«Noi vecchie pedalatrici di professione sapevamo molto bene cosa stavamo facendo quando siamo scese in pista per correre.
Non abbiamo voluto metterci in bella mostra davanti agli spettatori (una pretesa bizzarra per madri con figlie adolescenti), né intendevamo arricchirci con il premio, ma piuttosto mostrare al pubblico di saper padroneggiare le nostre macchine a due ruote e gridare alle donne: guardateci e imitateci». Così gridava a gran voce Amelie Roither, ciclista, nel 1893 durante un’intervista a seguito di una gara femminile in bici. Eh sì, perché quando si parla di imprese al femminile viene sempre da pensare a una grande sfida. Ma contro chi o cosa? In fin dei conti, come il maschio anche la donna ha sempre desiderato nella storia di poter raggiungere i propri limiti e superarli, ma rispetto all’uomo ha avuto sempre – perlomeno in ambito ciclistico – degli ostacoli in più. La femmina che pedala è la storia di una passione che va oltre il risultato sportivo e che si chiama “emancipazione”, “dignità sociale”, voglia di libertà e di arrivare, ricerca dei propri diritti, desiderio di parità con il maschio.
La divisa della femminista ciclista (brache alla “bloomer”, camicia, giacchettone, calzettoni, berretto da fantino) con tanto di sigaretta sulle labbra, provocava forti reazioni all’inizio dell’era del velocipede, come si trattasse di un fatto di stregoneria. Se a innamorarsi della bici era un uomo, insomma, poteva essere passabile e giusto, se era una donna le cose erano ben diverse.
Maria Ward – giornalista – nel 1896 affermava: «Ho scoperto che nell’uso della bicicletta, le donne devono sopportare diverse forme di censura legate non tanto all’azione in sé che le donne compiono, ma al modo in cui la compiono». Émile Zola, in un suo romanzo, attraverso la protagonista afferma: «Se un giorno avrò una figlia, la metterò in sella a una bicicletta già a 10 anni, perché impari subito come deve comportarsi nella vita!».
I TIMIDI ESORDI
Già alla fine dell’Ottocento la donna voleva andare oltre i propri limiti e molte saranno le cicliste che tenteranno avventure e imprese ritenute sino ad allora impossibili. Ammaliate dalle imprese narrate sui giornali dei colleghi maschi, che avevano attraversato l’Europa, gli Stati Uniti e il mondo intero viaggiando in bicicletta, anche le donne volevano tentare queste avventure.
La signora Tarney-Archer, inglese, da sola compì un viaggio in bici da Londra ad Alessandria d’Egitto. La triestina Von Keber intraprese un itinerario, su pesante velocipede da donna, con una distanza di 30 km al giorno che partì da Trieste e che la condusse a Parigi, Londra, Dublino, New York, Hong-Kong, Sidney, Calcutta, Pretoria, Tripoli, Gibilterra, Madrid, Lione e Ginevra per poi rientrare a Trieste. Nel 1884 Elizabeth Robins Pennell andò in tandem con il marito da Londra a Canterbury e da Firenze a Roma per poi effettuare nel 1886 il Giro dell’Europa dell’Est. Fanny Bullock Workman fece il giro di Europa, Africa e Asia. Nel 1895 Mrs. J.M. Savage di Boston percorse in bici più di 8700 km nel New England. Per concludere con Annie Cohen Kopchovsky, detta poi Annie Londonderry, che per propri meriti più pubblicitari di marketing che di atleta ciclista passerà alla storia come la donna che intraprese nel 1894 il Giro del Mondo più duro e impegnativo mai realizzato prima da una donna: 15000 km dichiarati! Tuttavia, le donne che viaggiavano e correvano su velocipede venivano definite “leggere”, in modo volgare e offensivo, e non certo per il loro modo di correre in bici! Il percorso per uscire da questo pregiudizio sociale non è stato facile.
Nel 1868 venne fondato il primo sodalizio velocipedistico a Parigi, il “Veloce Club de Paris”, i cui dirigenti organizzarono il 31 maggio la prima corsa di bici lungo il viale de Parc de Saint Cloud. Il percorso era di 1200 metri e la vittoria fu conseguita da James Moore, il futuro vincitore della Parigi – Rouen del 1869. Il programma della riunione prevedeva oltre a gare di velocità, a vantaggi, di lentezza e a ostacoli, anche una gara riservata alle signore. Nell’ultimo torneo su pista del 1868, che si svolse a Bourdeaux nell’Hippodrome du Parc de Bordolais, il 1 novembre si tenne la prima gara ufficiale riservata al gentil sesso. Vi presero parte 4 intrepide concorrenti fra l’ilarità, la perplessità e l’entusiasmo non benevolo degli astanti: M.lle Amelie, M.lle Julie, M.lle Louisa e M.lle Louise. Come riportato da Claudio Gregori: «Una era vestita da moschettiere, due da paggio degli Ugonotti, una con una gonna rossa disastrosamente ingombrante! Louise va in testa, conservando a lungo il vantaggio ma nel finale viene affiancata da Julie, che la supera di un soffio. La folla impazzisce, le circonda, le assedia; le quattro intrepide cicliste, le prime della storia, si salvano a fatica da questo imbarazzante entusiasmo».
Il 1869 si apre in Francia, a Rouen, proprio con una gara femminile di sprint – velocità sui 500 metri – e si chiude a Parigi in modo trionfale, il 7 novembre, con l’organizzazione da parte del giornale parigino “Le Petit Journal” della prima gara velocipedistica in linea su strada. Si tratta appunto della Parigi – Rouen, di oltre 120 km, alla quale si iscrivono 323 velocipedisti, dei quali solo 109 partenti. Fra di loro anche 6 coraggiose donne, fra lo stupore generale, tanto da indurre la maggior parte di loro a iscriversi sotto falsi nomi o pseudonimi: Nicole M., Mademoiselle A.D., Madame E., Medemoiselle Olga, Fatma di Bordeaux e l’inglese Miss America. Nel 1888 la prima gara Sei Giorni su pista in America, a Pittsburgh in Pennysilvania, riservata alle donne. Nel 1889, sempre negli States, a New York City, la prima gara su strada riservata alle femmine. Nel 1892 fu fondato in Inghilterra il primo club per sole cicliste: il Coventry Lady Cyclist. Nel 1893 viene stabilito il primo record su strada femminile sui 100 km dalla francese Tastayrè in 4h 45’ e nel 1894 a Dresda, in Germania, la tedesca Ida Caspari stabilisce il primo record di distanza femminile sulle 12 ore: 205 km.
NEL BEL PAESE
E in Italia? Molte donne famose montarono subito in bicicletta. Le attrici sembrano ora preferire le scene su velocipede. Fra di loro ricordiamo, a Milano, Lina Cavalieri, definita da Gabriele D’Annunzio la donna più bella del mondo! Sciami di nobildonne invadono i viali, ma con controversie. La nobile e famosa marchesa Cigala Fulgosi di Milano, campionessa amazzone e assidua frequentatrice dei circoli equestri della meneghina, ostentava ogni giorno, fra i nobili benpensanti, la sua netta avversione e contrarietà verso il velocipede sino a sentenziare: «In mezz ai mè gamb, de robb che stan minga in pee de per lor ghè ne ven minga!». Ovvero: «In mezzo alle mie gambe, di cose che non stanno in piedi da sole non ce ne devono andare!». Più chiaro di così!
La regina Margherita di Savoia, sposa di Umberto I di Savoia, sportiva tenace e convinta, fu ipnotizzata dalla bicicletta tanto da far venire a sé, nei giardini di corte, Edoardo Bianchi, che nel 1885 aveva aperto a Milano la sua bottega, per avere delle lezioni private di guida della nuova macchina. Bianchi progetta per la regina una bici speciale con copricatena in cristallo e manopole d’avorio, porta il suo gioiello alla villa reale, ma lì si imbatte in un problema apparentemente insormontabile: il buon Edoardo, per non far cadere a terra sua Altezza Reale, doveva sostenere da tergo la regina sul sellino, toccandole inevitabilmente il fondoschiena! Il conte addetto alla compagnia e tutela della regina spiega imbarazzato a Edoardo che non si può toccare l’augusto corpo della sovrana. Bianchi, sbuffando, risponde in dialetto meneghino: «Voer dì che i tomm van sul so cunt, car el me cont! (Vorrà dire che le cadute saranno a vostro carico, caro il mio conte!)». L’imbarazzante situazione viene risolta dal Bianchi con la realizzazione di un cinturone con tiranti che consente alla Regina Margherita il “decollo” in bicicletta senza che nessuno la tocchi. Subito altre dame di corte seguono la “Real Ciclista”. Le duchesse di Genova e d’Aosta, la Regina di Napoli e la principessa del Portogallo si mettono in sella. Umberto I, nel 1895, con brevetto n. 969, concede alla Bianchi l’appellativo di “Fornitore di Casa Reale” con la facoltà di usare lo stemma di Casa Savoia. La regina Margherita fu una delle prime donne a iscriversi al Touring Club Ciclistico Italiano nel 1902.
Nella corsa maschile organizzata a Varese nel 1894, Maria Forzani arriva 150° con 1h 22’ di ritardo sul vincitore maschio e poco dopo giunge Teresa Ciocca. Nella Milano – Salsomaggiore dello stesso anno furoreggia Alessandrina Maffi, di Monza, detta la “biciclettista di ferro”, che si classifica bene fra gli arrivati e nel 1895, fuori gara, arriverà stanca ma ancora in forma nella Milano – Lodi – Crema. Parteciperà anche a una Milano – Roma e a una Milano – Parigi. Sarà campionessa italiana di ciclismo dal 1893 al 1897. Ma a richiamare il pubblico sono soprattutto le gare nei velodromi. In Italia tali manifestazioni ciclistiche per donne vennero organizzate per la prima volta a Genova nel 1894. Fu a Milano, al mitico Trotter di piazza Doria e alla famosissima Arena, che trovarono spazio e dignità agonistica le gare delle cicliste. I nomi delle partecipanti, ormai famose ai più, erano la signorina Forzani, specialista imbattuta nelle gare di velocità, la fioraia Adelina Vigo, l’attrice drammatica di teatro Rina di Montefalco e l’altra attrice bellissima e famosissima di varietà del locale Eden, Lina Cavalieri, che risulterà poi vincitrice della corsa ciclistica a tappe da Roma a Torino (un archeologico Giro d’Italia femminile).
Sempre a Milano, dopo una lunga tournée a Napoli, Roma, Genova e Torino, arriva e vince, nel 1894, la star ciclistica del momento: la fortissima e imbattuta Hélène Dutrieu, già detentrice del record del mondo dell’ora femminile nel 1893, dopo aver percorso 33,1 km superando di quasi 7 km il record precedente detenuto dalla francese Saint – Saveur, che aveva percorso in un’ora la distanza di 26,12 km. La belga si ripeterà nel 1895 portando il suo record dell’ora a 33,764 km. La Dutrieu nel 1896 a Ostenda, in Belgio, vince il primo Campionato del Mondo di Ciclismo Femminile disputato su un circuito di 2000 metri e sempre in quell’anno, all’Aquarium di Londra, vince una 12 giorni su pista percorrendo 1156 km contro i 1116 km dell’inglesina Blackbourne.
AVVERSIONE MONDIALE
Purtroppo il clamore suscitato da queste gare femminili ottiene un effetto contrario a quello sperato. Nel 1896 la Federazione Tedesca Velocipedistica mette al bando le competizioni per signore (tale divieto si protrarrà sino al 1966!). In segno di protesta un gruppo di appassionate germaniche delle due ruote percorse nel 1897, in 12 giorni, il tragitto Berlino – Parigi. Anche l’Unione Velocipedistica Italiana nel 1897 si adeguerà, vietando le manifestazioni sportive ciclistiche ufficiali alle donne. In Belgio, dato il veto alle gare femminili in molti altri Paesi Europei, si disputa nel 1898 il 3° Campionato Mondiale di Ciclismo Femminile, non ufficiale e volutamente non riconosciuto. Parteciperà a rischio della vita, clandestinamente, anche una ciclista tedesca, la sig.ra Olga Kramer, un’eroina che non otterrà però alcun piazzamento.
A cavallo fra Ottocento e Novecento la professionista Susanne Lindberg batte il record maschile di ciclismo su strada detenuto da un corridore danese, coprendo la distanza di 1000 km in 54h 30’, ossia 2 ore e 50 minuti in meno del collega maschio! Nel 1899 giunge notizia dal Giappone, a gran clamore, che: «Una donna, una geisha, ha battuto sui 12 km il miglior ciclista maschio di Kyoto!». Nel 1903 si ha notizia di un nuovo record dell’ora femminile, conquistato dalla francese Louise Roger, che in un’ora percorre 36,793 km. Nel 1907, a Trento, una medaglia d’argento viene assegnata a “titolo d’incoraggiamento” alla giovanissima Maria Tosca, prima donna del Trentino che ebbe l’ardire di intraprendere pubblicamente l’attività ciclistica.
Nel 1909, a 18 anni, fa la sua comparsa sulla scena ciclistica professionistica Alfonsina Strada, che già a 14 anni si cimentava in gare regionali riservate ai maschi in Emilia Romagna. Partecipa al primo Giro dell’Emilia con partenza da Bologna insieme a campioni del calibro di Eberardo Pavesi e Calzolari. Insieme a lei compaiono sulla scena cicliste come Lucia Borsetti di Budrio e la Bruna Bonetti di Bologna, oltre a due sedicenni fuggite di casa per poter correre in bici, molto forti, che si facevano chiamare Sacco e Milano per non essere identificate. Nel novembre del 1910 la Gazzetta dello Sport organizza a Milano la “Corsa delle signorine” a cui partecipano sette atlete professioniste dell’epoca. Per tale gara si scomodò persino il direttore della Rosea, Eugenio Camillo Costamagna. Vinse questa gara a oltre 31 km di media oraria la piemontese Maria Milano.
Un’altra protagonista indiscussa ma controversa che fece clamore per l’epoca fu Violette Morris che praticò, affermandosi, vari sport. Era talmente ossessionata dal risultato agonistico che arrivò anche a sottoporsi volontariamente a un intervento chirurgico di mastectomia bilaterale per migliorare le proprie capacità aerodinamiche e perché non venisse intralciata nel tiro con l’arco o nella pedalata in bici o nel pilotare la propria auto da corsa. Nel 1924 fu una delle maggiori e celebri interpreti di gare stayer in Francia, soprattutto al velodromo di Vel d’Hiv, dove era considerata una star indiscussa dal pubblico.
Nel 1924 in Italia ci fu grande clamore per la partecipazione al Giro d’Italia maschile di una donna: di nuovo Alfonsina Strada! Nel 1925, in Francia, si disputò la prima gara di ciclocross femminile: 5 le concorrenti dell’evento disputato a Bellevue. Mademoiselle Billòt vinse in 12’33” su un circuito di 4 km reso impossibile dal fango e dalla pioggia, con ritiro di numerosi ciclisti maschi! Nel 1925, in Trentino, tra i debuttanti del ciclismo fa notizia la valsuganotta Maria Costa, che prende il via alla gara maschile promossa dal club “Forti e veloci” sul percorso Trento – Calliano e ritorno. La competizione denominata “Popolarissima dei Novizi” si svolse sotto un diluvio universale che non impedì alla Costa di classificarsi al 9° posto, a soli 5 minuti dal vincitore.
Nel 1929 ad Anversa e nelle Fiandre si organizzarono ben 55 gare femminili su strada e negli Anni ’30 esistevano già almeno tre velodromi belgi dedicati quasi esclusivamente alle corse delle cicliste, sia nella categoria amateurs che nella categoria elite. Suscitò parecchio clamore per importanza delle partecipanti e per presenza di pubblico la gara disputata il 10 agosto 1930 sulla pista belga di Walheim, vinta dalla francese Louise Mottequin in volata davanti alla campionessa locale Medemoiselle Moens. Nel 1934 le francesi Robin, Modire, Loiseau, Chabin, Charnay, Magnonì, Harent e Leray furono selezionate per il Campionato del Mondo, che si svolse a Bruxelles il 16 settembre. Al termine dei 40 giri su un circuito di 2500 metri vinse la fortissima belga Elvira De Bruijn, davanti alla De Bocke e all’olandese De Bree, mentre la nostra ormai veterana Alfonsina Strada, ingaggiata dalla squadra sportiva Montmatre Sportif, si classificò al 15° posto. Il quotidiano “Le Velò” pubblicò a riguardo tale articolo: «Ha vinto Elvira de Bruijn, campionessa del Belgio e ora d’Europa e del Mondo! È un’atleta formidabile, più muscolosa di molti uomini di stazza superiore. Gira voce che se non è un uomo, non è però nemmeno una donna, il che spiegherebbe molte cose…». Tali dubbi, suscitati a livello giornalistico e che diedero voce allo scandalo, trovarono conferma alcuni anni dopo, quando la sig.ra Elvira cambiò sesso e prese moglie!
Il 1935 vide il ritorno alle competizioni, dopo 8 anni di assenza, della campionessa Madame Wasse Armouet, la quale vinse in fila il Gran Premio d’Overture, il Prix Gaudot, il Prix Unis Sport e il Prix Grand Air, anticipando così il ruolo di dominatrice assoluta del ciclismo femminile francese e non, che sarebbe stato suo sino al 1939.
Ma oltre oceano? Bisogna aspettare il 1937, anno in cui viene istituito l’A.B.A. (Amateur Bicycle Associaton). Tale associazione organizza il Primo Campionato Nazionale femminile di ciclismo, il “Girl Division”, senza limitazione d’età, che viene tenuto a Buffalo, New York. All’evento inaugurale vince un ragazza di 15 anni, tale Doris Kopsky, che corre il miglio lanciato “dirt track” in 4’24”, sbaragliando le avversarie. Nel 1940, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, anche il ciclismo femminile si paralizza: qualche corsa sopravvive in Inghilterra, in Francia e in Unione Sovietica, dove nel 1944 la Sig.ra Semionova diventa Campionessa Nazionale di Fondo su strada battendo il tenente dell’esercito Sig.ra Routkovskaja.
IL DOPOGUERRA
Dopo la guerra, in Inghilterra, nel 1946, la obsoleta N.C.U. (National Cyclist Union) decise di creare un Campionato del Mondo Femminile, senza poi ottenere il consenso della F.C.I.. Nell’ottobre dello stesso anno la francese Elyane Bonneau battè il vecchio record di Alfonsina Strada, percorrendo 50 km in 1h 20’17”. In Italia a segnare la ripartenza sarà la signora Pierina Comotti, che nel 1947 stabilirà il record dell’ora al Vigorelli, percorrendo 35,467 km, che però non verrà mai omologato. Fra il 1948 e il 1955 si segnalò all’attenzione mondiale la campionessa francese Jeanine Lemaire, che vinse il Prix Octave Lapize, il Prix Lèo Wasse, il Prix de la SNECMA, il Prix Duverneuil, la Paris-Gisorse e il Campionato di Parigi. Inoltre, per 4 volte conquistò il record dell’ora su pista coperta, percorrendo nella sua miglior performance 39,735 km, polverizzando il precedente record della Bounneau.
Il 3 marzo 1954 la rivista francese “Route et Piste” annuncia con gran clamore la creazione del primo Tour de France femminile. Tale competizione, secondo la rivista, si sarebbe disputata nel mese di agosto su 8 tappe di 120/140 km, inframezzate da un giorno di riposo. Purtroppo questo progetto in quell’anno svanì come neve al sole! Il primo Tour de France femminile si svolse, a carattere regionale, nell’ambito della Normandia tra il 28 settembre e il 2 ottobre del 1955. Presero parte alla corsa 41 cicliste, tra cui 6 inglesi, una lussemburghese e una svizzera. Dopo 6 tappe su una distanza totale, oggi ritenuta forse ridicola, di 392 km, vinse quel primo storico Tour al femminile l’inglese Robinson, seconda classificata la connazionale Thackeray e al terzo posto la Donabedian. L’onda del successo di questo primo Tour si arenò sul nascere, poiché bisognerà aspettare il 1985 per vedere correre regolarmente le cicliste in un Tour de France.
Nel 1957 il congresso U.C.I. respinse la richiesta di dar vita a un rinnovato e finalmente ufficiale Campionato del Mondo Femminile, presentata nuovamente dalla N.C.U. inglese e appoggiata da Unione Sovietica, Cecoslovacchia e Francia. Il risultato fu commentato dal prestigioso quotidiano l’Equipe in modo a dir poco imbarazzante: «Il buon senso ha trionfato! Quindi le donne non avranno i loro Campionati del Mondo; dovranno accontentarsi delle gare già esistenti e del cicloturismo che corrisponde molto meglio alle loro possibilità muscolari e fisiologiche mediocri». Nel 1958, senza perdersi d’animo, il mondo ciclistico femminile tornò alla carica e con gran clamore l’U.C.I., pur con maggioranza risicata e controversa, non riuscì a respingere la richiesta e dovette dare via libera ai primi Campionati del Mondo Femminili sotto la propria egida. Tale notizia generò un entusiasmo collettivo fra le donne professioniste che portò a organizzare una gara precampionato del mondo che si svolse il 29 luglio 1958 a Copenaghen, il “Grand Prix Feminà”, la prima gara di velocità per donne a carattere veramente internazionale: vinse l’inglese Jean Dunn.
Un mese dopo, il 30 agosto 1958, a Reims in Francia, 29 cicliste in rappresentanza di 8 paesi si contesero la prima maglia iridata della storia del ciclismo femminile. Vinse quello storico evento sportivo la lussemburghese Elsy Jacobs, per distacco sulle russe Tamara Novikova e Maria Loukchina. Assenti le atlete tedesche per proibizione delle autorità sportive della Germania, divieto che si protrarrà, come già accennato, sino al 1966! Elsy Jacobs con la maglia iridata vinse anche una randonnée di 300 km in Francia. Però nel 1960 dovrà arrendersi e consegnare l’iride alla fortissima britannica Beryl Burton, che si ripeterà nel 1967. La Burton è ancora oggi considerata una capostipite del ciclismo femminile moderno, riuscendo anche a vincere per ben 5 volte la maglia iridata nell’inseguimento.
Dal 1960 in poi sembra però non cambiare più nulla. Il ciclismo in gonnella ristagna nuovamente. Fra olimpiadi e campionati su strada non riesce a esprimere campionesse costanti che possano fare la differenza e diventare un “faro”, un punto di riferimento e di forza per questo ciclismo considerato di Serie B, complice anche uno scarsissimo interesse a livello di istituzioni sportive, sponsor, stampa e pubblico. Insomma, come nell’Ottocento, anche nei nostri Anni ’60 alle donne era permesso stare “davanti” alla ruota dell’aratro o “dietro” alla ruota della macchina da cucire in fabbrica, ma non “sulla” ruota della bici.
La storia di Alfonsina
Il campione del mondo e grande tecnico della nazionale Alfredo Binda, durante un’intervista così si espresse a riguardo del ciclismo femminile: «Senz’altro sono avverso al ciclismo femminile. Sta bene il cicloturismo per le donne, più in là assolutamente no! Lo sport ciclistico non è adatto alle donne. Non è elegante vedere una signorina sudata, senza grazia spingere rudemente una bici dimenandosi sui pedali. Su questo punto sono certo di avere l’approvazione della maggioranza dei tecnici e degli sportivi».
Gli risponderà con piglio e determinazione l’amica di pedale Alfonsina Strada: «Le corse su strada sono e sono state sempre la mia grande passione. Quando pedalo sotto la sferza del sole o sotto la pioggia su strade polverose, fangose e piene di buche, quando sono in gruppo e lotto ruota a ruota con gli altri corridori maschi, dei quali molti mi superano, ma molti vedono la coda della mia bicicletta, allora sono veramente felice! Per quanto lotto in gara con tanti uomini alla pari sono sempre e rimarrò donna, orgogliosa di esserlo!».
Quando Alfonsina vinse una corsa professionistica a Orbetello, inviò un telegramma alla moglie gelosissima e imbufalita del famoso ciclista locale maschio, battuto e umiliato in volata: «Cavalleresca condotta di Suo marito. Stop. Permesso Alfonsina Strada giungere prima di Lui a traguardo. Stop. Corridrice riconoscente gesto cavalleresco Vostro marito: ringrazia. Stop».
Alfonsina Morini ha tre anni quando la mitica Annie Londonderry conclude il suo Giro del Mondo in bicicletta. Nasce il 16 marzo 1891 a Riolo di Castelfranco Emilia, secondogenita di una famiglia numerosissima di 10 figli e poverissima, in condizioni di vita al limite della sopravvivenza e in situazioni igieniche drammatiche. Alfonsina crescendo passa scarpe e vestiti agli altri fratelli e intanto lei, bambina, aiuta la madre sempre incinta a tirar su i fratelli più piccoli. Così sino ai 10 anni di età. Siamo nel 1901 e una domenica papà Carlo arriva a casa pedalando su una vecchia bicicletta da viaggio. L’ha avuta in regalo dal medico del paese in cambio di qualche gallina, uova e di lavori nell’orto. Alfonsina rimane come ipnotizzata da quell’oggetto con due ruote. Da allora inizia a pedalare e non si fermerà mai più!
Corre in bici e lo fa meglio di molti maschi. In famiglia nessuno è contento della piega che sta prendendo questa ragazza. «Le donne sono fatte per sposarsi e fare figli e accudire i propri mariti», continua a ripeterle sua madre, «altro che pedalare!». Iniziano i soprannomi: “diavolo in gonnella”, “donna canguro”, “donna – uomo” ma a lei non interessa nulla, vuole solo correre in bici. Non demorde e si allena sulla Via Emilia. Dopo aver iniziato a partecipare già a 14 anni alla gare provinciali riservate ai maschi, a 16 anni, nel 1907, decide di scappare di casa e di prendere il treno con la bici, contro ovviamente il parere dei genitori, che non riescono a fermarla, e va a correre a Torino, dove si svolgeva la domenica una gara ciclistica in Piazza d’Armi e al Valentino. Insieme a lei altre eroine del pedale: le signorine Bersonetti, Bonetti, Carignano. E vince! In poco tempo il nome della signora Alfonsa Morini da Bologna diventa famoso.
Viene proclamata“miglior ciclista italiana” il giorno in cui, in un’epica gara, batte la fortissima signorina Carignano. Ha solo 18 anni! E in quel 1909 partecipa al Primo Giro dell’Emilia insieme a campioni maschi del momento, come Calzolari e Pavesi, facendosi ovviamente notare e non arrivando ultima al traguardo. Viene notata da Carlo Messori, forte ciclista, pistard e allenatore dell’epoca, che diverrà poi il suo secondo marito. Questo nobiluomo le offre di partecipare con lui al famosissimo e prestigioso Gran Prix di San Pietroburgo, in Russia, nel 1910. Viene subito notata in terra russa, fortissima fra i maschi che gareggiano, tanto che lo Zar Nicola II e la Zarina Alessandra la invitano a corte e le regalano una medaglia d’oro commemorativa! Alfonsina ora è famosa.
Nel 1911 compie l’impresa che la proietta nella storia del ciclismo: stabilisce il record assoluto mondiale di velocità femminile correndo alla media di 37,192 km/ora, battendo il precedente primato fissato dalla francese Louise Roger nel 1903. Fra il 1912 ed il 1914 la ciclista di Castelfranco Emilia diventa una star dei velodromi francesi a Parigi, come il Buffalo e il Parco dei Principi. Verrà ribattezzata la “lisette italien”e fu amatissima in terra d’Oltralpe. Nel 1915 si sposa con Luigi Strada e si trasferisce a Milano. Il comprensivo, innamorato e lungimirante marito le offre come regalo di nozze una splendida bici da corsa da uomo. L’Italia entra in guerra: molte manifestazioni vengono sospese, ma il Giro di Lombardia continua a essere disputato. Nel 1917 sulla linea di partenza c’è anche lei, Alfonsina Morini in Strada con il numero 74. Con lei gareggiano sul percorso di 204 km personaggi del calibro di Costante Girardengo ed Henri Pellissier, futuro vincitore del Tour de France. Alfonsina si piazza all’ultimo posto, ma taglia il traguardo, non si ritira! Parteciperà anche l’anno successivo al Giro di Lombardia, questa volta penultima al 21° posto dei 22 corridori arrivati.
Armando Cougnet ed Emilio Colombo, ideatori del Giro d’Italia, la seguono, la notano e la vogliono quindi al Giro d’Italia del 1924! Quell’anno per questioni organizzative – dettate soprattutto dal denaro e da interessi commerciali delle case produttrici di bici e componentistica – le squadre più prestigiose decidono di boicottare il Giro d’Italia, non iscrivendo i propri assi. Assenti Brunero, Girardengo, Bottecchia e altri campioni del momento, la Gazzetta dello Sport si vede costretta – nel vero senso della parola – a raccattare ciclisti professionisti di secondo piano, anziani esponenti del ciclismo eroico e numerosi dilettanti e juniores. Tra i dilettanti, fornita di regolare licenza dell’U.V.I., vi era Alfonsina Strada. Gli organizzatori capiscono che far partecipare una donna al Giro d’Italia uomini – di quello strano Giro del 1924 – sarebbe stata una grande leva mediatica e pubblicitaria e non si lasciano sfuggire questa grande occasione. La determinata Morini in Strada ottiene quindi l’autorizzazione dagli organizzatori ed entra nella storia.
È a tutt’oggi l’unica donna a cui venne concesso questo onore negli oltre 100 anni della corsa rosa. Alfonsina – alla partenza del Giro venne catalogata con un sibillino cognome “Alfonsin” – si schiera in griglia con il numero 72. 12 tappe da affrontare per 3613 km, dal 10 maggio al 1 giugno 1924, con partenza anche a notte fonda. 90 i partecipanti: una sola donna! È nascosta e mimetizzata nel gruppo, quasi fosse una vergogna la sua presenza. Tappa dopo tappa, però, il pubblico si accorge di lei e all’arrivo tutti vogliono vedere e osannare Alfonsina, anche se molto attardata. Diventa così ben presto il personaggio più chiacchierato del Giro d’Italia 1924. Ma i colleghi corridori maschi, anche invidiosi del clamore da lei suscitato, non le fanno alcuno sconto. Alla fine di ogni tappa Alfonsina deve aspettare la mezzanotte per farsi una doccia e per mangiare, dopo che tutti gli altri erano già da tempo a riposare. Ma lei non molla!
Quinta tappa: Aquila – Perugia, tappa da tragedia! Clima terribile: piove a dirotto, strade fangose, vento, molti incidenti e tanti ciclisti si ritirano. Alfonsina, a causa di una buca, in discesa spacca in due pezzi il manubrio. Si ferma in un cascinale e viene aiutata da una anziana contadina, che le offre un manico di scopa che Alfonsina cerca di adattare in tutti i modi, da sola, alla pipa dello sterzo: ci riesce e riparte! Non vuole ritirarsi in alcun modo! Così combinata, stanca, distrutta e con la bici a pezzi, Alfonsina si presenta comunque al traguardo, ma fuori tempo massimo con 3h 02’ 43” di ritardo dal primo arrivato. I giudici vogliono squalificarla applicando rigidamente il regolamento, ma interviene Colombo, arguto e intelligente organizzatore che, riconoscendone il coraggio e la determinazione, le permette di continuare il Giro d’Italia, anche se fuori classifica. Su 90 partecipanti a Milano arriveranno, il 1 giugno 1924, solo in 30, ma fra di loro, acclamata dalla folla, ci sarà anche Alfonsina, il diavolo in gonnella che anche se fuori classifica ufficialmente non arriva ultima (ufficiosamente 21° posto).
Questa “ardita” del pedale fu ritenuta quindi il vincitore morale del Giro, procurandole una fama che travalicherà i confini d’Italia. Viene invitata in tutti i velodromi, è una star! Ed è per merito di tale notorietà che Alfonsina continuerà a rimanere famosa per sempre durante la sua vita. Morto il primo marito, si risposa con Carlo Messori e insieme aprono un negozio di riparazioni di biciclette a Milano. L’ultima gara a 65 anni: una corsa amatoriale per veterani che ovviamente vince! Nasce la passione per la moto, per la Moto Guzzi, e rimasta vedova di Carlo rimane sola ma sempre con il sorriso dei vent’anni. Il 13 settembre del 1959 è domenica: si corre la gara ciclistica Tre Valli Varesine. Alfonsina è spettatrice illustre ma discreta. Finita la gara torna a casa e mentre parcheggia la moto, forse per lo sforzo, la coglie un infarto che le spezza la vita. Lei fugge come ha sempre fatto in bici, ma questa volta per sempre.
Il Corriere della Sera annunciando la sua morte così scrisse: «È morta Alfonsina Strada ex-regina della bicicletta. Con lei scompare uno dei personaggi più rappresentativi non soltanto di un’epoca favolosa sportiva, ma anche di una Italia tramontata, deliziosa, ingenua e buona». Sulla lapide della sua tomba a Cusano Milanino c’è una foto di lei in tenuta da corsa. Sotto una scritta che è paradossalmente la sintesi della sua vita: “Alfonsina Morini… in Strada”.