Il 16 agosto 2019 Felice Gimondi ha lasciato questa terra, un giorno tristissimo per tutti gli appassionati del mondo ciclistico e non solo.
Per raccontare il percorso della vita di questo campione, dobbiamo arrampicarci in cima alle salite, seguire le pieghe delle curve, respirare la polvere della strada, solo allora possiamo capire come Gimondi sia diventato Gimondi.
Una vita trascorsa sulle due ruote, a partire dalla fine degli Anni ’50, quando i tempi di Coppi e Bartali sono ormai finiti e c’è voglia di nuovi idoli che facciano sognare, capaci di far rivivere i vecchi duelli ed emozionare le folle. I più attenti hanno adocchiato in un giovanotto bergamasco, la promessa di un futuro campione. Si chiama Felice Gimondi e si è messo in luce in tutte le corse più significative della categoria dilettanti.
Gli esordi e il Tour del ’65
Nel 1965 Gimondi firma il suo primo contratto. Ad aiutarlo in questa nuova avventura ci pensa direttamente il capitano della squadra, Vittorio Adorni, che lo prende sotto la sua ala protettrice, lo fa dormire in camera con lui e gli insegna tutti i trucchi del mestiere. In quello stesso anno la nuova coppia italiana conquista letteralmente il Giro d’Italia: Adorni si classifica al primo posto e Gimondi al terzo. La sua stagione tra corse classiche e Giro dovrebbe chiudersi qui, ma Felice sa bene che una grande avventura non è tale senza il fattore sorpresa. Alla vigilia del Tour de France, Battista Babini è vittima di un infortunio poco prima della partenza e così il giovane Gimondi è chiamato in fretta e furia a partecipare alla gara più importante del mondo.
Adorrni dice a Felice: «Fai una settimana sola e poi torni a casa, così ti sei fatto l’esperienza di fare un Tour».
Il grande favorito del Tour del 1965 è Raymond Poulidor, da tutti è considerato l’eterno secondo, perché si piazza sempre alle spalle di Jacques Anquetil, ma quell’anno con il campione normanno rimasto ai nastri di partenza per Poulidor è arrivata finalmente la grande occasione. Sono pochi gli avversari che lo impensieriscono, tra gli italiani il giovane Gianni Motta e il capitano Adorni. Nessuno si aspetta che Gimondi possa vincere, neanche i suoi compagni di squadra, che dalle prime tappe lo lanciano in attacco. Gimondi va in fuga una, due volte, e una fuga dopo l’altra il giovane italiano arriva ad indossare la mitica Maglia Gialla. Tutti lo sottovalutano e Poulidor alla terza tappa accusa un ritardo di 4 minuti.
Nella crono individuale a Châteaulin, Poulidor riesce a vincere, ma Gimondi gli respira sul collo, e guadagna secondi preziosi che gli consentono di rimanere in testa alla classifica. Capitan Adorni nel frattempo è costretto a lasciare il Tour a causa di un’intossicazione alimentare e Gimondi, rimasto solo, ha una battuta d’arresto sul Monte Ventoux dove vince Poulidor che con questa tappa accorcia le distanze. Ma Felice è sempre lì e ai francesi ricorda Fausto Coppi, perché il ragazzo, corre allo scoperto, è sempre lì in prima linea. A quattro giorni dalla fine del Tour Poulidor si gioca tutto nella specialità in cui va più forte, la cronoscalata, e il 10 luglio nella Aix-les-Bains – Mont Revard tre salite ripidissime aspettano i corridori. Gimondi nel primo colle perde 13” nei confronti del francese, ma superata la prima salita si scatena e nel finale di tappa è inarrestabile, recupera e supera perfino Poulidor di 23”. È l’apoteosi. “Demonio giallo”, così lo definiscono i giornali dell’epoca Non resta che correre l’ultima tappa, ancora una gara a cronometro. Gimondi corre verso il futuro, fino a Parigi, dritto dritto a Parco dei Principi, alle porte di una nuova vita in cui il 14 luglio 1965 vince il 52° Tour de France.
«Mia mamma faceva la postina, eravamo tre fratelli più mio papà. Diventai supplente postino di mia mamma, le frazioni del paese le facevo tutte io, in bicicletta, su e giù… Papà aveva una piccola impresa di trasporti, continuavo a lavorare con lui nella manutenzione dei mezzi, aggiustavamo i freni, le gomme. Finché non ho vinto il Tour quando decisi di fare il corridore…»
Un’educazione fatta di cose semplici, da qui proviene la tenacia di Gimondi, merito anche di due genitori modesti ma rigorosi, e che ora invece di un aiutante postino si ritrovano in casa un campione a tempo pieno.
La Roubaix del ’66
Gimondi non dimentica neanche per un attimo le sue origini, e resta con i piedi per terra anche quando, di ritorno a Sedrina dopo la vittoria al Tour, il paese lo accoglie con tutti gli onori, ma questo è solo l’inizio, la prima volata di un giovanissimo ciclista che ha ancora davanti a se tanta strada da fare, e appena un anno dopo, il 17 aprile 1966 compie un’altra impresa, domina letteralmente il pavé spaventoso della Parigi – Roubaix.
Il mitico e temuto tracciato, la pioggia, il fango, il freddo e quelle maledette buche… Gimondi scopre sulle sue gambe e sul suo corpo perché la Parigi – Roubaix viene chiamata l’inferno del Nord. All’ingresso del temuto pavé Gimondi ci arriva tra i primi e sicuro tra la scorta dei suoi compagni riesce ad evitare una caduta di gruppo, dopodiché il giovane bergamasco prende il volo e arriva solitario al velodromo, quasi irriconoscibile, aveva i guanti a brandelli e la faccia nera come il carbone.
«Cosa mi ricordo di quel giorno? Il fango, un mare di fango, ma anche il gelo, che però non m’impediva di mulinare sui pedali come pochi. Ricordo che un belga era all’attacco, aspetto che qualcuno si muova. Parte Dancelli e io gli vado dietro. In un amen torniamo sul fuggitivo, poi a Mons-en-Pévèle parto deciso e li lascio tutti lì. Gli ultimi 43 km li faccio da solo: arrivo al velodromo con oltre quattro minuti di vantaggio su Jan Jansen. Un gran bel ricordo»
In quello stesso anno, Felice vince anche la Parigi – Bruxelles, e un’altra grande classica, il Giro di Lombardia. Ormai non ci sono più dubbi, l’Italia del ciclismo ha trovato il suo nuovo idolo.
I grandi giri del ’67 e del ’68
Sono anni in cui il ciclismo è molto popolare, anche perché volti noti dello spettacolo ci cimentano in commenti e trasmissioni televisive soprattutto in occasione del Giro d’Italia. Ed è proprio nel Giro del 1967 che Felice Gimondi deve dimostrare il suo valore e l’esperienza maturati in questi anni di professionismo, i presupposti però, non sono dei più rassicuranti. Il cardiologo dopo averlo visitato al ritiro di Imola, sentenzia: «questo ragazzo è stanco, avrebbe bisogno di riposare e non di partire per il Giro d’Italia». Gimondi però il 20 maggio nonostante una condizione approssimativa è alla partenza della prima tappa proprio a Treviglio, non lontano da casa sua. In quel giro c’è un ciclista più degli altri che contende i favori del pronostico a Gimondi: Jacques Anquetil. Il fuoriclasse francese è un osso durissimo, ha già vinto cinque Tour de France, due Giri d’Italia e la Vuelta di Spagna, il primo ciclista della storia ad aver vinto le tre grandi corse a tappe.
Gimondi all’inizio fa molta fatica, e nonostante il grande impegno, non incide come vorrebbe, fino al giorno in cui si corre una tappa destinata a lasciare il segno, soprattutto per lui. È l’8 giugno, la tappa parte da Udine e arriva alle Tre Cime di Lavaredo. Sull’ultima salita le condizioni sono quasi proibitive, la strada è quasi una mulattiera, un sentiero impraticabile, la pioggia battente a tratti si mischia a nevischio. I rapporti delle biciclette sono impossibili per quell’erta e in quelle condizioni, così i tifosi iniziano ad aiutare i ciclisti esausti. Gimondi stacca tutti e vince la tappa, ma all’arrivo per lui c’è una brutta sorpresa. A causa delle spinte eccessive ricevute dai corridori, i giudici decidono di annullare la tappa. Felice è furibondo, sostiene di non avere ricevuto spinte e fatica ad accettare la decisione di Torriani. La notte a Cortina è tormentato:
«Quella sera a Cortina volevo quasi venire a casa, mi ero rotto, ho detto ormai non lo vinco più».
Alla fine ci ripensa, decide di rimanere in sella, sia per se stesso che per il bene di quello sport che ha così tanto seguito tra la gente. La tappa del 10 giugno è quella della svolta. Nel tappone dell’Aprica, Gimondi sferra l’attacco sul Tonale e scollina con un minuto su Jacques Anquetil che lo riprende in discesa verso Ponte di Legno. Allora Felice gioca una carta a sorpresa: salta il rifornimento e se ne va, per poi spianare l’Aprica e scavare fra sé e tutti gli altri un abisso. Rifila 4’09” ad Anquetil e così, a un giorno dalla fine, si prende il suo primo Giro d’Italia.
L’anno seguente, il 1968, Felice Gimondi vince anche la Vuelta, e diventa dopo Anquetil il secondo ciclista ad aggiudicarsi le tre corse a tappe. A soli 25 anni, è ormai è entrato nella storia del ciclismo.
Gli anni della rivalità con Eddy Merckx
La carriera e la vita di Gimondi procedono come meglio non potrebbe, e al Giro del 1968 è pronto a fare emozionare di nuovo i tifosi italiani ma tra i protagonisti c’è anche un corridore belga che sta andando come un treno. Questo giovane risponde al nome di Eddy Merckx, è il campione del mondo in carica e corre per la Faema, la squadra in cui si è appena trasferito Adorni.
La tappa decisiva di quel Giro si corre sulle Dolomiti: chi vuole conquistare la Maglia Rosa finale deve contenderla agli avversari, arrampicandosi ancora una volta fino alle Tre Cime di Lavaredo, proprio quella vetta impervia che l’anno prima aveva rischiato di compromettere il Giro. I corridori partono da Gorizia, e iniziano la loro lunga giornata di sofferenze. Decine e decine di chilometri in salita in un implacabile rosario di fatiche, e mentre Gimondi, Merckx e Adorni si studiano, un gruppetto di 13 fuggitivi, parte presto in avanscoperta, il belga giovane e focoso vorrebbe scattare subito per andarli a riprendere, ma il suo capitano invece è di un altro avviso e fa di tutto per tenerlo a freno. Merckx accetta di stare agli ordini di Adorni ma quando mancano 10 chilometri all’arrivo delle Tre Cime, sul passo Tre Croci, parte come una furia e uno acciuffa uno a uno i componenti della fuga. Gimondi è crollato e arriva sul traguardo con 8 minuti di ritardo. Qualche anno dopo a proposito di quella giornata da tregenda, dirà:
«Ho pianto perché ho visto dei miei compagni di scuola di Sedrina che mi correvano di fianco sulle Tre Cime, che piangevano come dei bambini vedendo me in crisi, e quando sono arrivato su in rifugio mi sono messo a piangere io per loro».
A di là di tutto anche Gimondi si unisce all’ammirazione per Merckx. Il campione belga ha costruito un capolavoro del ciclismo moderno, degno di certe tappe epiche del dopoguerra. In mezzo alla montagna coperta di nebbia e sferzata dalla bufera di neve ha staccato tutti, ha riconquistato la Maglia Rosa e ha messo una seria ipoteca sul trionfo finale. A nulla valgono gli sforzi e qualche vittoria di tappa di Felice: il 12 giugno 1968 Merckx vince il Giro d’Italia dando così inizio alla sua era.
L’anno seguente il campione belga non può che essere l’ovvio favorito della gara e quando il Giro entra nell’ultima settimana ha già vinto 4 tappe e veste la Maglia Rosa da 6 giorni. Il vantaggio su Gimondi è di soli 1’41” ma la sensazione è che sia già imprendibile. A Savona, però, il Giro si tinge di giallo. La mattina del 2 giugno del 1969, quando Eddy è pronto ad andare alla partenza della 17° tappa, viene annunciata la sua positività al controllo antidoping e viene escluso dalla corsa. La notizia suscita un clamore enorme, anche perché la televisione trasmette le immagini di Eddy Merckx steso sul letto della sua stanza che risponde tra le lacrime alle domande di Sergio Zavoli. All’intervista segue un dibattito in studio con ospiti del calibro di Indro Montanelli, Enzo Biagi, Pierpaolo Pasolini, questo per rendere l’idea di come la vicenda travalichi l’ambito sportivo. La squalifica scatena un putiferio diplomatico. In Belgio dove il ciclismo è una religione, viene addirittura convocato l’ambasciatore italiano a Bruxelles per avere spiegazioni, tanti sono i lati oscuri.
A questo punto, comunque, la Maglia Rosa va a Gimondi che a sorpresa si rifiuta di indossarla. Per lui contro Merckx è stata fatta un’ingiustizia e il suo carattere leale gli impedisce di restare in silenzio.
«Io penso che sopra il ciclismo ci siano delle cose molto più grandi, come la morale di un uomo che vale molto di più che vincere una corsa in bicicletta».
Con l’esclusione del rivale, Gimondi passa in testa alla classifica e a quel punto il Giro è nelle sue mani, ma è una vittoria con un retrogusto troppo amaro per gioire perché sa che il mancato confronto con Merckx gli ha tolto qualcosa.
«Ho impiegato due anni per capirlo: era più forte di me, e quindi anche psicologicamente ho dovuto correggere il mio modo di essere, il mio modo di correre. Primo non prenderle, poi se possibile anche darle, anche se era dura dargliele a quello lì, perché è stato il più grande di tutti i tempi».
Come Coppi e Bartali
Agli inizi degli anni 70 Gimondi ha ormai capito di essere incappato nel suo Coppi, e proprio come Bartali decide di affrontare l’eterno rivale con tutta la grinta e l’orgoglio che ha. Racconta Adorni: «La rivalità è nata da sola in gara, poi è esplosa a livello mediatico: c’è stato un periodo in cui non si parlava d’altro che di Merckx e Gimondi».
L’occasione perfetta per una sfida tra due antagonisti così, si presenta nell’estate del 1971, ai mondiali di Mendrisio. È una corsa di una sola giornata e il titolo iridato è un appuntamento a cui nessuno dei due rivali vuole mancare. La sfida perfetta: i due campioni staccano il gruppo, si arrampicano sull’ultima salita, restano soli, affiancati, fino a quando il Cannibale chiede a Gimondi di tirare. Purtroppo il bergamasco cade nel tranello di Merckx, tanto che è costretto continuamente a voltarsi fino a quando, a soltanto 250 metri al traguardo, Merckx scatta fulmineo, lo sorprende e va a vincere il titolo Mondiale. Il giorno dopo il Corriere Della Sera scriverà a tutta pagina “Merckx Iridato, Gimondi batte il resto del mondo”. I due campioni erano molto diversi tra loro, sia in pista sia fuori. Più chiuso Gimondi, estroverso e pronto allo scherzo Merckx. Diversi ma – come loro stessi riconobbero – uniti dalla comune stoffa del campione. Spesso a dividerli sono solo pochi secondi, un soffio che fa la differenza a favore del belga ma che consegna comunque entrambi alla storia del ciclismo. Gimondi comunque, caparbio com’è, ha deciso di non arrendersi e di dar fondo a tutto ciò che ha per tornare un giorno a battere Merckx.
Una promessa mantenuta
Arriviamo così a Barcellona. È 2 settembre 1973 e sono passati due anni da quando Gimondi ha promesso di tornare a vincere. Alla vigilia del nuovo Mondiale però, il fantasma di Merckx, non è ancora svanito, anzi è più vivo e forte che mai grazie a una delle squadre più competitive che il Belgio abbia mai schierato in campo: un corridore roccioso come Roger De Vlaeminck e uno sprinter di belle speranze come Freddy Maertens, tutti uniti per il loro capitano Eddy Merckx.
Sotto il cocente Sole catalano, la gara fa presto selezione e quando sono stati percorsi solo 90 km dalla partenza nel gruppo dei primi sono rimasti solo i migliori, tra cui naturalmente Merckx, Gimondi e il giovane Maertens. Quando manca ormai pochissimo al traguardo, i ciclisti sono ormai stremati, ma il capitano belga può contare sull’aiuto del giovane compagno di squadra che vorrebbe scortarlo fino all’arrivo. Maertens comincia a tirare la volata con tutta la forza che ha al punto di esagerare e rischiare di tagliare le gambe a Merckx. Mentre i due corridori belgi soppesano l’errore, Gimondi li rimonta. Ha gambe, fiato e tanta voglia di alzarsi sui pedali per correre verso il titolo iridato. Fulmineo, si stacca dalla ruota del rivale belga sorprendendolo: stavolta il primo al traguardo è lui. Tra due ali di folla, Gimondi, vince il Campionato del Mondo sul circuito del Montjuïc, mantenendo la promessa che aveva fatto a sé stesso contro ogni pronostico e il comune sentire di quegli anni. Merckx dirà ai giornalisti: «Gimondi mi ha battuto perché è arrivato alla fine che era più fresco di me: è stata la delusione più forte della mia carriera».
L’anno successivo, il 1974, Felice Gimondi farà sua anche quella corsa che tanto aveva tanto desiderato ma non era ancora riuscito a vincere: la Milano – Sanremo, la gara dove tutti i gli addetti ai lavori lo davano per sfavorito. Quando Felice Gimondi taglia per primo il traguardo di via Roma ha 32 anni e tante vittorie alle spalle: un Tour de France, due Giri d’Italia, una Parigi – Roubaix, un Mondiale. La Sanremo è il degno epilogo di una carriera onorata che sta volgendo al termine che nell’anno seguente non annovera nessun risultato significativo.
L’ultimo squillo
Quando Gimondi si presenta nel 1976 al 59° Giro d’Italia non lo fa certo da favorito. Oltre che sul Cannibale si scommette sui giovani ciclisti belgi, tra cui Johan De Muynck e su un ragazzo del nord Italia che risponde al nome di Francesco Moser. Felice ha 34 anni e questo sarà per lui probabilmente una specie di Giro d’onore alla carriera prima dell’addio. Qualcuno addirittura si domanda chi glielo faccia fare. Gimondi ha però un carattere caparbio e così, da buon testardo qual è, si ritrova a combattere con i giovanissimi del ciclismo. Proprio uno di loro arriva quasi subito a indossare la Maglia Rosa: è Francesco Moser, che se l’aggiudica vincendo la settima tappa, la cronometro di Ostuni. Il trentino sa che però è presto per gestire la maglia fino alla fine ed è preoccupato, perché gli avversari sono molti e tutti agguerriti. Non sa invece che il rivale di cui deve avere più paura è quello che in questo Giro avrebbe dovuto essere poco più che una vecchia comparsa, Felice Gimondi che il giorno dopo, nella tappa di Lago Laceno e tra la sorpresa di tutti, con uno scatto d’altri tempi va a vincere e a conquistare la Maglia Rosa.
Felice balza al comando della classifica e ci resta per giorni e giorni, davanti a Moser, ai belgi e addirittura davanti al Cannibale, che fino ad allora si era fatto vedere molto poco. Mentre Merckx fa i conti con la stanchezza, Gimondi sembra invece sembra ringiovanito e per ben dieci tappe difende la Maglia Rosa. Quando però manca meno di una settimana alla fine del giro, una brutta caduta gli fa perdere il primato a favore del belga De Muynck. Il rischio è che debba abbandonare la corsa,ma ormai lo sanno tutti: Felice non si arrende mai. Risale in bici e corre la tappa che da Terme di Comano arriva a Bergamo, a casa sua. Moser è convinto di vincerla, quella volata, grazie a due compagni di squadra sul rettilineo d’arrivo, e così Merckx tenta di anticiparlo. In vista del traguardo di Bergamo, i due vecchi leoni rimontano su Moser e proprio all’ultimo Gimondi stacca lo storico rivale e vola da solo verso la vittoria. Quella del campione italiano è una volata da manuale che vanifica l’ultimo tentativo di Merckx di vincere qualcosa al Giro. È la fine del Cannibale e della sua era, con cui si conclude anche la rivalità con Gimondi e uno dei capitoli più belli nella storia del ciclismo.
Il 12 giugno il Giro è alla sua 21° tappa. La Maglia Rosa è ancora sulle spalle di De Muynck ma Gimondi è a pochissimi secondi. La prova decisiva è la cronometro di Arcore. Felice ci arriva tesissimo, presentandosi alla partenza un minuto e mezzo prima. Una volta partito, la tensione improvvisamente sparisce e i chilometri filano via veloci ad ogni pedalata. Gimondi è inarrestabile, sicuro, proteso verso il traguardo più importante della sua carriera. A trentaquattro anni l’arrivo ad Arcore rimarrà il suo capolavoro e per il belga De Muynck non c’è più niente da fare: deve rassegnarsi a cedere la Maglia Rosa al bergamasco.
Gimondi entrerà a Milano da campione. Ha vinto il suo terzo Giro e – cosa che più conta – ha mantenuto la promessa di sconfiggere Merckx in una corsa a tappe. Da quel giorno Gimondi continua a macinare asfalto ancora per un paio d’anni, non potendo resistere all’adrenalina delle corse. Poi nel 1978, al Giro dell’Emilia, arrivato al traguardo, scende dalla bicicletta, questa volta per sempre.
«Scavalcata la transenna mi misi a piangere e piansi fino all’albergo perché avevo capito che la mia avventura era finita».
Per uno sportivo lasciare lo sport è sempre doloroso. È uno strappo che anche se sai che prima o poi ci sarà, quando poi succede fa lo stesso molto male. Anche per Felice Gimondi, come per molti altri prima e dopo di lui, rinunciare a essere in prima linea e abbandonare le competizioni non è stato semplice, ma lui – da uomo saggio – non si è perso. Anzi ha imparato ad amare le due ruote anche in seguito senza aver bisogno dell’adrenalina del traguardo.
La storia sportiva di Felice Gimondi è stato un dono per le generazioni di tifosi – italiani e non – che lo hanno potuto ammirare e amare. Un atleta straordinario, un corridore intelligente e mai domo, un uomo caparbio, una persona per bene.
Foto credits: archivio di Carlo Delfino