Il canavesano è un ampio lembo di terra appena sopra Torino, a un passo dalla Val d’Aosta. Capoluogo è Ivrea, famosa per il pittoresco carnevale della arance e per la vulcanica epopea di Adriano Olivetti, imprenditore illuminato che fu tra i leader dell’Italia che si risollevò dal disastro della Seconda Guerra Mondiale.
Al margine sud di questo territorio si trova Cirié, paese di non troppa fama che vanta però due importanti caratteristiche: la prima è quella di avere due “via Vigna” parallele, con numerazione differente e non segnalate dal navigatore; la seconda è di avere tra i suoi abitanti il “classe 1940” Franco Balmamion, proprio nella suddetta via, che ci ha accolti a casa sua con un larghissimo sorriso dopo un piccolo ritardo dovuto a qualche problema di geolocalizzazione.
Non esisteva il GPS, quando Balmamion gareggiava negli Anni ’60, e nemmeno le radioline in corsa, così i corridori dovevano cavarsela da soli, con il fiuto, le sensazioni, misurando con lo sguardo le gocce di sudore sul volto degli avversari e ascoltando il bruciare delle proprie gambe e i morsi nello stomaco. In quel ciclismo, così diverso da quello attuale, Franco Balmamion seppe ritagliarsi uno spazio importante fatto di strategia e regolarità, al punto che ancora oggi è l’ultimo ciclista italiano ad aver vinto due Giri d’Italia consecutivi, nel ’62 e nel ’63, entrambi senza nemmeno una vittoria di tappa. Prima di lui, Coppi. Di questo e di altro abbiamo parlato nella lunga chiacchierata che ci ha concesso.
Dove nasce la sua passione per il ciclismo?
«Avevo questo zio, Ettore, che era arrivato quinto al Giro del 1931. È stato quello che mi ha trasmesso la passione per il ciclismo fin da bambino. Ne avevo due di zii appassionati di ciclismo, il secondo era Francesco. Mio papà era il primo di quattro fratelli e purtroppo è mancato che avevo tre anni, sotto le bombe della guerra. Francesco, che non aveva avuto grandi successi, era più vicino, abitava a Nole, mentre Ettore abitava a Torino».
Ricorda la sua prima bici?
«Sì, una Frejus. Sicuramente la prima bicicletta me l’ha regalata zio Ettore. Aveva fatto i Giri d’Italia come indipendente correndo per la Frejus. Da bambino mio zio mi portava a vedere le corse. Era riconosciuto tra la gente e io l’ammiravo. Una volta in bicicletta s’andava tutti e la passione era forte, come quando siamo andati in una cinquantina fino a Saint Vincent a vedere passare il Giro, nel ’56».
Inizia a correre a 17 anni. Il suo DS era Martinetto. Come lo ricorda?
«La mia prima squadra era guidata da Secondo Martinetto, ciclista professionista negli Anni ‘20. Ho ancora la maglia. Si giocava sul suo nome: “Chi è arrivato primo?”. “Secondo Martinetto”. “Ma no! Chi è arrivato primo?”. “Secondo Martinetto”, e via così».
Come fu il suo periodo nei Dilettanti?
«Ho fatto due anni. Venne a vedermi qualche squadra, poi in seguito la Brunero, che era una società importante. Mia mamma non voleva che corressi, perché aveva paura. Addirittura il primo tesserino me l’ha strappato. Il primo anno da Allievo non ho vinto ma il secondo ho vinto una corsa. Lavoravo e non avevo tempo, anche se il mio rapporto con il lavoro fu un po’ altalenante. Mi hanno preso alla FIAT, al tornio, ma non era per me. Allora ho preso due mesi di aspettativa. Lo zio Ettore aveva un’impresa per conto suo, collegata alla FIAT, così andai a lavorare da lui, a Torino. Io andavo giù il lunedì mattina e tornavo il venerdì sera a casa. Sono andato a lavorare per lui due mesi, poi sono tornato in FIAT al tornio. In seguito andavo un po’ in ufficio con il responsabile del ciclismo, un po’ al collaudo, un po’ facevo il carrellista. Però non avevo più il posto fisso. In quel momento mi andava bene. Ho fatto due anni così alla FIAT, poi sono passato professionista. In FIAT correvo per il gruppo sportivo e avevamo un DS, Graglia, che era stato anche DS dei professionisti. Lo stavo a sentire perché aveva una certa esperienza. Se lavoravi in FIAT ed eri corridore del gruppo sportivo, comunque, lui non ti lasciava passare professionista. Ci diceva: “Avete il posto di lavoro, passate professionisti, un anno o due, poi finito lì avete perso il posto di lavoro”. Era un momento in cui avere il posto fisso era importante, oggi forse ancor di più, però ci ragionavo sopra. Alla fine ho deciso e ho firmato per la Bianchi».
Perché passa alla Bianchi invece che alla San Pellegrino di Bartali, dopo aver vinto la 100 corse San Pellegrino?
«Dopo quella vittoria Bartali mi voleva alla San Pellegrino, ma sono andato alla Bianchi perché allora il direttore sportivo della squadra era Pinella De Grandi, ex-meccanico di Coppi, di Torino e amico dello zio Ettore. Un altro motivo di questa scelta fu che in Bianchi eravamo 8 neoprofessionisti su 10 -11 corridori. È stato nel ’61, dopo le favolose Olimpiadi del 1960. Quell’anno siamo passati in 60, compresi Marino Vigna e Antonio Bailetti. Alla Bianchi eravamo io, Bailetti, Poiano, Maggioni, Sarazzin, Mealli, tutti neopro. Poi c’era Simonetti, un toscano. In squadra c’erano anche Antonio Dal Col e Tonino Domenicali, però Domenicali correva più in pista. Eravamo tutti giovani, l’esperienza era poca ma, al tempo stesso, potevi fare la tua corsa. Avevo rifirmato anche per l’anno successivo con la Bianchi, insieme a Bailetti, Sartore e Mealli. In più avevano preso un giovane, Lenzi. Però nel ’62 la Bianchi fece la fusione con la Ignis e la Fides, entrambe di Borghi, senza dirci niente, lo scoprimmo dai giornali. Fu la famosa squadra dei Moschettieri, in cui c’erano Gastone Nencini, che aveva vinto il Giro d’Italia del ’57 e il Tour de France ’60, Ercole Baldini, che aveva vinto il Giro d’Italia del ’58, Arnaldo Pambianco, che aveva vinto il Giro del ’61. Io ero un ragazzino di 22 anni e ho pensato: “Cosa ci vado a fare?”. Così alla fine ho firmato con la Carpano, anche se ai giornali l’ho sempre negato. Nella nuova squadra mi hanno chiesto di convincere anche Sartore e Bailetti, che poi mi hanno raggiunto».
Che ricordi ha del primo anno e del primo Giro in Bianchi, quello del Centenario dell’Unità d’Italia, vinto da Arnaldo Pambianco su Jacques Anquetil?
«La prima tappa si tenne qui a Torino, ex-capitale d’Italia, per il Trittico Tricolore. Si facevano tre giri, con tre traguardi: bianco, rosso e verde. Ho vinto, c’era un premio di 150.000 lire. Poi si faceva il Colle della Maddalena. Ero da solo davanti. Io, alla prima partecipazione al Giro d’Italia. In discesa, non conoscendo troppo bene la zona, sono venuto giù un po’ piano. Domenicali e Baldini si sono rotti la clavicola in quella discesa. Io sulla Maddalena avevo 57”-58” di vantaggio, da solo. Si arrivava al Parco Ruffini e, a 2-3 km dall’arrivo, mi hanno raggiunto Pambianco, Poblet, Cestari ed Elliott. In quella tappa primo fu Poblet, secondo io. Poi sono stato 12-13 giorni tra il secondo e il quarto posto in classifica. In una tappa ho perso 20 minuti. Non per crisi, ma proprio per inesperienza. Son andati via 60 corridori e dietro siamo rimasti io, Trapé e Bahamontes. Io non ero nessuno. Livio aveva un oro e un argento alle Olimpiadi».
Nel 1962, il passaggio alla Carpano di Vincenzo Giacotto e dell’amico e ispiratore Nino Defilippis. Come andò il primo Giro?
«Giacotto è stato un grande uomo, Defilippis un grande corridore, ma aveva caratteristiche diverse dalle mie. Me lo ricordo da ragazzino, che al Giro d’Italia un giorno arrivava primo e il giorno dopo ultimo, quello seguente ancora primo. Era discontinuo di carattere. A me andava anche bene una squadra così, solo che poi quell’anno al Giro d’Italia, nella seconda tappa (Salsomaggiore Terme – Sestri Levante), ho perso 10 minuti. Nelle prime tappe mi prendeva la crisi. A quel punto Giacotto ha detto a Nino che doveva curare la classifica. Con i miei 10 minuti di ritardo mi ritenevano già spacciato».
Poi ci fu la “Cavalcata dei Monti Pallidi”, sei colli da Belluno al Passo Rolle. In 57 si ritirano. Come andò quel giorno e quanto fu determinante per la gara?
«Io lì ero già davanti, nel gruppetto dei primi, poi Giacotto ci ha fatto fermare in un bar e ci ha fatto cambiare tutti gli indumenti. Ero cotto. Da poco avevo forato e non avevo la macchina al seguito. Mi ero fatto aiutare perché le mani erano congelate, però dopo poco vidi l’ammiraglia della Carpano. C’erano anche Defilippis e Barale. Allora c’erano i tubolari, c’era il mastice. Avevo cambiato il tubolare davanti, però col freddo il mastice non attaccava e si era sfilato. Allora ho fatto cambiare la ruota. Eravamo abbastanza indietro ma abbiamo cominciato a tirare per recuperare. Barale ha tirato. Poi ho tirato sempre io finché non siamo rientrati su tutti tranne che su Vincenzo Meco, che era andato via con 2’-3’. Ci siamo staccati leggermente all’ultimo km, perché lì effettivamente non riuscivi più neanche a stare in piedi. In discesa non potevi più andare per la neve! Dovevamo arrivare a Moena, ci fermarono in cima al Passo Rolle».
Nella Lecco – Casale Monferrato del 5 giugno entra in una fuga di 12, con tre della Carpano e tre della Molteni. Alla fine è in rosa.
«In quegli anni Nino andava in fuga e lo lasciavano anche andare perché era fuori classifica. Quell’anno, invece, era quarto mentre io ero settimo, avendo già guadagnato 3′ nella tappa precedente, al Pian dei Resinelli. Defilippis era campione italiano, avendo vinto proprio l’ultima prova, il Giro del Piemonte, e per non farsi notare aveva addirittura deciso di partire da Lecco con la maglia della Carpano e non con quella Tricolore. Ha preso anche 10.000 lire di multa! Pronti via, lui va in fuga. La maglia rosa ce l’aveva Battistini e Nino era via con Sartore, un altro Carpano. Sulla salita di Onno battaglia tremenda. Sono andati a prenderli. Quindi siamo partiti io, Bailetti e Conterno. Poi c’era anche Sartore. Gli abbiamo detto: “Stai dietro con Nino, sennò quello là si arrabbia”. Ho preso la maglia in quella fuga lì, e anche 6 minuti. Io ero resistente e regolare e fino alla fine non ho più attaccato. Però i due minuti di vantaggio che avevo a Casale alla fine del Giro sono diventati 3’57”, guadagnati senza nemmeno vincere una tappa».
Defilippis la prende malissimo. Torna a Torino, si vuole ritirare. Giacotto va a prenderlo e alla fine resta in squadra. Il suo rapporto con Defilippis però era buono. Alla fine non se la prese con lei, se la prese con la situazione.
«Sì, l’ho capito benissimo, perché ero lì. Se andiamo a vedere tutti i Giri che ho fatto con Nino (‘61, ‘62, ‘63, ‘64) l’unico dove non ha vinto una tappa è stato il 1962. È arrivato terzo in classifica. Alla fine non aveva vinto tappe e perdeva il Giro, se l’era presa un po’ e lo capivo. Poi aveva il carattere così. Siamo rimasti amici fino alla fine. Quest’anno sono 12 anni che è mancato».
Se glielo avessero chiesto, si sarebbe fermato nella fuga che la fece finire in rosa?
«Non vedo per quale motivo. Giacotto l’ho ammirato per quello che ha detto: “Io lo fermo [Balmamion] ma tu prometti che vinci [a Defilippis]”. Io però davanti non è che danneggiassi Nino. La maglia non l’aveva lui. Lo sbaglio forse l’ha fatto lui ad andare via prima. Magari se avesse lasciato andare via me forse non ci avrebbero più preso. Sicuramente ho avuto la fortuna di sfruttare la sorpresa. Ero un po’ un’incognita, mi consideravano meno di lui. Attaccando lui prima gli altri si sono ‘consumati’, poi quando sono andato via io non sono riusciti a seguirmi. E poi era tutto un altro ciclismo. In quella fuga c’era Manzoni della Legnano con la Legnano che aveva la maglia. C’era Fabbri che era dei Moschettieri, quindi c’era Baldini che lottava. Quelli sono rimasti con noi, non tiravano. Però non è che li hanno fermati. Era un ciclismo diverso ma per me era più bello. Adesso sono telecomandati, una volta potevi inventare».
Chiappucci, quando l’abbiamo intervistato, ci ha detto che le radioline sono la morte del ciclismo.
«Ma sì dai. Noi andavamo in fuga in quasi tutte le tappe. Però andavamo in fuga dopo 60-70 km, quando effettivamente c’era stata lotta prima. Quelli che andavano avevano la gamba. Non dico sempre, ma 6-7 volte su 10 la fuga andava all’arrivo. Adesso li lasciano andare e li tengono lì, sanno già che li vanno a riprendere. Noi eravamo tutto un altro ciclismo. Finché non è arrivato Merckx con la sua squadra e da allora poi è tutto cambiato».
Con i successi cambiò qualcosa?
«Dopo il secondo Giro vinto mollai definitivamente il lavoro, ma fino al 1963 ero ancora un lavoratore FIAT. Il ciclismo è uno sport che richiede passione altrimenti non lo fai, però a un certo livello diventa anche un lavoro. Ti devi adattare. Io poi ho corso in squadre importanti, con Motta, con Gimondi, con i migliori italiani dell’epoca. È un lavoro, ti pagano, e fai anche quello che ti dicono. Per me andava benissimo così».
Vinse il giro di regolarità, un po’ come Pambianco l’anno prima, che non vinse nemmeno una tappa. Quell’esperienza la ispirò in qualche modo?
«Io ero così. Non ero veloce. Arrivavo sempre con i primi già da Dilettante. Le mie caratteristiche erano quelle, però all’epoca non facevi neanche niente per migliorarti. Forse andare un po’ in pista poteva servire ma per l’allenamento non avevi un preparatore, qualcuno che ti dicesse come fare. Andavi come volevi tu. Secondo me la cosa più bella era quella. Io ero uno che doveva allenarsi molto. A Italo Zilioli bastava meno, perché aveva tanta classe. Di Italo non si può dire che non andasse nelle corse a tappe, perché è arrivato tre volte secondo al Giro d’Italia (‘64, ‘65, ‘66). Però arrivava alla fine che gli mancava qualcosa, era al limite. Io invece stavo meglio che all’inizio».
Quell’anno vinse anche la Milano – Torino e il Giro dell’Appennino, dove addirittura staccò in discesa uno specialista come Gastone Nencini.
«L’avevo staccato sulla salita dei Giovi, però avevo pochissimo in cima. Ho guadagnato in discesa perché quella dei Giovi una volta era brutta. Io forse pensavo un po’ troppo in discesa, però quando era il momento di rischiare andavo. Come quella volta sul Valles, quando ho staccato Adorni e Zilioli, che era un gran discesista».
Giro del ’63, nuova vittoria. Questa volta non più come sorpresa ma sempre di regolarità su Adorni e Zancanaro. E sempre con la “Cavalcata dei Monti Pallidi” come palcoscenico privilegiato.
«La riproposero uguale dopo che nel ’62 avevano dovuto interromperla al Passo Rolle e fu determinante anche lì. Adorni, che era in rosa, dice che lui è crollato nel tentativo di inseguirmi. A un certo punto ha visto una maglia della Carpano e pensava che fossi io, ma quando ha visto che era Zilioli ha mollato. Quando era ora, non ci pensavo molto e andavo anche in discesa. Non mi è mai piaciuto rischiare molto nella vita».
Fango, freddo e neve. Queste erano le condizioni in cui lei si sentiva meglio?
«All’inizio no, però sul Rolle ho retto bene. In realtà andavo meglio col caldo».
Vinse il Giro per la seconda volta consecutiva. L’ultimo italiano, prima di lei, Coppi. Il suo nome non è più una sorpresa. Ci arriva da favorito. Questa cosa cambiò il suo modo di correre in qualche modo?
«Sicuramente. Se avessi preso 10 minuti, difficilmente sarei riuscito a recuperarli. Ripetersi è sempre più difficile. Ho avuto la mia “crisetta” al terzo giorno, ma sono riuscito a passarla bene. Poi avevo la squadra che era lì ad aiutarmi, dopo non ho più avuto problemi. Anche se sono andato un po’ piano alla cronometro. Se avessi fatto una crono come si doveva non avrei preso tutti quei minuti da Adorni. Vittorio era l’avversario più pericoloso fin dall’inizio. Nella tappa prima della Cavalcata dei Monti Pallidi c’era l’arrivo a Nevegal. Era una salita dura, quella in cui hanno bisticciato Bitossi e Taccone. In fuga c’erano Pambianco, Zilioli, Ferrari, Partesotti. Quella tappa la vinse Pambianco, secondo arrivò Zilioli. Io e Adorni ci siamo dati battaglia. Adorni ha preso la maglia e io, che ero quinto in classifica, sono risalito. Ricordo che in 24” eravamo 5 corridori. L’indomani l’ho presa io (19°, 7 giugno, Belluno – Moena) per 2’24”».
Un commento su Vito Taccone in quel Giro, dove vinse 5 tappe.
«Di cui 4 di fila. Era un grande scalatore, questo non si discute. Però lui era anche molto veloce. Batteva anche i velocisti, vedi ad Asti. Non vinceva solo in salita. A Oropa arrivammo io, lui e Adorni: ci ha battuti. L’indomani si faceva il Sempione. Lì la maglia rosa ce l’aveva Ronchini. Io sono arrivato quinto, ultimo del gruppetto, però ho preso la maglia. Il giorno dopo si faceva il Gran San Bernardo e si arrivava a Saint Vincent. Lui era di nuovo lì con noi, era più veloce.Avevo 4” di ritardo da Zancanaro. Ho forato a 5-6 km dall’arrivo. Non sapevo se cambiare la gomma o la ruota. Alla fine sono riuscito a rientrare, anche perché l’unico che ha dato battaglia è stato Zancanaro, dato che Taccone non tirava. Primo Taccone, secondo Zancanaro, terzo io».
E Taccone ha vinto anche la famosa tappa con arrivo a Moena, dove lei ha indossato la maglia.
«Anche lì è andato via. Era arrivato a guadagnare fino a 7′! Adorni mi diceva: “Se non tiri vince il Giro”. A me vieni a spiegarlo!? Prima lo mandi via poi vorresti che lo inseguissi? Quando c’è stata battaglia siamo rimasti io, Adorni, Zancanaro e De Rosso. Taccone era quello che scattava di più, ma non aveva il vantaggio che avevo avuto io nel mio primo Giro che, non essendo in classifica, mi lasciavano andare. Se sei lì per vincere la generale, vincere le tappe non è facile».
Nel ’63 provò anche al Tour, ma si ritirò dopo sole tre tappe per una paurosa caduta. Barale la credeva morto… Un Tour molto sfortunato.
«Sicuramente sì. Probabilmente non avrei vinto quel Giro di Francia, c’era Anquetil che era superiore. Non si discuteva. Però visto che è arrivato secondo Bahamontes, che aveva già i suoi anni, penso che sarebbe stato un obiettivo possibile. Lo spagnolo andava, però credo che sarei potuto arrivare secondo. Sono stato in effetti molto sfortunato. Mi era finito il cambio nei raggi, me l’ha raccontato poi il meccanico. Il cambio non c’era più e la catena era tutta attorcigliata sulla ruota libera. Ho fatto una capriola completa e sono finito in una maschera di sangue. In quel momento non mi è venuto addosso nessuno perché altrimenti addio».
Il Tour non lo vinse mai, però c’è una sua dichiarazione in cui si definiva portato per il Tour.
«Mi piaceva molto di più il modo di correre che c’era là che non al Giro d’Italia. In Francia c’era più battaglia. In Italia quando c’erano 3-4 salite la prima e la seconda le facevamo piano e poi si partiva e nel finale andavi veramente. Là invece, con gli spagnoli in modo particolare, come c’era una salita attaccavano. Era più il mio modo di correre, mi piaceva di più. Purtroppo poi ho fatto solo quello del 1967, il primo dei due a squadre nazionali. Sono tornato anche nel 1969, nell’unico anno in cui ho saltato il Giro perché avevo avuto un incidente alla Bernocchi. Mi avevano dato 33 punti al ginocchio. Era il Giro in cui hanno mandato a casa Eddy, io non c’ero. Ne ho fatti 11, ma in quello non c’ero».
Nel ’64 passa alla Cynar. Un Giro duro, con la Cuneo – Pinerolo 15 anni dopo. Lei forza e va in fuga, vincerà Bitossi. Lo perde lì?
«No, diciamo che non sono andato piano in quel Giro. Ho perso 1’15” ad arrivare a San Pellegrino (terza tappa, Brescia – San Pellegrino Terme), dove ha vinto Bitossi e messo la maglia Enzo Moser. Poi nella tappa di Pedavena, dove vinse Mugnaini, facevamo il Croce d’Aune. Io non passavo mai primo su una salita, sapevamo però che dopo c’era la discesa sterrata, e allora cercavi di prenderla in testa. Passai per primo e mi buttai in discesa. A un certo punto ero secondo, ho forato e mi sono fermato. Anche Zilioli ha forato, ma lui è andato giù con tutte e due le ruote sgonfie, mentre io ho aspettato l’ammiraglia con il direttore sportivo. Purtroppo aveva forato anche Maurer, per cui Bergamaschi era già fermo con lui, e così ho perso un altro minuto e mezzo, sennò in quell’occasione avrei potuto vincere ancora. La sfortuna in realtà era stata precedente: il DS alla Cynar avrebbe dovuto essere Pierino Bertolazzo ma una sera, in ritiro a Diano Marina, ha avuto un’emorragia ed è mancato. Se fosse rimasto lui, chissà. Fino alla fine ero sesto o settimo, a 3′ da Anquetil. Poi mi sono fatto un po’ prendere dalla Cuneo – Pinerolo e ho attaccato, ma del resto mancavano solo tre tappe. Andò male e i minuti al Milano furono 6, tondi tondi».
Nel ’65 la Sanson viene costruita solo per lei. Cosa non andò?
«Per me e Zilioli: i capitani eravamo noi due. Ho fatto due anni alla Sanson (1965-1966). Cynar chiuse ma io avevo firmato con Giacotto, per cui pensavo che saremmo diventati Carpano, visti i soldi che lo sponsor metteva. Siamo andati in Riviera in 10-11 con la maglia bianca senza nome o scritte. Abbiamo fatto anche la Parigi – Nizza senza nome, con la sola “P” di Piemonte. Durante la corsa Giacotto ha trovato la sponsorizzazione Sanson. La prima corsa che abbiamo fatto con la maglia è stata la Milano – Sanremo. Quella in cui eravamo via io e Adorni. Poi è arrivato Den Hartog. Alla fine primo l’olandese, secondo Adorni, terzo io. Poi nel ’66 Giacotto non era più direttore sportivo, sostituito da Antonio Covolo (CT azzurro nel 1962). Si doveva continuare anche nel 1967, ma ci fu l’incidente di Marcoli: dopo aver vinto la Bernocchi, Raffaele andò a provare una macchina insieme alla fidanzata lungo la strada statale 33 del Sempione e morì. Era il corridore più vincente in squadra. Forse per questo, avendo perso l’uomo di punta, la Sanson non rinnovò la sponsorizzazione. Passai alla Molteni, mentre Zilioli andò alla Salvarani. Sanson ha poi rifatto la squadra nel 1969 con Motta».
Nel ’67 arriva alla Molteni, squadra con Altig e Motta. Secondo al Giro, terzo al Tour, dove va con una squadra nazionale che di fatto è la Molteni. La sua squadra era la Primavera. L’Italia invece aveva Gimondi.
«Gimondi aveva con sé 8 Salvarani e 2 Filotex, mentre noi della Primavera, guidata da Gastone Nencini, avevamo 4 Molteni e 3 Max Meyer. Veniva chiamata Primavera, ma possiamo chiamarla la B».
Lì, secondo lei, se ci fosse stato un po’ più di gioco di squadra avrebbe potuto giocarselo quel Tour?
«Roger Pingeon, che vinse, è andato forte. All’inizio ha preso 8-9 minuti nella tappa su in Belgio (la quinta, nella prima semi tappa, Roubaix – Jambes). Poi non è che qualcuno gli ha regalato qualcosa. Avevamo due compagni: Polidori e un altro, forse Portalupi o Viera, per la classifica. Polidori ha messo anche la maglia gialla, nella terza tappa con arrivo ad Amiens, a quel Giro di Francia. Correva nella Vittadello. Ci aiutavamo, ma sicuramente non con la squadra di Gimondi. C’era già stata confusione al Giro d’Italia».
In che senso?
«Alla corsa rosa ero andato forte. La prima tappa arrivava ad Alessandria e siamo arrivati in cinque. Primo Zancanaro, secondo Durante e terzo io. Nella seconda tappa (Alessandria – La Spezia) non ho perso tanto, 3 minuti e qualcosa. Ricordo poi l’arrivo a Potenza (decima tappa, 29 maggio): agli ultimi 3-4 km Gianni Motta, mio compagno di squadra, ha forato. In quel momento Gianni stava andando come era andato al Giro del 1966, cioè forte, ed era giusto correre per lui. Lo rifarei sempre di fermarmi e dargli la bicicletta. Lì ho perso un minuto. Alla fine, alla penultima tappa, con arrivo a Tirano (10 giugno), dopo l’Aprica, la classifica vedeva Anquetil in maglia rosa, Gimondi a 27” e io a 40”. Il giorno dopo la tappa sarebbe stata divisa in due: la prima semitappa arrivava in cima al Ghisallo, la seconda dal Ghisallo a Milano. Eravamo lì come distacchi. Nella tappa dell’Aprica Gimondi è andato via, Anquetil non ha più tirato e fine della storia. Il giorno dopo, al Ghisallo, ho saltato Anquetil in classifica. C’è stata battaglia, siamo rimasti in 4. Ha vinto lo spagnolo Gonzales, secondo io, davanti a Panizza. Gimondi ha perso un minuto, però ormai avevo perso 3 minuti il giorno prima».
Tornato da Parigi, diventa campione italiano al Giro di Toscana, 256 km da Firenze a Poggibonsi contro Gimondi e Motta. Se l’aspettava?
«No, ma andavo forte. Anche perché, come dicevo prima, io finivo le corse a tappe in condizione. La corsa era una settimana dopo il Giro di Francia. Oltretutto da Parigi non ero venuto a casa, ma ero andato a fare i circuiti in Belgio. Ero rientrato il sabato in treno. Avevo corso fino al venerdì sera. Al Campionato ho avuto il vantaggio di avere un buon colpo di pedale. Alla fine, prima del San Giovanni, eravamo una quindicina di corridori, di cui 4 Molteni ( io, Motta, Pasuello e Podrera). Se riesci ad andar via un vantaggio ce l’hai, avendo i compagni di squadra dietro. Cose che succedono. Con Gianni Motta sempre stato legato».
Ultimo squillo al Tour del ’70, dove vinse la classifica a squadre con la Salvarani, che all’epoca valeva la maglia verde. Come andò? Chi c’era con lei?
«Quella classifica era importante, perché vincevi gli stessi premi di chi vince il Tour de France nell’individuale. Avevamo Arnaldo Pambianco come direttore sportivo. Luciano Pezzi è arrivato gli ultimi 5-6 giorni, perché con gli altri (Altig, Gimondi, Zandegù) era stato al Giro della Svizzera, vinto da Poggiali. Al Tour con me c’erano Panizza, Mori, Godefroot, Houbrechts e Guerra. Eravamo veramente una bella squadra. In classifica generale non abbiamo fatto granché. Deve essere arrivato ottavo Houbrechts, io 12° e Schiavon, che era caduto all’ultima cronometro, era in classifica prima del ritiro. Quando sento Arnaldo mi dice sempre: “quella era la mia squadra”, perché correvi per la squadra. La squadra, secondo me, dovrebbe sempre correre come tra fratelli. Quello stesso spirito che aveva portato Giacotto. Se ripenso al 1962 non posso che ringraziarlo. Capisco che, pubblicitariamente, Defilippis fosse l’uomo simbolo della Carpano e se avesse vinto lui il Giro del 1962 sarebbe stato meglio per la Carpano. Però Giacotto ha guardato chi fosse più adatto a vincere, dovrebbe essere sempre così. Invece in tante squadre preferivano arrivare secondo o terzo con l’uomo immagine piuttosto che rischiare di vincere con un altro. Il ciclismo di quegli anni era così».
La sua gioia più grande e il rimpianto più grande.
«La gioia sicuramente vincere il primo Giro d’ Italia. Il rimpianto essere caduto a quel Tour del 1963. Come dicevo non lo avrei vinto di sicuro, però avendo già vinto due Giri d’Italia e arrivare a 23 anni secondo al Tour avrebbe potuto essere una svolta della carriera. Un altro rimpianto forse il Campionato del Mondo di Salò, nel 1962: ero riuscito a entrare nella fuga buona. Eravamo in sei, ma all’ultimo giro mi sono staccato. Ero caduto il lunedì precedente, fuori in montagna con Bailetti, Sartore, Gentina e Barale. Partivamo presto. C’era un ponte che facevamo tutte le mattine, con un tubo dell’acquedotto che perdeva. Giornata ventosa e tutta la strada bagnata. L’unico che non è caduto è stato Toni Bailetti, perché gli si è sfilata la gomma ed è rimasto sul cerchione. Io mi sono piantato una leva del freno in corpo. Defilippis che non veniva con noi ma partiva dopo da solo è arrivato nello stesso punto ed è caduto anche lui! Era un Mondiale dove potevo aspirare a qualche medaglia. Eravamo in fuga con due francesi, Elliott e Stablinsky: il primo lavorò molto per il secondo, che poi vinse. Io mi ritirai quando ero quinto».
“Silenzioso” in gara quanto loquace nel rivivere la sua carriera, Franco Balmamion ci ha raccontato tutto con grande lucidità e presenza, ricordando non solo distacchi con la precisione dei secondi ma persino con chi era nelle fughe e negli allenamenti. Una memoria straordinaria che dà la cifra di quanto furono intensi quegli anni, quando le carriere dei corridori erano più brevi e spesso si smetteva poco dopo essere diventati trentenni. Fu anche il suo caso. Nel ’72, dopo due anni senza vittorie alla SCIC, diede l’addio alle corse. Non è un campione celebrato come furono altri della sua epoca, ma le sue pedalate erano pesanti al punto da aver collezionato due primi posti e un secondo al Giro, più un terzo al Tour, grazie alla sua continuità piuttosto che al suo talento. Vincere senza vincere: è un’arte anche questa.