Questa è una storia strana, un racconto che ci riporta indietro fino all’inizio del secolo scorso.
Una storia incastonata nella lussuosa e confusionaria fastosità d’inizio Novecento conosciuta anche come Belle Époque, e il protagonista di questo racconto è un ragazzotto di un metro e settanta, aitante, baffuto e scapigliato, che correva in bicicletta per mestiere. Un atleta versatile che calcava le strade e le piste italiane ed europee, dotato di un buon passo, veloce quanto basta, malizioso, tattico e decisamente scaltro, in quel ciclismo a cavallo dei due secoli, dove non mancavano certo le botte segrete, i passaggi a livello addomesticati, le bevande sospette, le coltellate alle gomme, i chiodi, i colpi assassini che ti facevano stramazzare lungo e disteso per terra.
Arezzo, 10 dicembre 1878, nasce Ernesto Mario Brusoni, ma tutti lo conosceranno con il nome di Enrico. Il padre è un austero ingegnere delle ferrovie che si trova nella città toscana con la famiglia per motivi di lavoro. Si trasferiranno a Bergamo poco dopo e ci rimarranno per sempre. Intanto il piccolo Enrico cresce coltivando una passione che in quegli anni sta spopolando in lungo e in largo per la penisola: Enrico sarà un ciclista o, per meglio dire, un velocipedista. I Brusoni non sono affatto poveri, il ragazzo non pedala per rabbia o per amore, corre perché gli piace e sogna di diventare un campione. Non patisce gli stenti come molti ciclisti del tempo, Enrico può dedicarsi completamente e in tranquillità agli allenamenti lungo le strade della Brianza, senza bisogno di lavorare in contemporanea, specie in quegli anni quando anche una bistecca poteva rappresentare un privilegio.
Il giovane Brusoni, all’età di diciassette anni, figura addirittura tra i fondatori del Velo Club Orobia, del quale viene eletto consigliere, e intanto sulla pista del ciclodromo bergamasco inizia a mettersi in mostra sia nella velocità che nelle corse dietro motori. Il suo esordio avviene nella Milano-Salsomaggiore e le vittorie non tardano ad arrivare. Riesce a vincere anche delle corse su strada piuttosto importanti, come la Coppa del Re nel 1898, e a stabilire il Record dell’Ora dietro motore con 54,785 km. Nel 1899 strappa a Rodolfo Muller il Record dell’Ora italiano.
All’inizio del 1900 il ragazzo si spinge fino a Parigi per provare il campionato mondiale di velocità su pista, ma viene eliminato da colui che risulterà poi il vincitore, il belga Léon Didier Nauts. Vincerà però la prova internazionale ad handicap battendo l’americano John Lake e, approfittando del buon stato di forma, deciderà di tentare il record mondiale di mezzofondo. Il mezzo sarà una pesantissima e ingombrante triplette (un tandem a tre posti), dove lo chauffeur era il milanese Ettore Bugatti, che diventerà poi famoso per essere stato il fondatore del celebre e omonimo marchio di auto di lusso e da corsa. Il tentativo ha pieno successo, tanto che allo scadere dei 60 minuti Brusoni ha percorso 51,783 km, risultato straordinario per quei tempi.
DISTANZE CHILOMETRICHE
Nel 1901 Brusoni vince il campionato italiano di Velocità dilettanti e il 20 giugno del 1902 si presenta ai nastri di partenza della Gran Fondo che per 540 chilometri va da Milano a Torino, attraversando tutta la Pianura Padana. Un impatto rovinoso e quantomeno sospetto tra i due favoriti, Giovanni Gerbi e Romolo Buni, gli spiana la strada e Brusoni ne approfitta per aggiudicarsi la corsa in volata. Chiude la stagione conquistando ancora il titolo nazionale di velocità, ma stavolta da professionista.
Nel 1904 ottiene la sua vittoria più clamorosa, in una affollata Gran Fondo che vede al via 73 concorrenti sulla distanza di 600 chilometri. La cronaca riferisce che la corsa parte alle ore 16:30 del 16 luglio da Milano direzione Bologna, risalendo poi verso Verona prima di dirigersi nuovamente in direzione del capoluogo lombardo. Su quelle strade sterrate è piuttosto facile forare, cosa che capita anche a Brusoni, che decide di cambiare la ruota con il romano Alfredo Sartini, detentore al tempo del record delle 24 ore. Questa mossa da regolamento non è consentita, pena squalifica immediata, ma l’operazione è conclusa con la promessa di un pollo e di una parte consistente del premio finale. La corsa è lunga ed estenuante, uno alla volta cedono quasi tutti, si ritirano il Diavolo Rosso Gerbi e Giovanni Rossignoli, mentre Brusoni, superata una crisi per la stanchezza e la sete, si presenta con i primi all’ippodromo.
Questa è la cronaca che ci è stata tramandata: «Era già sera quando avvenne l’arrivo, un gruppo di dieci uomini irrompeva sulla pista. Fu un volatone di ombre, di sudore, di fango, di grida. Nessuno vide nulla sino ai duecento metri. A cento metri si distinse Cuniolo, poi De Rossi, poi un’ombra, poi il resto. A 50 metri una maglia nera si fece avanti a tutti con la testa sotto il manubrio, era lui». Brusoni precede di mezza ruota Ugo Sivocci, che divenne poi famoso come pilota automobilistico e compagno di Enzo Ferrari in Alfa Romeo. Tempo impiegato: 28 ore 37’05”! Intascò le 1000 lire poste in palio per il vincitore e altre 1000 gliele regalò la casa costruttrice della bicicletta, la Umberto Dei. La storia non dice se una parte di quel tesoretto finì o meno nelle tasche di Sartini, il quale tuttavia si astenne dal segnalarlo per quel provvidenziale quanto impertinente cambio di gomma.
Per conoscere la strana storia a cui abbiamo fatto riferimento in apertura, dobbiamo ritornare un po’ indietro nel tempo, in quella che era ritenuta la capitale d’Europa, la meravigliosa Parigi, la regina della Belle Époque, perché in occasione del congresso olimpico del 1894 il barone Pierre de Coubertin propose che i Giochi Olimpici del 1900 si tenessero in contemporanea all’Esposizione Universale già programmata per quell’anno nella capitale francese, nonostante le richieste della Grecia, che avrebbe voluto essere designata in perpetuo come sede unica dei Giochi.
Comunque tutte le risorse dello stato erano già state assegnate all’Expo e, nella realtà, il governo francese estromise il barone de Coubertin, ideatore oltretutto dei Giochi stessi, dall’organizzazione delle Olimpiadi, destinando un budget pressoché nullo all’evento. Così le gare furono inserite come una sorta di attrazione, degli eventi collaterali all’interno dell’Esposizione Universale che rimarrà nella storia per aver visto spopolare il cinematografo dei fratelli Lumiere. La maggior parte dei vincitori nel 1900 non ricevette le classiche medaglie, bensì coppe e trofei di varia natura.
Alle Olimpiadi di Parigi furono però introdotte due importanti novità: l’ammissione delle donne alle gare e l’esclusione degli atleti dilettanti, esattamente il contrario di quanto fu deciso ad Atene.
GLORIA IN VELODROMO
La cerimonia d’inaugurazione della II Olimpiade moderna si tenne il 14 maggio e quella di chiusura il 28 ottobre, più di 5 mesi dopo. Si gareggiava solo di domenica. Enrico Brusoni ha l’entusiasmo dei 21 anni quando si iscrive a tre delle competizioni di ciclismo previste dal 9 al 16 settembre nel velodromo di Vincennes. Partecipa alla gara di handicap, alla prova di velocità e alla “course des primes”. Brusoni è un “all black” ante litteram: dai baffi alla maglia con lunghe maniche fino ai calzoncini al ginocchio è tutto nero. Il bello è che metaforicamente riesce a fare neri anche tutti i suoi avversari della gara a punti. Sono in 28 a battagliare sulla pista di 500 metri, ma è quasi sempre Brusoni a mettere la testa davanti.
Una volata al giro per dieci sprint totali: tre punti al vincitore, due al secondo e uno al terzo, che triplicano in occasione del volatone finale. Enrico, però, risolve la questione molto prima aggiudicandosi gli sprint numero 2, 3, 5 e 8. Poi, già che c’è, decide di stravincere prendendosi anche l’ultimo giro. Dietro di lui il tedesco Karl Duill, ma soprattutto un francese che risponde al nome di Louis Trousselier, che il mondo conoscerà meglio pochi anni dopo perché in grado di vincere un Tour de France, una Parigi-Roubaix, una Bordeaux-Parigi e molte altre corse di primo rango.
Così Brusoni il 15 settembre diventa il primo ciclista italiano a vincere una gara olimpica, e secondo medagliato, in quanto la palma di primo italiano a vincere un oro olimpico va al vicentino Gian Giorgio Trissino, che vinse l’oro negli sport equestri il 2 giugno precedente. Comunque nessuna medaglia per Enrico, anzi gli fecero addirittura credere che quelle gare servissero da contorno al grande circo dell’Expo e quindi, amareggiato, se ne ritornò in quel di Bergamo. Il titolo olimpico gli verrà assegnato postumo, nel 1998, ben novantotto anni più tardi, grazie al lavoro di un chirurgo ortopedico del New Jersey, il dottor Bill Mallon, che riveste tuttora la carica di presidente dell’associazione internazionale degli storici olimpici (ISOH). Mallon ha cercato di mettere insieme tutti i pezzi del complicatissimo puzzle olimpico, entrando nelle pieghe di un programma assurdo, interminabile e quanto mai confuso come quello dei Giochi parigini.
Fissando un criterio univoco per dividere le esibizioni stile baraccone da quelle che potevano avere dignità olimpica, Mallon è arrivato a dare una fisionomia più precisa all’Olimpiade parigina, stabilendo in 95 il numero di gare che avevano i requisiti per appartenere alla famiglia a cinque cerchi (contro le 87 ipotizzate in precedenza), per un totale di 1222 atleti partecipanti (22 donne), in rappresentanza di 28 nazioni. Con questo nuovo conteggio, gli italiani ufficialmente presenti sono saliti da 11 a 24. E tra questi c’è l’ignaro campione Enrico Brusoni.
In conclusione, le Olimpiadi di Parigi rappresentarono un netto passo in avanti rispetto ad Atene. Sotto altri aspetti, invece, restava molta strada da fare: “discipline” come il tiro al piccione o il tiro alla fune, gare palesemente truccate e altre disertate per motivi religiosi (si gareggiava solo di domenica) lasciavano ancorati i Giochi in una fase di pre-modernità. In generale, i Giochi del 1900 furono comunque considerati un fallimento. Il CONI considera la vittoria di Brusoni nel medagliere olimpico italiano, mentre il CIO non riconosce ancora questa gara come prova ufficiale del programma della II Olimpiade anche se oggettivamente sarebbe stato tutto dimostrato dal dottor Mallon.
Bisogna infine considerare che le statistiche delle prime Olimpiadi non sono pienamente attendibili, perché non esistono archivi ufficiali dell’epoca e i dati sono stati ricostruiti molti anni dopo ricercando tra varie fonti. Inoltre, nelle prime edizioni dei Giochi la maggior parte degli atleti partecipava a titolo individuale, fino a che non vennero istituiti i vari comitati olimpici nazionali e di conseguenza le delegazioni olimpiche ufficiali dei rispettivi paesi (il CONI fu fondato nel 1914). Insomma, anche se la gara a punti di questa tanto chiacchierata Olimpiade non viene considerata ufficiale dal CIO, lo è a pieno titolo per tutti gli storiografi ufficiali dei Giochi Olimpici e per il Comitato Olimpico Nazionale Italiano. Una medaglia persa e poi ritrovata. Per giunta d’oro, vera, reale e concreta, assegnata al legittimo proprietario quasi un secolo dopo la sua impresa e a cinquant’anni dalla sua scomparsa.
Questa è la storia di un uomo e del suo destino, Enrico Brusoni, il ciclista che conquistò la fama all’inizio del Novecento, senza che nessuno, lui in primis, fosse però a conoscenza del trionfo a cinque cerchi.