Di Eberardo Pavesi corridore abbiamo tratteggiato avventure e intuizioni su BE47, nell’articolo dedicato ai Moschettieri dell’Atala.
È stato uno dei pionieri della bicicletta e ha contribuito a farla diventare sempre più popolare dal punto di vista sportivo. In questa occasione proponiamo la seconda parte della sua carriera ciclistica, assai più lunga: quella nelle vesti di Direttore Sportivo.
Facciamo un passo indietro. Dopo la luminosa esperienza con l’Atala nel 1913, Pavesi corre per la Legnano (al Giro vince due tappe e arriva secondo nella classifica finale dietro a Carlo Oriani su Maino) e l’anno seguente per la Bianchi. La guerra riduce drasticamente l’attività e chiude idealmente l’età dei pionieri in bicicletta.
L’ultimo anno come corridore di Pavesi ce lo riporta Gianni Brera nel libro “Addio, bicicletta”: «Di sport, fino al ‘18, neppure l’ombra. Si combatteva all’antica, con uomini antichi, e i guerrieri ignoravano lo sport, forse considerando lo sport la sola guerra. Poi, una ventata di mentalità moderna. […] A questa classica [Giro di Lombardia] andai impreparato. Francamente, corridore non ero ormai più che nei ricordi. A trentacinque anni suonati, togliersi di dosso la ruggine di tre anni è impossibile. Gareggiai, dunque, più per squagliare a Milano che per sete di gloria e di quattrini».
Dopo 16 anni (dal 1903) e una guerra mondiale alle spalle, a metà del 1919 (dopo la prima edizione del Giro dei Tre Mari, 4-23 luglio) l’ex moschettiere dell’Atala sente che è arrivato il momento di scendere di sella.
UNA NUOVA CARRIERA
Sta già pensando di sostituire la polvere raccolta dalle ruote della sua bicicletta con la farina del fornaio, quando riceve una proposta. «Neanche il tempo di attaccare la bici al chiodo e Pavesi si sente chiedere da Erminio Cavedini, Direttore Sportivo della Bianchi, di aiutarlo a fare la squadra», racconta Marco Pastonesi nel volume “Legnano”.
L’intelligenza tattica dell’Avocatt – così soprannominato per la sua capacità di trattativa, ai tempi dell’Atala – non va quindi persa, ma serve per mettere insieme una delle squadre della Bianchi più forti dell’epoca: Giuseppe Azzini, Angelo Gremo, Ugo Agostoni, i fratelli Henri e Francis Péllisier, lo svizzero primatista dell’ora Oscar Egg, Jean Alavoine e il Tano Belloni che sarà in quegli anni il grande antagonista di Girardengo. Già alla Sanremo del 1920 è predominio biancoceleste con la vittoria di Belloni, il secondo posto di Henri Péllisier e il quarto di Azzini (terzo Girardengo). Cinque Bianchi nei primi 10 classificati. Al Giro d’Italia si replica: primo Belloni, secondo
Gremo, terzo il francese Alavoine, tutti uomini Bianchi.
Nel 1921 l’Avocatt, dopo un anno di gavetta e capito che può gestire in toto una squadra, passa alla Legnano. Comincia qui uno dei sodalizi più lunghi nella storia del ciclismo. Pavesi rimane alla Legnano fino al 1966, «attraversando non periodi o cicli, ma epoche ed ere. Come se passasse dall’età del fuoco a quella dello spazio, ma rimanendo sempre saldo ai propri principi, alle proprie regole, alla propria visione della corsa e della vita», annota Pastonesi. In quel momento i due più forti corridori italiani sono Costante Girardengo (Stucchi) e Tano Belloni (Bianchi). Riuscire a batterli non è impresa da poco, ma il Commendator Bozzi (patron della Legnano) ha in squadra Giovanni Brunero su cui ha puntato molto. Ha bisogno di un uomo intelligente e scaltro che guidi il piemontese. Bozzi chiama Pavesi come Direttore Sportivo.
Il primo confronto con Girardengo è a Sanremo, dove Costante batte Brunero. Il legnanista si rifà con la vittoria al Giro del Piemonte, preludio del Giro d’Italia, dopo una fuga solitaria di 100 km. Alla corsa rosa Brunero vince su Belloni per soli 41” dopo 10 tappe e 3100 km. L’anno dopo (1922) si prende la rivincita su Girardengo, vincendo in modo rocambolesco la Sanremo (per 22”). Al Giro d’Italia replica, distanziando il secondo classificato (Bartolomeo Aimo) di 12’29”. Pavesi, inoltre, piazza (in stile Atala) quattro uomini Legnano ai primi quattro posti.
Il 1923 potrebbe essere l’occasione per uno storico tris al Giro, ma Brunero viene in maniera astuta distanziato di soli 37” da Girardengo. Al Giro di Lombardia vince con 18’37” su Linari. La stella di Brunero brilla anche nel 1924 dove, saltato il Giro per il contenzioso tra gli organizzatori e le squadre, partecipa al Tour de France vincendo la tappa alpina di Briançon. Il piemontese corre però con la sella bucata perché soffre di foruncolosi e per questo, quando è terzo in classifica generale, è costretto al ritiro. Al Giro di Lombardia, dove si rivela il giovane Binda, Brunero vince con 7’44” su Girardengo, Linari e lo stesso Binda.
Il lungimirante Pavesi si rende conto che è tempo di cominciare a cercare su un nuovo corridore e prova a ingaggiare Bottecchia, il quale però ha già un contratto con la francese Automoto anche per l’anno successivo. L’Avocatt dall’occhio attento aveva già capito che quello scalatore, quel Binda, che si era messo in vista sul Ghisallo al Lombardia, poteva essere un futuro campione. Pavesi lo seguiva già da tempo. Lo ingaggia e gli fa firmare un contratto basato su uno stipendio basso, ma con la possibilità di elevarlo grazie a ricchi premi in caso di vittorie.
IN COPPIA CON BINDA
Alfredo Binda ha sette anni meno di Brunero, Pavesi punta su di lui per il Giro del 1925 come alfiere Legnano, ma in quello stesso anno nella Wolsit (sottomarca Legnano) pedalano Girardengo e Belloni. Pavesi si trova quindi a gestire, seppur con due squadre diverse, i più forti campioni del momento. Binda vince all’esordio, con 4’58” su Girardengo (vincitore di 6 tappe) e 7’22” su Brunero che, per ordine di squadra, lo accompagna. Girardengo conquista la sua nona maglia di campione italiano (oltre alla quarta Sanremo), mentre Alfredo si conferma al Lombardia, dove vince con 8’20” sul compagno di squadra Giuntelli.
Nel Giro del 1926, sempre con Binda capitano, Pavesi è costretto a intervenire quando nella prima tappa (Milano-Torino) Alfredo cade e perde conoscenza. Brunero si sarebbe anche fermato per aiutare il compagno, ma l’Avocatt «con un ringhio lo rimette in sella», chiosa Pastonesi. Binda arriva con forte ritardo e da quel momento Pavesi lo mette al servizio del compagno. Il piemontese Brunero, con il suo aiuto, riesce a battere gli avversari e fare una doppietta Legnano (primo Brunero, secondo Binda a 15’28”) in classifica generale. Il Trombettiere di Cittiglio, poi, conquista la sua prima maglia di campione italiano vincendo 5 delle 8 prove valide per l’assegnazione, tra cui il Giro di Lombardia.
Nel 1927 Binda domina letteralmente la scena ciclistica. Vince 12 tappe su 15 al Giro d’Italia (e la conseguente classifica generale); si conferma campione italiano; replica al Giro di Lombardia ma, soprattutto, conquista il primo Campionato del Mondo per professionisti (Nurburgring, Germania) davanti a Girardengo, Piemontesi e Belloni. Sono gli anni del grande duello con Girardengo, un po’ più vecchio ma ancora in grado di vincere la Sanremo e battagliare al Giro d’Italia. Binda vince anche le edizioni del 1928 e del 1929 della corsa rosa.
Così, quando all’inizio del 1930 gli organizzatori de “La Gazzetta dello Sport” decidono di non invitare Binda al Giro per manifesta superiorità – pagandogli però l’intera posta del primo classificato – nasce in contemporanea l’idea di mandare il campione italiano in Francia. Il patron Henri Desgrange ha apportato una fondamentale modifica al regolamento della sua corsa: da quell’anno saranno ammesse le squadre nazionali. Binda va quindi al Tour come capitano italiano (e con un forte gregario ancora poco conosciuto, Learco Guerra). Gli italiani al seguito del Giro di Francia, però, non si limitano a quelli della rappresentativa. Desgrange, infatti, ottiene dalla Legnano di poter inserire all’interno della sua organizzazione anche Pavesi, il meccanico Ugo Bianchi e il massaggiatore Enrico Villa. Del resto il francese, fin dalla sua partecipazione al Tour del 1907, «mi ha preso in simpatia» ricorda Pavesi/Brera, riconoscendogli indubbie capacità organizzative.
La partecipazione dell’Avocatt al Tour come membro dell’organizzazione si confermerà anno dopo anno fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Pavesi intanto, pur non avendo Binda a disposizione, quel Giro del 1930 lo vincerà lo stesso con Luigi Marchisio. «Qualche giornalista sentenzia “el dura minga”, Pavesi ribatte “el dura, el dura”, e Marchisio la dura e la vince», riporta Pastonesi.
L’esplosione di Guerra al Tour alimenta immediatamente un nuovo duello, che Pavesi vive alle spalle di Binda.
BARTALI E COPPI
Nel 1936 Binda abbandona l’attività, ma Pavesi non si fa trovare impreparato. Ricorda Mario Fossati ne “La Storia Illustrata del Ciclismo”: «Quando il ciclismo parve attraversare una di quelle stagioni vuote di personaggi di spessore, ecco il loquacissimo Direttore Sportivo Pavesi prendere all’amo un pesce grosso, Gino Bartali. Erano tempi quelli in cui la casa Bianchi amava farsi pubblicità assai più con le automobili del seguito che con i bizzarri brillanti corridori che allineava. La carovana automobilistica era, infatti, sua. Il Giro passava, verniciato di bianco e di celeste: i colori della celebre casa. […] Alla Legnano, la casa di Pavesi e di Bartali, non rimaneva altra uscita pubblicitaria che non fosse quella di vincere e di rivincere. Coltivava così le sue correnti di simpatia con la folla. Pavesi voleva, perciò, rincalzi, rinforzi. Vicino a un fiorentino, Bartali, sarebbe stato difficile tenere a freno secondo un preciso ordine gerarchico altri toscani». E uno di quei rinforzi sarà proprio Learco Guerra, la “locomotiva umana” ormai al tramonto, ma perfetto per dare l’esempio e guidare i più giovani.
Pastonesi riassume: «Pavesi in macchina, sul Norge, e Bartali in bici, sulla Legnano. Insieme, scrivono la storia: Pavesi a parole, Bartali a pedali, Pavesi sbuffando, Bartali danzando, Pavesi tenendo fede ai suoi comandamenti – pochi soldi e niente sesso – Bartali imponendo il suo “tutto sbagliato, tutto da rifare”. Le vittorie al Giro d’Italia nel 1936 e 1937, al Lombardia nel 1936 e nel 1939, al Tour de France nel 1938, alla Milano – Sanremo nel 1939, quest’ultima per di più in volata».
Bartali, nell’autobiografia “Tutto sbagliato”, curata da Pino Ricci, ricorda la grande famiglia della Legnano, con Eberardo Pavesi Direttore Sportivo: «Appresi tutto quello che mancava alla mia completa formazione come corridore: dalla cura assidua del fisico (oltre al medico personale che già avevo, il massaggiatore che ti fa da mamma), al programma di preparazione atletica e di allenamento, dalla giusta alimentazione ai controlli, alla competenza tecnica del mezzo con cui lavori (e qui si apre il capitolo dei meccanici-fratelli maggiori del corridore), dallo studio degli avversari a quello dei percorsi, alla distribuzione degli sforzi lungo tutto l’anno, tenuto anche conto dei famosi impegni di calendario».
Bartali ricorda anche “certi discorsetti” di Pavesi: «Massaggiatori e meccanici, quando sono bravi, devono essere, per il fisico e la macchina, non degli infermieri o degli operai di scarso livello ma come dei veri e propri medici e tecnici dell’accoppiata uomo-bicicletta». Sempre attento alle nuove promesse che si affacciano alla ribalta, «alla fine del 1939 Pavesi, per istinto, non può non ingaggiare un ragazzo piemontese, Fausto Coppi, sussurrando a Bartali che “quello è meglio averlo con noi piuttosto che contro”», racconta Pastonesi.
Al Giro del 1940 la Legnano dell’Avocatt parte con Bartali capitano ma lo finisce con Gino gregario di lusso per il giovane Fausto. «E fu nel corso di quel Giro che Pavesi adoperò le sue pinze lunghe per indurre Gino, in una tappa dolomitica, ad accompagnare per mano un Coppi che aveva già ampiamente meritato la vittoria ma, che, nella ben determinata fase, in quella precisa giornata, peccando di inesperienza aveva ingolfato il motore», solletica Fossati.
Guidando i “ramarri” (dal colore verde oliva della maglia Legnano), Pavesi vinse tre Giri con Brunero, cinque con Binda, tre con Bartali e uno con Coppi e Marchisio, rendendo la squadra del Commendator Bozzi la più vincente alla corsa rosa tra le due guerre.
IL SECONDO DOPOGUERRA
Nel dopoguerra Vincenzo Torriani, fresco patron del Giro d’Italia, invita Pavesi ad affiancarlo come consigliere – forte anche dell’esperienza al Tour – per la scelta dei percorsi di gara e per la gestione dei rapporti con i corridori. Giacca e pantaloni alla zuava, berretto per coprire la calvizie e «la pipa lercia di gruma alle labbra», racconta Mario Fossati, lo identificano. Al momento di rimettere insieme la squadra Legnano, l’Avocatt capisce di non poter soddisfare le richieste di Coppi e si tiene Bartali.
Ma il tempo passa anche per lui. Pavesi mantiene la sua parlantina, «ma è poco aggiornato, almeno come Direttore Sportivo: è rimasto legato ai suoi tempi, tradizioni, comandamenti. Niente pasta la sera ma solo minestrone, niente mance a corridori di altre squadre per stringere alleanze stradali, niente sponsor diversi da quelli delle case produttrici di biciclette. Spesso in ammiraglia si addormentava, però era sempre l’ultimo ad andare a letto e a mollare le carte sul tavolo. Magari era taccagno, però sui conti non sbagliava mai neanche di una lira», racconta Pastonesi nel volume “Giro d’Italia, la Grande Storia”.
Ecco quindi che quando Bartali si mette in proprio dopo la vittoria al Tour del ‘48, Pavesi rivoluziona la squadra: risparmia sugli ingaggi puntando solo sui giovani. Il fiuto non gli manca. Scopre Adolfo Leoni, Giorgio Albani, Renzo Soldani, Pasqualino Fornara e “Pipazza” Minardi, poi Nino Defilippis e Rino Benedetti. Fa passare professionista Gastone Nencini e con Ercole Baldini vince il Giro (ultimo vincitore in maglia Legnano) e il Mondiale del 1958. Poi l’ultima nidiata con Arnaldo Pambianco, Graziano Battistini, Imerio Massignan, Adriano Durante e Marino Vigna.
«Non sono sempre anni felici, fortunati e vincenti. Talvolta l’Avocatt si lamenta di dover affidarsi a corridori scarsi. Lui, abituato a fuoriclasse assoluti – per la mancanza ormai cronica di soldi», ricorda Pastonesi. In quegli anni di magra fa fatica a capire che i tempi sono cambiati, che il mondo intorno a lui è cambiato. L’Avocatt resta convinto che la fame sia ancora il miglior carburante per i corridori.
Nel 1963, a 80 anni, non sul Norge ma sulla Carolina, ha ancora la forza di portare la squadra a vincere il titolo italiano a squadre. Nel 1966, dopo 60 anni nel mondo delle corse, si ritira. Si spegne a Milano l’11 novembre 1974. La sua storia e il suo personaggio hanno ispirato più di un libro, tra i tanti quello di Brera è il più famoso, e definito l’archetipo del Direttore Sportivo.