Se parliamo di corse a tappe, in Italia, la prima è stata il giro di Sicilia, organizzato nel 1907 da quel Vincenzo Florio (industriale vinicolo e proprietario di una società di navigazione) famoso soprattutto per la gara automobilistica denominata “Targa Florio”, che vide la luce nel 1906.
Quella prima edizione si svolse in otto tappe e fu vinta da Galetti su Ganna. A inizio Novecento le strade del Sud erano ancora terribilmente disastrate, con pochissima segnaletica e adatte al passo dei cavalli e degli asini più che a quello delle biciclette. Quando si dice che in quegli anni il ciclismo era più avventura che sport, si dice il vero.
La gara ebbe un seguito l’anno successivo, vinta sempre da Galetti, questa volta su Albini, ma poi non ebbe la costanza di diventare un appuntamento annuale e venne organizzata a intervalli temporali anche considerevoli. Poi, due anni dopo, nel 1909, è stata la volta del Giro d’Italia, organizzato dalla Gazzetta dello Sport (e soffiato al Corriere della Sera). Anche questa prima edizione della futura corsa rosa ebbe otto tappe e i primi due classificati furono gli stessi Ganna e Galetti ma, questa volta, a posizioni invertite. Sull’onda dell’entusiasmo, nel 1910 il giornale Il Secolo, fondato nel 1866 a Milano, volle dar vita a un’altra gara a tappe nella speranza di creare un evento di lunga durata.
Purtroppo, come spesso accade quando vengono a mancare soldi e anche un pizzico di fortuna, questa nuova proposta nacque e morì con quella prima edizione.Secondo molti fu un tentativo di imitare il Giro d’Italia, e quando si cerca di copiare si sa che non si va troppo lontano. Vennero scelte località che avessero molto da dare dal punto di vista paesaggistico, anticipando per certi versi la moda delle corse di promozione turistica. Era un giro del Nord Italia, un giro della Padania ante litteram! La Stampa, che al Giro dello stesso anno era una delle poche testate a permettersi un’auto al seguito, subì uno sgarro da un’altra vettura. La competizione difatti era anche tra i giornalisti: durante una tappa dell’ultima edizione, nei pressi di San Michele al Tagliamento, in un sorpasso l’ammiraglia che ospitava i giornalisti della Gazzetta, della Stampa e del Corriere della Sera buttò fuori strada l’auto degli inviati del Secolo e non si fermò a soccorrerli. C’era quindi una fortissima rivalità tra il Corriere della Sera e il Secolo.
“Al Mare, ai Monti, ai Laghi”: questo il nome dato alla corsa ciclistica che si svolse dal 31 luglio al 14 agosto del 1910. Le tappe? Otto, neanche a dirlo, per un totale di 1961 km e un montepremi totale di 20.000 lire. Da pedalare, come consuetudine vista la lunghezza delle tappe, un giorno sì e uno no.
LA CORSA DEL SECOLO
Il pretesto è il 25° anniversario della fondazione della Unione Velocipedistica Italiana, nata appunto nel 1885. Il perché del nome della gara è presto detto: si toccavano il mar Ligure e quello Adriatico, i laghi prealpini di Garda, d’Iseo, Maggiore e di Como, e si scavalcano più volte gli Appennini. Si partiva da Alessandria e si arrivava a Milano. Tra gli iscritti ci sono tutti i protagonisti dell’epoca, molti dei quali reduci dalle fatiche del Giro: Galetti e Pavesi, ma anche Gerbi (che non era più il Diavolo di un tempo), Aymo, Bordin e Rossignoli. Tra i dilettanti Ugo Agostoni e Azzini, Fasoli e Calzolari. La gara è aperta infatti a professionisti (sessantaquattro) e dilettanti (centosessantasette). L’unico assente “di peso” è Luigi Ganna, che ha aperto bottega a Varese e si avvia a diventare industriale.
La corsa è un dominio degli uomini della Medusa (Galetti e Pavesi), una sottomarca della Bianchi, che però paga malissimo: cinquemila lire per la vittoria finale, cento lire per le vittorie di tappa. Il direttore tecnico è Cavedini. Galetti, che avrà la meglio su Pavesi e Aymo, vince la quarta e l’ottava tappa ed è quattro volte secondo, nella prima, quinta, sesta e settima; terzo infine nella seconda, così da dominare la classifica finale che, come da usanza in quegli anni, è a punti. La corsa ha uno strascico in tribunale, perché ai Tre Moschettieri dell’Atala, per cui hanno corso il Giro d’Italia, è stato negato il permesso di partecipare a questa corsa con un’altra squadra. Non solo: Angelo Gatti, dirigente industriale e direttore sportivo dell’Atala, li ha anche colpiti economicamente, non versando a nessuno dei tre quanto pattuito per la partecipazione al Giro. Ma Bruschera, Galetti e “l’Avocatt” Pavesi la spunteranno con l’aiuto dei giudici e, oltre a intascare un discreto gruzzolo in cui si assommano gli stipendi arretrati, i premi e gli interessi legali, lasceranno l’Atala per la Bianchi. Ma questa è un’altra storia (che trovate peraltro su BE47 raccontata da Marco Pasquini).
Nella prima tappa, da Alessandria si arriva a Salsomaggiore con Pavesi che vince solitario, Galetti e Sala sul podio. Classificati 35 professionisti (quasi la metà dei partenti) e 133 dilettanti (primo Ugo Agostoni). Nella seconda fatica, Salsomaggiore–Rimini di 261 km, la spunta Brambilla su Pavesi e Galetti in 14 ore e 19 minuti. Si percorre la via Emilia toccando Parma, Reggio, Modena e Bologna. Come si può notare, medie decisamente basse che ci fanno pensare che i partecipanti non si sono certamente dannati l’anima per questa competizione. La terza tappa è la Rimini – Montecatini di 213 km, con i passaggi attraverso Firenze e Pisa, vinta da Bruschera sul giovane Micheletto, corridore dalla classe cristallina che diventerà per tutti il “Conte di Sacile”, e sul torinese Pietro Aymo. Tra i dilettanti primo un altro torinese: Eligio Bianco.
IL GRAN FINALE
Nella quarta tappa, la Montecatini – Genova di 240 km, si risale la Toscana e si arriva in Liguria. La spunta come detto Galetti su Micheletto e Pavesi, mentre nella successiva quinta frazione, Genova – Acqui (225 km) è ancora Bruschera su Galetti e Pavesi. La sesta tappa attraversa Asti, la patria di Gerbi (definito da Pavesi «Vecchio cinghiale con le zanne cariate» su “L’avocatt in Bicicletta”, capolavoro di Gianni Brera). Sentendo odore di casa, il sangue di Diavolo Rosso torna giovane e si ringalluzzisce. I suoi compaesani lo invocano a gran voce: «Giovannin, Gioan!». Uno in bicicletta si intromette tra i concorrenti e, zigzagando pericolosamente, cerca di affiancare Gerbi per dargli da bere, ma Pavesi, che rischia di cadere a causa dell’incauto personaggio, lo allontana con una mano e lo fa ruzzolare, suscitando l’ira rabbiosa di Gerbi, che gli allunga una manata! Eh sì, a quei tempi senza telecamere al seguito i colpi di mano, le liti e le discussioni erano all’ordine del giorno. D’altra parte si stava in bicicletta per giornate intere, i corridori si conoscevano più o meno tutti e la preoccupazione maggiore era quella di portare a casa due soldi, per cui spesso e volentieri, “machiavellisticamente” parlando, il fine giustificava i mezzi.
La Aqui – Pallanza di 261 km è quindi vinta da Brambilla, così come la settima Pallanza – Salò di 267 km, che tocca tutti i laghi del Nord-Ovest. L’ultima tappa va da Salò a Milano, ed è la più lunga con i suoi 284,4 km. Viene conquistata da Galetti, che vincerà la classifica finale con 17 punti su Pavesi (33 punti) e Aymo (41 punti). Tra i dilettanti abbiamo Agostoni (55 punti), Fasoli (65) e Bianco (68). Ultimo quel Calzolari che quattro anni dopo vincerà il Giro d’Italia del 1914, che a detta di tutti gli esperti sarà il più duro mai disputato, con le tappe più lunghe mai corse, con i distacchi più importanti, con le medie più basse di tutti i Giri, la fuga solitaria più lunga di sempre e con solo 8 concorrenti all’arrivo finale. Una gara che avrebbe fatto la felicità di Henri Desgrange, il quale aveva partorito il suo Tour de France nel 1903 come una gara a eliminazione dove un solo concorrente avrebbe dovuto portare a termine la gara. Tornando alla nostra Al Mare, ai Monti, ai Laghi, all’arrivo a Milano, sede del giornale organizzatore Il Secolo, concludono sessanta corridori sugli oltre duecento partiti. Atleti valorosi che hanno sfidato il sole cocente, la sete, la polvere accecante e gli imprevisti sempre dietro ogni curva.
Secondo alcuni addetti ai lavori la gara non ha avuto grande riscontro perché collocata nel mese più caldo dell’anno e oltretutto su strade, benché settentrionali, non certo tra le meglio tenute. Potremmo paragonare questa corsa a tappe a un arbusto che cerca di crescere sotto ad alberi ben più grandi (ovvero Tour de France e Giro d’Italia), che con la propria ombra non gli fanno arrivare la luce necessaria. Seppure si trattasse per tutte delle prime edizioni, in quegli anni non c’era spazio per un’altra grande corsa a tappe, ed essendo la più giovane e meno strutturata fu destinata a soccombere. Questo però ci deve far riflettere sul fermento ciclistico dei primi del Novecento: la bicicletta, cavallo popolare, è stata la grande occasione degli italiani per scoprire il Paese, sia grazie alle competizioni organizzate dalla UVI sia per la bontà dell’opera del Touring Club Ciclistico Italiano, anch’esso nato a Milano, attraverso gite collettive, l’imponente azione di cartellonistica stradale e le famose guide di cui abbiamo raccontato anche noi. Alcuni anni dopo, nel 1919 fu organizzata una gara a tappe simile ma nel Sud Italia: Il Giro dei Tre Mari (Adriatico, Ionio e Tirreno). Una corsa disputata quattro volte (1919, 1920, 1938 e 1949) e di cui si è persa memoria. Ma di questa parleremo un’altra volta.