualche sforzo in più nella gestione. Gerbi voleva essere il costruttore ed il collaudatore delle sue macchine. Ad Asti nel 1910, in quella via Angelo Brofferio, dove oggi è l’industria della plurisecolare dolciaria Barbero, nipoti di Gerbi, viene aperta la fabbrica. Ma in quegli anni nella costruzione delle bici non sei nessuno se non sei presente anche a Milano per cui proprio nel capoluogo lombardo andrà ad aprire un importante negozio. Le sue bici non possono che essere rosse.
Ovviamente predilige la costruzione delle bici da corsa ma l’esigenza dei guadagni lo porterà nel primo Dopoguerra a produrre anche bici da turismo andando ad aggiungere un’altra perla alla collana di quell’ottima industria piemontese di velocipedi, di cui si parla sempre troppo poco, e che ha una sua vera e propria scuola e filosofia costruttiva che soprattutto nel periodo tra le due guerre, sarà l’unica in grado di competere con l’agguerrita industria lombarda. Arriverà terzo ai Giri d’Italia del 1911 e 1912 che si corre a squadre. Ma i tempi delle grandi vittorie sembrano ormai essere passati
Il record delle sei ore
Il 1913 non è un buon anno per Gerbi, che al Giro d’Italia si è ritirato alla prima tappa. Però all’inizio di novembre giunge la notizia che il tedesco Richard Weise, dopo aver fatto nel mese di agosto il record dell’ora a Berlino, è sceso a Firenze, al velodromo delle Cascine, dove ha fatto il record delle sei ore senza allenatori percorrendo 207 km e 555 metri. Gerbi non ci pensa un attimo e il 18 è a Firenze, il 20 è in pista.
Parte, la prima ora non è velocissimo, ma dalla seconda ora prende un ritmo forsennato dove esce tutto il Diavolo Rosso famoso per le sue fughe di centinaia di chilometri in solitario. Alla terza ora ha il record mondiale, prosegue sempre con un ritmo costante ma intorno alla quarta ora sembra aver rallentato. È in defaillance? Si ferma, il record sembra svanire. Deve riprendersi, più che la forza fisica deve trovare quella psicologica, dopo sette minuti riparte. Riprende il ritmo, giunto alla quinta ora sa di aver davanti ancora 60 minuti nei quali deve dare tutto se sé stesso se vuole portare a casa il record. Riesce a trovare ancora la forza nelle gambe per fare l’ultima ora come fosse la seconda. Arriva il suono della campanella che annuncia l’ultimo minuto, spinge ancora e arriva. Il record è finalmente suo e della sua bicicletta: assieme hanno percorso 208 chilometri e 161 in sei ore.
Nel 1914 dopo il ritiro dal Giro d’Italia sembra esserci il ritiro dalle corse, poi ci sarà la grande guerra che tutto blocca. Nel dopoguerra inforcherà ancora la bici per correre: farà i Giri d’Italia del ’20, ’26 e del ’32, che sempre lo vedono ritirarsi, suscitando anche qualche perplessità nei suoi ex tifosi che vedono in lui solo il simulacro del glorioso campione che fu. Morirà il 7 maggio 1954 per i postumi di un incidente stradale occorsogli mentre ritornava dalla visita che aveva fatto al suo eterno rivale Giovanni Rossignoli, segno che la rivalità sportiva è una cosa ma il rapporto umano è un’altra.
Chi fu Giovanni Gerbi?
L’approccio alla storia del Diavolo Rosso è senza dubbio dominato dalla sua esuberanza giovanile e dalla forza atletica. Ma scavando e cercando di farsi un’idea del personaggio si scopre che Gerbi fu sicuramente il primo campione ciclistico su strada dell’era moderna. Non è più il campione relegato nelle piste polverose, come lo fu per esempio Tommaselli, amato da pochi appassionati. Egli è il primo campione popolare che ha i suoi fan – degni di un tifo da curva – lungo tutte le strade che percorre e che a volte si fanno anche parte attiva per agevolare le sue vittorie a costo di creagli dei problemi.
Egli è il primo ad essere amato, poi verranno gli altri: i Rossignoli, i Girardengo, i Belloni, ma lui fu il primo. Complice certamente il suo carattere un po’ guascone – “Piciot” in piemontese significa ribelle, scaltro – egli riesce a farsi amare. È il ciclismo audace dei poveri che si riscattano attraverso la forza delle loro gambe e della loro volontà, e attraverso lo sport anelano a migliori condizioni di vita. Ma sa essere anche moderno nel pensare al suo stile di preparazione atletica ed ai suoi allenamenti. Molte critiche gli furono fatte negli Anni ’20 perché egli continuava a correre nonostante le brutte figure, ma egli non demordeva e in più di un’occasione affermò che la sua presenza nella corse, nonostante fosse vicino ai quarant’anni, serviva a dimostrare come una preparazione fisica fatta in modo costante assieme ad un’alimentazione appropriata poteva prolungare la vita atletica. Capite la modernità dell’uomo.
Ma certamente quello che rimane nella storia sono i suoi tifosi. Si pensi che fu il primo corridore ad avere dei club che portavano il suo nome sparsi un po’ per tutta la penisola ma anche all’estero, addirittura in Argentina a Buenos Aires e a Rosario de Santa Fè. Fece una vita spingendo sempre in modo forsennato, sia sui pedali sia come imprenditore, tant’è che Paolo Conte nella sua canzone Diavolo Rosso canta:
«Diavolo rosso dimentica la strada. Vieni qui con noi a bere un’aranciata. Contro luce tutto il tempo se ne va».