Era da poco passato il ferragosto del 1953 quando, in una casa di Alice Superiore, un piccolo paese della verde Valchiusella, Riccardo Filippi, aiutato dalla mamma, preparava la valigia per un viaggio che non avrebbe mai dimenticato.
Selezionato da Giovanni Proietti fra gli azzurri del ciclismo italiano, avrebbe partecipato al Campionato Mondiale su strada a Lugano, sul circuito della Crespera. Settant’anni fa, il 29 agosto 1953, il giorno prima che il Campionissimo Fausto Coppi, completasse il suo palmarès, con l’unica perla ancora mancante, ovvero il mondiale su strada, il giovane ventiduenne canavesano, con una tattica di corsa degna di un navigato campione, si fregiava del titolo iridato fra i dilettanti.
La prima gara la disputò con le scarpe della festa e con un maglione bianco di lana confezionatogli ai ferri dalla mamma. La bicicletta gliela aveva prestata un vicino di casa di Alice, Luciano Arizio. Era senza portaborraccia e Riccardo si infilò una bottiglietta nei pantaloncini. Riccardo continuò a correre su una Frejus, regalatagli dai suoi due fratelli. Fu cresciuto e seguito dai dirigenti della squadra Clement di Ivrea, con i cui colori bianco-blu vinse il titolo nazionale allievi a Bologna nel 1948. Passò per un breve periodo alla U.S. Vigor di Ivrea, aiutato dal mecenate eporediese Antonio Airoldi, presidente del sodalizio, che gli offrì un lavoro e la possibilità di allenarsi. Il giovane Filippi prometteva bene. Si era fatto le ossa vincendo un numero importante di gare con la maglia bianco nera della squadra di Ivrea. I dirigenti lo avevano tesserato per controbattere lo strapotere degli atleti della UISP, di altro colore politico. Filippi mantenne dunque le promesse, trionfando in lungo e in largo sulle strade, e non solo quelle canavesane.
In quegli anni un classico appuntamento per i giovani emergenti era la gara che si disputava fra Torino e Pavarolo, una specie di vetrina del ciclismo giovanile. Su quelle strade polverose si trovò a lottare, a pochi chilometri dall’arrivo, con un ragazzo che sarebbe diventato uno dei più grandi campioni italiani: Nino Defilippis. In testa sull’ultima salitella litigò con il cambio, cadde la catena e la vittoria andò proprio al “Cit” Defilippis. Deluso, al traguardo Riccardo venne avvicinato dal grande Carlo Bergoglio, giornalista e artista di Cuorgnè. Per consolare il giovane canavesano, gli disse: «Vieni qua che ti faccio la caricatura». Filippi fu così immortalato dalla mitica matita di Carlin, che a detta dello stesso Filippi aveva messo troppo in evidenza il suo pomo d’Adamo. Partecipò alle gare locali e vinse la prima edizione del trofeo Migliore, una gara importante, che si disputava sulle sue strade. A pochi chilometri dall’arrivo era in fuga con un altro corridore, che sapeva essere più veloce di lui in volata. Finse di bere e chiese al compagno se volesse dell’acqua. Accettò! Filippi ne approfittò per involarsi e vincere sul traguardo. Certamente quel cambio di borraccia non è famoso come quello di Coppi e Bartali sul Col du Telegraphe al Tour del 1952, ma Filippi, pur perdendo una borraccia, vinse quella corsa.
I successi continuavano e fu notato da Biagio Cavanna. Come tutti gli anni, il massaggiatore cieco di Novi Ligure, personal trainer antesignano di Fausto Coppi, si era recato con la sua squadra, la SIOF, a Cuorgnè, dove si correva il Trofeo Nando Perona, definito da Carlo Bergoglio, che era anche direttore di Tuttosport, «La corsa che crea i Campioni». A quella gara partecipava il fior fiore del ciclismo dilettantistico. Scorrendo i nomi dell’albo d’oro della competizione si leggono fra i partecipanti, oltre ai grandi pionieri del passato, Ettore Balmamion, Giovan Battista Astrua, Francesco Camusso, Giuseppe Martano e Giovanni Valetti, e anche quelli di quei ciclisti che, poco tempo dopo, avrebbero dettato legge fra i professionisti: Guido Messina, Franco Balmamion, Gastone Nencini, Felice Gimondi, Gianni Motta e Gianbattista Baronchelli.
UN CUORE PODEROSO
Timido come era, Riccardo fu condotto da Cavanna, che con le sue sapienti mani gli tastò il trapezio alla base del collo, i quadricipiti delle cosce e i muscoli dei polpacci. Preso in mano il polso del giovane canavesano, restò di stucco, dicendo: «Ragazzo, hai dimenticato il cuore in tasca?». Con grande stupore del massaggiatore e amico di Fausto Coppi, le pulsazioni erano oscillanti fra 34 e 36 battiti al minuto. Proprio come il Campionissimo.
A quel punto Riccardo disse a chi lo visitava che un medico, visto il suo particolare battito cardiaco, lo aveva sconsigliato di continuare a correre in bicicletta! Questa particolarità fisiologica unita al torace possente lo facevano, secondo l’omone cieco di Novi Ligure, una sicura promessa del ciclismo. «Questo ragazzo va bene», sentenziò. D’accordo con la famiglia e i dirigenti della U.S. Vigor, gli spalancò le porte della SIOF, la brillante società ciclistica sponsorizzata da una ditta produttrice di polveri per vernici, con sede a Pozzolo Formigaro, non lontano da Novi Ligure, di proprietà dell’appassionato industriale Pietro Mazzoleni.
Dietro le quinte del traguardo del trofeo Perona, la trattativa fu breve e il presidente della Vigor, Antonio Airoldi, e Biagio Cavanna conclusero il passaggio di Filippi alla squadra tortonese. Venne alloggiato nell’appartamento che lo stesso Cavanna aveva adattato, in via al Castello a Novi ligure, in una vera e propria “scuola di ciclismo”. Una sorta di vivaio per i futuri gregari di Fausto Coppi. Con quegli insegnamenti Filippi imparò a soffrire le fatiche di quel duro sport, ma imparò anche a vivere in squadra, dividendo la camera con Michele Gismondi e Giuseppe Favero. Gli furono impartite lezioni di educazione civica e una sorta di rudimentale educazione sessuale, con la quale i giovani venivano messi in guardia dai rischi della frequentazione con l’altro sesso. L’astinenza era la regola. Oggi, fortunatamente, i tempi sono cambiati. I giovani venivano allenati alla destrezza e allo sviluppo motorio. Classica era la prova che consisteva nello smontare e rimontare un tubolare a occhi bendati.
Gli insegnamenti e gli allenamenti curati dal mentore di Fausto Coppi diedero i loro frutti e Filippi inanellò con la maglia bianco azzurra della SIOF una serie di successi. Fra tutti il Trofeo Serse Coppi, organizzato a Ivrea in memoria del fratello del Campionissimo, morto tragicamente dopo una caduta al termine del Giro del Piemonte. Quella gara era una competizione a cronometro da correre in coppia e Filippi la fece sua per ben due volte: la prima con Michele Gismondi nel 1952 e la seconda con Gastone Nencini l’anno successivo. Sempre con la squadra della SIOF, insieme a Ilio Grassi, Giuseppe Favero e Angelo Grosso, vinse la Coppa Italia, facendo registrare sul classico percorso fra Tortona e Serravalle una media record di 41,796 km/h nonostante il vento contrario.
Grazie ai risultati ottenuti fu dunque selezionato nella Nazionale di Giovanni Proietti. Riccardo si fregiò del titolo iridato, completando una splendida tripletta dei colori italiani: Gianni Ghidini a Varese nel 1951, Luciano Ciancola in Lussemburgo nel 1952 e Riccardo Filippi a Lugano nel 1953. Della squadra facevano parte Gastone Nencini, Vincenzo Zucconelli, Mauro Gianneschi, Renato Ponzini e Nello Fabbri. La sera prima della partenza, solo nella sua camera d’albergo che condivideva con Nencini, confidò a Mario Oriani, allora inviato de Lo Sport Illustrato, i suoi dubbi e le sue paure per una corsa sulla distanza di 180 km. Dopo una notte quasi insonne, la mattina successiva ecco il via alla corsa. Filippi pedalava su una Girardengo color panna, Modello 7, che il figlio conserva tuttora insieme alla maglia iridata e alla coppa del Presidente del Consiglio del Primo Trofeo Baracchi corso con Coppi. Il gruppo del cambio era il neonato Campagnolo Gran Sport, la sella Brooks mod 17, i freni Universal mod. 755149, i pedali Sheffield Sprint, la pipa e la piega Ambrosio Champion, i cerchi Clement.
Con la sapiente guida di Proietti, gli Azzurri rintuzzarono tutti gli attacchi degli atleti delle altre nazioni. Filippi si era scritto su un polso i numeri degli avversari più temibili: Rick Van Loy 43, André Noyelle 40, e Hans Hobi 178. In fuga con il suo compagno di camera Nencini, superati i tornanti di cemento della salita della Crespera, sul rettilineo del traguardo con un finto scatto trasse in inganno il toscano e conquistò la maglia iridata, fra le esultanze dei compaesani che avevano organizzato una trasferta in pullman per seguirlo, con tanto di cartelli.
ALLA CORTE DI COPPI
Fausto Coppi, scavalcata la recinzione all’arrivo, abbracciò e baciò Riccardo. Fu quello il sigillo al connubio fra il Campionissimo e il giovane canavesano. Insieme trionfarono in tre Trofei Baracchi. Nel 1953, entrambi in maglia iridata, davanti a Jacques Anquetil e Antonin Rolland, nel 1954, quando batterono ancora Anquetil in coppia con Louison Bobet e nel 1955. Quell’anno secondo fu ancora il campione francese insieme ad André Darrigade. L’anno successivo la coppia biancoceleste salì sul secondo gradino del podio alle spalle di Rolf Graf e Darrigade. Si realizzò fra i due anche una affettuosa amicizia che superava i limiti dell’impegno sportivo e fece sì che spesso Filippi invitasse Fausto Coppi in Canavese per delle battute di caccia, attività che il Campionissimo amava in modo particolare.
Tornato a casa, dopo quella esaltante vittoria di Lugano, dovette rinunciare alle cerimonie organizzate dal sindaco del paese per partecipare con Fausto Coppi e gli altri campioni mondiali, Guido Messina, Marino Morettini e l’australiano Syd Patterson, ai festeggiamenti ufficiali a Torino. Al velodromo torinese di corso Casale fu un tripudio. I diecimila spettatori ruppero le reti e invasero il prato al centro della pista per osannare i campioni. Carlin, memore della sua caricatura a Pavarolo, ricordò la vittoria italiana con un memorabile articolo su Tuttosport intitolato “Filippica Azzurra”. Sfruttò quella vignetta che ritraeva Riccardo a Pavarolo. Filippi commentò ancora: «Peccato quel gargarozzo…».
Tesserato alla Bianchi, nel 1954, realizzò il sogno della sua vita: correre con Fausto Coppi, che solo poco tempo prima aveva acclamato, come tifoso, durante una visita del Campionissimo a Ivrea. Quell’anno partecipò alla sua prima Milano-Sanremo. Sotto una pioggia battente, ad Alassio, nacque una fuga di dieci corridori, fra cui Filippi. A Laigueglia il canavesano scattava e sul Capo Mele transitava per primo davanti a Stan Ockers, che insieme ad Albino Crespi cedeva su Capo Berta, sul quale Filippi precedeva il solo Raoul Rémy. Lasciato il francese, Riccardo era lanciato verso il traguardo. In quelle fasi Coppi, intenzionato a vincere, uscì dal gruppo. L’ammiraglia della Bianchi raggiunse Filippi, che fraintese gli ordini e arrestò la sua azione. Forse il patron Zambrini voleva solo fare rallentare il fuggitivo per favorire il rientro del capitano. A circa 2000 metri dall’epilogo Filippi venne riassorbito dagli inseguitori. Vinse Rik Van Steenbergen, incredulo. Coppi fu quarto, Filippi arrivò nel gruppo degli inseguitori e fu tredicesimo. Gianni Brera titolò il suo articolo su Lo Sport Illustrato “A Filippi fu detto fermati”. Su quelle pagine venivano esaltate le doti del campioncino della Bianchi, tanto da definirlo “il nuovo Coppi”, nomignolo che sentiremo ancora in futuro quando verrà assegnato a Guido Carlesi, Italo Zilioli e Franco Chioccioli.
UNA VITA DA GREGARIO
Le parole di Brera furono il simbolo e l’emblema della carriera del campione canavesano che, pur vincendo ancora la cronotappa di Palermo del Giro del 1954 sul circuito della Favorita, visse una carriera da fedele gregario del Campionissimo. La prima prova di questa dedizione la diede il giorno successivo alla tappa palermitana, quando Fausto Coppi, in crisi su un monticello siciliano, la Portella Mandrazzi, perse oltre cinque minuti. Con gli altri gregari aspettò il capitano e lo portò al traguardo. Si parlò di eccessivi festeggiamenti a ostriche e champagne, ma la verità forse era che Fausto fosse distratto e preoccupato da una crisi familiare. Nella sua vita era entrata prepotentemente Giulia Occhini e aveva lasciato la moglie Bruna Ciampolini con la figlia Marina.
Nel suo palmarès figurano ancora un secondo posto alla prima e alla quarta tappa della Parigi-Nizza del 1954, un secondo posto a Derny, in Svizzera, nella velocità su pista nello stesso anno, e al Campionato di Zurigo del 1957. Partecipò a quattro Giri d’Italia, cinque Milano-Sanremo, due Parigi-Roubaix, conquistando undici podi. Fu uno dei pochi a giungere al traguardo nella tragica tappa del Monte Bondone del Giro del 1956. Charly Gaul arrivò, vinse e praticamente assiderato, con il termometro che segnava meno quattro gradi, fu letteralmente scaricato di sella.
Partecipò ancora alle classiche del Nord e alle grandi corse in linea italiane. Ebbe ancora dei buoni piazzamenti. Al Giro di Romagna del 1955 fu quinto arrivando al traguardo, dopo averlo aspettato, con Fausto Coppi, vittima di una foratura. Nello stesso anno fu nono al Giro dell’Appennino, vinto dal suo capitano. Questi piazzamenti gli fruttarono l’ottavo posto nella classifica finale del Campionato Italiano di quell’anno, vinto naturalmente da Fausto Coppi. Cercando di svincolarsi dalla soggezione per Fausto fu tesserato alla Ignis. Lì ritrovò uno dei gregari del Campionissimo, Franco Giacchero. Dopo un passaggio alla svizzera Condor, tornò alla Bianchi. Ma al Giro del 1958, con i colori della Ghigi, relegato al definitivo ruolo di gregario di Willy Vannisten, portò a malincuore al traguardo il capitano in piena crisi e giunse ai limiti del tempo massimo, rinunciando anche quella volta a una probabile buona prestazione. Si ritirò e fu quello il suo ultimo Giro d’Italia. Dopo un’annata deludente lasciò le corse. Disilluso dal mondo sportivo che tanto aveva amato, a soli ventinove anni lo abbandonò tristemente, dopo avere vestito la maglia della Bianchi, della Ignis, della Carpano Coppi, della Ghigi-Coppi, della Tricofilina-Coppi e della Gazzola.
La sua ultima apparizione in pubblico fu quella al funerale del Campionissimo. Poi si ritirò nella sua Lessolo, alle pendici della Valchiusella, dove la giovane moglie gestiva una panetteria. Si dedicò alle corse giovanili, seguendo come Direttore Sportivo gli esordienti del glorioso Velo Club Eporediese e del Gruppo Ricreativo Olivetti negli Anni ’60, quando i colori rosso blu di quegli atleti dettarono legge sulle strade piemontesi. Mescolato con il pubblico accompagnava i figli Bruno ed Enzo ad assistere alle gare e agli arrivi delle grandi corse al loro passaggio in Canavese. Fu proprio a Ozegna, il 5 giugno 1976, quando la carovana del giro toccò quella cittadina proveniente da Varazze, che il compianto cronista Adriano De Zan notò Filippi fra la gente, dietro le transenne. Lo chiamò a gran voce e il vecchio campione salì sul palco con la maglia rosa Felice Gimondi. In quel tragico arrivo Patrick Sercu urtò un teleoperatore tedesco e riportò un grave trauma cranico, la tappa fu vinta da Rik Van Linden. Era la prima volta del Giro in terra canavesana. Ebbe ancora un momento di gloria a Trento, nel 1981, nel quarantennale del Trofeo Baracchi, quando fu acclamato fra i vincitori di quella gloriosa competizione organizzata dall’industriale lombardo. Erano presenti Eddy Merckx, Ercole Baldini, Fiorenzo Magni, Daniel Gisiger, Beppe Saronni, Francesco e Aldo Moser.
A Ivrea nel 2011, in occasione del suo ottantesimo compleanno, fu festeggiato dai campioni del passato Guido Messina, Walter Martin, Italo Zilioli, Pino Favero, Angelo Ottaviani, Franco Vagneur e Franco Balmamion. Dopo quell’avvenimento la salute iniziò ad abbandonarlo e le sue uscite si fecero sempre meno frequenti. Rimasto vedovo, passava le giornate fra le mura di casa con i suoi trofei, pensando al passato con qualche rammarico. Timidamente accettava le visite dei suoi vecchi amici e tifosi. Ai rari giornalisti che riuscivano a intervistarlo confessava: «Fausto era un grande, fuori di discussione, ed era anche un generoso, ma nella squadra c’erano limiti ben precisi oltre i quali non si poteva andare. Ripensandoci adesso, a tanti anni di distanza, dico che è stato un errore per me. Tutti mi dicevano di stare calmo, che ero giovane, che sarebbe venuto il mio tempo. Invece il tempo trascorreva veloce e io ero sempre a fare il gregario. Altri miei colleghi – Nencini, per esempio, un generoso, un vero combattente – andati in altre squadre meno titolate ma dove godevano di maggiori libertà, hanno potuto esprimersi al meglio e ottenere vittorie importanti che a me sono mancate. A ventinove anni capii che il ciclismo non faceva più per me. Troppi sacrifici e risultati modesti. Mi ero sposato, mia moglie attendeva un figlio, dovevo pensare all’avvenire. Trovai un impiego alla Olivetti e lì rimasi per 25 anni abbondanti».
Dopo una breve malattia mancò in un letto dell’ospedale di Ivrea nel marzo del 2015, lasciandoci il ricordo di uno dei più fedeli gregari del Campionissimo, cui aveva sacrificato tutta la sua carriera. Di lui resta il ricordo di un uomo fedele alla sua parola, un uomo che non tradì mai il suo capitano. Qualcuna delle sue non più giovani tifose ricorda ancora quel bellissimo ragazzo, «Con le gambe da campione e il volto da attore», che faceva impazzire le ragazze in cerca di gloria agli arrivi delle corse. Una foto, gelosamente custodita dal figlio Bruno, lo ritrae con una prorompente Silvana Pampanini.
In un suo ricordo, l’amico e collega Carlo Delfino citò il campione canavesano fra i migliori gregari di Fausto Coppi. I dodici apostoli: Ettore Milano, Andrea Sandrino Carrea, Fiorenzo Crippa, Stefano Gaggero, Franco Giacchero, Michele Gismondi, Riccardo Filippi, Donato Piazza, Oreste Conte, Serse Coppi, Bruno Pasquinu e Désiré Keteleer. Gente che, pur talvolta nelle retrovie, ha fatto la Storia del ciclismo.