Il 10 maggio 2021 la maglia rosa ha compiuto 90 anni. Una storia lunghissima, ricca di campioni che hanno lottato per indossarla, a Giro in corso o fino alla fine, e di episodi leggendari che l’hanno vista oggetto di contesa.
A 90 anni di distanza dalla prima tappa del Giro d’Italia 1931, che introdusse la maglia rosa come simbolo del primato in gruppo, vogliamo ripercorrere la storia di quell’edizione della corsa rosa e dei suoi protagonisti, a partire da primo che ebbe il privilegio d’indossarla: Learco Guerra.
Paolo Bottiroli, nell’articolo “Guerra prima maglia rosa, ma il Giro è di Camusso”, presente sul volume “100 volte Giro”, riporta: «Il Giro la introduce infatti solo nel 1931, a 22 anni dalla sua nascita e dopo 18 edizioni già disputate». Il Tour de France aveva istituito la maglia gialla nel 1919. Nella prima edizione della Grande Boucle dopo la guerra, il patron Desgrange aveva infilato questa modifica nel regolamento: il leader della classifica avrebbe indossato una maglia gialla (prodotta dalla ditta di abbigliamento intimo Rhovyl), per meglio identificarlo all’interno del pelotón. Il colore era un chiaro richiamo a quello delle pagine del giornale, “L’Auto”, organizzatore della corsa.
La maglia sarebbe apparsa in gruppo nell’undicesima tappa, da Grenoble a Ginevra. Nelle intenzioni di Desgrange la sua evidenza serviva per distinguere nel buio il capo classifica. In precedenza si usava far mettere una fascia verde al braccio. Il francese Eugène Christophe, in quel momento in testa alla classifica generale, entra così nella storia per essere stato il primo corridore ad aver indossato la maglia gialla (il 19 luglio del 1919 al Café de l’Ascenseur di Grenoble).
Passano 12 anni prima che anche in Italia si adotti questa soluzione. A differenza della versione francese, la sua introduzione sfila clandestinamente, quasi sotto silenzio, o quanto meno con pochissima pubblicità. Il perché è dovuto al suo colore e al periodo storico. Sul colore Armando Cougnet, organizzatore del Giro d’Italia, aveva pochi dubbi: sull’esempio d’oltralpe avrebbe ripreso quello del giornale organizzatore. Commenta Bottiroli: «Non tutti furono concordi con la scelta, però pare che al partito fascista, in quegli anni al potere, quella cromia sembrasse troppo delicata e poco adeguata ad atleti chiamati a rappresentare nel mondo il nome e l’orgoglio italico: perché non scegliere un colore più “maschio” come il nero? Nulla da fare: “La Gazzetta” aveva deciso e non sarebbe tornata indietro nella sua scelta». Non sarebbe tornata indietro, ma non poteva neanche pubblicizzarla troppo. Fu così che «[…] quando La Gazzetta pubblicò il regolamento del XIX Giro, il termine “maglia rosa” non vi figurava. Soltanto nel giorno della partenza del Giro, in una pagina interna, si poteva leggere che «il nostro giornale istituisce, a somiglianza di ciò che avviene nel Giro di Francia, la maglia rosa che tappa per tappa del Giro d’Italia sarà indossata dal corridore primo in classifica», annota Giuseppe Castelnovi ne “Il primo fu Guerra”, nel volume “Giro d’Italia, la grande storia” (1925-1935).
Il 10 maggio del 1931, prima tappa del XIX Giro d’Italia, sulla pista del Te di Mantova, Learco Guerra, campione italiano in carica, batte in volata il campione del mondo Alfredo Binda e conquista la prima maglia rosa. Ci teneva Learco a conquistarla, si arrivava nella sua città, lui della vicina San Nicolò Po, davanti agli amici e ai suoi tifosi. Il giorno dopo (11 maggio), riportando la cronaca della corsa, il direttore della Gazzetta, Emilio Colombo, pur esaltando la progressione della Locomotiva Umana, non nomina mai la maglia rosa: «Guerra ha vinto a Mantova. Sulla pista del Te, gremita di pubblico in ogni ordine di posti, tanto da offrire all’occhio di chi lì giungeva… una visione indimenticabile. Sono entrati, precedendo nettamente la tumultuosa teoria delle maglie di ogni colore indossate da un’ottantina di atleti, sei uomini: Di Paco, Guerra, Battesini, Binda, Mara e Marchisio. Questi leaders hanno sfilato nell’ordine riferito davanti al palco delle autorità e si sono contesi la vittoria nell’ultimo giro dell’ampia pista in terra battuta. Learco Guerra aveva con sé due preziosi compagni di squadra, era in condizioni fisiche superbe, aveva palesato durante l’intero percorso una prontezza e una facilità di azione ammirevoli e ha vinto da campione poderoso e sicuro di sé. L’atleta dalla maglia tricolore ha tagliato il traguardo senza dare l’impressione di dover lottare con il cuore in gola. Ha vinto quasi a dimostrazione del suo splendente grado di forma e ha vinto per la gioia e l’orgoglio dei sui concittadini».
Per trovare il termine magico “maglia rosa” in un titolo della Gazzetta occorre attendere il giorno di riposo, vigilia della tappa Perugia-Montecatini: «Riuscirà Luigi Marchisio a difendere la maglia rosa dall’assalto degli avversari?». Addirittura a fine Giro, “maglia rosa” appare solamente in una didascalia dedicata al vincitore: «Francesco Camusso titolare della maglia rosa», chiosa Castelnovi. Ma come si era arrivati a quel Giro e cosa successe dopo la tappa di Mantova?
IL GIRO D’ITALIA 1931
Il Giro d’Italia mette di nuovo di fronte, dopo la Sanremo, i due rivali Binda e Guerra. L’interesse per questa edizione della corsa rosa è superiore a quello dell’anno precedente, dove Binda era stato assente (manifesta superiorità) e Guerra era stato un gregario di Giacobbe. Sulla base della vittoria alla Sanremo, Binda credeva di essere superiore al mantovano in velocità. Non era così. Guerra, dopo aver vinto a Mantova, replicava nella seconda tappa (11 maggio: Mantova > Ravenna – 216 km, vinta con il fisso) e manteneva il simbolo del primato. Sembra che sia destinato a dominare la corsa, difendendosi in salita e attaccando in pianura.
La situazione si capovolge letteralmente nella terza frazione (13 maggio: Ravenna > Macerata – 288 km). Il racconto direttamente dalla penna di Vittorio Varale (in “Learco Guerra nel suo tempo”): «Jesi era stata lasciata alle spalle, e la strada cominciava a snodarsi su e giù per brevi salite sulle quali, oltre agli “isolati” che non vale la pena di nominare, vidi in difficoltà Mara, Caimi, Piemontesi e Magne. Ai piedi della salita che per cinque chilometri porta a Filottrano, Guerra si portò in testa. L’attacco non fu brusco e violento, ma la continuità dell’azione del mantovano fu tale che il gruppo, ch’era rimasto d’una trentina d’unità pel motivo dinanzi accennato, si trovò in breve sparpagliato su una distanza di circa un chilometro. Dietro a Guerra c’erano: Binda, Bovet, Marchisio, Battesini, Giacobbe, Camusso, Morelli, Peglion, Gestri, Mara, Zanzi, i belgi Delannoye e Decroix, gli “isolati” Balma Mion, Cavallini e Baral».
Sul forcing della Locomotiva Umana in testa restano solo il capitano della Maino (Guerra) e quello della Legnano (Binda). «Giunti sul culmine di questo colle, Guerra e Binda scesero contemporaneamente per girare la ruota; ma mentre Binda non tardava a sbucare da dietro le automobili del seguito, e a riprendere il suo posto d’avanguardia, Guerra non apparve. Arrivò invece, a gran carriera sul quel falsopiano, il fratello di Binda, l’Albino peso mosca, gridando: – Allè! Allè! – il segnale classico di allarme e di incitamento». Il secondo Binda si è accorto delle difficoltà del “grigio” della Maino e avverte il suo capitano.
Guerra passa con ritardo, scortato dal compagno Rinaldi. Non sembra in crisi, tanto che rientra in gruppo e si riporta davanti. «L’andatura da lui impressa al plotone scemò di tanto che alcuni degli staccati poterono riprendere. La crisi, latente da qualche tempo, scoppiò in pieno qualche chilometro appresso, quando i corridori si trovarono ai piedi del colle su cui si adagia Macerata».
Nel punto più duro della salita lo scatto di Binda. «Guerra cedeva si schianto, metteva piede a terra. Fu un momento d’intensa drammaticità. E mentre Guerra, lo sguardo spento, la fronte gocciolante di freddo sudore, si stringeva la testa fra le mani perché gli pareva che tutto gli turbinasse d’intorno, davanti a lui la battaglia divampava violentissima, tutta contro di lui, tutta a favore del suo avversario diretto, l’aborrito Binda, che scrollatasi di dosso quell’apatia, si era messo al comando dei rimasti e li conduceva su per l’ultima salita col brio dei suoi giorni migliori. In pochi minuti la corsa era decisa». In quattro chilometri Learco Guerra, in piena crisi di fame, perde 5’44” dal campione del mondo, che va a vincere la tappa e a indossare la maglia rosa.
Nella quarta tappa (15 maggio: Macerata > Pescara – 234 km), volata di gruppo con un testa a testa tra Binda e Guerra, con vittoria assegnata dai giudici al primo grazie alla foto scattata da un fotografo presente all’arrivo (non esisteva ancora in fotofinish). I tifosi di Guerra, nei giorni seguenti frantumarono per vendetta la vetrina del negozio dove la fotografia venne esposta. A Napoli, quinta tappa (17 maggio: Pescara > Napoli – 282 km), vittoria di Mara in volata su Guerra e Binda.
La tappa però è vissuta come un lungo trasferimento, con solo i traguardi volanti che la animano. Riporta Carlo Delfino nel suo libro “La maledizione della rosa”: «La frazione si trasforma in una sorta di passeggiata verso la ridente e solatia Campania, con la Legnano intenta a presidiare le prime posizioni e la Maino rincantucciata a riccio attorno a Guerra. Sorprende soprattutto la mancanza di combattività anche di coloro deputati, in passato, a scuotere la cronaca: se dagli “isolati” non c’è da aspettarsi più di tanto, sono le cosiddette “mezze figure” a latitare clamorosamente. In particolare sotto accusa è la Gloria, che mai sinora ha tenuto fede alla sua fama di squadra coriacea, impavida e soprattutto garibaldina».
Stratagemma inatteso
Cougnet interviene. «Escogita un clamoroso escamotage, tra l’altro previsto dal regolamento», prosegue Delfino. «Decide che la seguente tappa, Napoli-Roma, venga disputata in un modo alquanto singolare: gli “aggruppati” partiranno quindici minuti prima degli “isolati” e verrà dichiarato vincitore chi avrà impiegato meno tempo a percorrere l’intero tragitto previsto. Non, dunque, il primo che taglierà il traguardo: e questa, bisogna ammetterlo, è una novità sconcertante, almeno per l’Italia. In questo modo si spera di favorire la lotta, creando la suspense per il risultato finale. Soprattutto si cerca di scuotere i favoriti e di realizzare le premesse per una combattività che, a conti fatti, sinora è clamorosamente mancata». La sesta tappa (19 maggio: Napoli > Roma – 265 km) è caratterizzata dunque da partenze separate: prima i corridori delle case produttrici, poi gli “isolati” a un quarto d’ora. Guerra non è fortunato: fora quattro volte nel giro di pochi chilometri ed è obbligato a rincorrere. In modalità cronoman recupera in trenta chilometri lo svantaggio. Alcuni compagni di squadra (Rinaldi, Di Paco e Battesini) si sono fermati per aiutarlo, ma non possono resistere loro stessi alla sua azione.
Al passaggio a livello di Monterotondo ha ancora un ritardo di tre minuti (poco prima aveva dovuto fermarsi per cambiare la quarta gomma). A Ponte Milvio, all’entrata in Roma, a poco più di un chilometro dal traguardo posto a Villa Glori, Learco rientra sul gruppo e si porta in testa. Fa anche la volata prendendosi la rivincita su Mara, dal quale era stato battuto due giorni prima a Napoli (vittoria, però, è dell’isolato Ettore Meini).
Binda è vittima di una caduta. A quattrocento metri dallo striscione d’arrivo viene investito da Giacobbe e Canavesi, che gli passano sopra con le biciclette. Racconterà, il capitano della Legnano, di aver sentito ruote di biciclette passargli sul collo e sulle costole. È malconcio. Lo aiutano a rialzarsi e rimontare in sella per finire la corsa. È passato più di un minuto dal momento in cui Guerra e Mara avevano tagliato il traguardo. Mara sale così primo in classifica. Guerra è sempre in ritardo di sei minuti.
Nella settima tappa (21 maggio: Roma > Perugia – 247 km) Binda parte, ma è dolorante al fianco sinistro. Si stacca sulla salita di Narni e a Terni si ritira. Racconta Varale: «Avevo visto, nei pressi di Terni, Binda metter piede a terra e levarsi le gomme da tracolla. Ci siamo – dissi fra me. Quel gesto, che ben conoscevo, era eloquente più di ogni discorso. Sofferente per la caduta all’arrivo a Roma, il campione del mondo non era più in condizione di continuare. E poco dopo saliva su un’automobile». Guerra vince ancora. Arriva da solo con un vantaggio di 36″ su Camusso e 1’01” su Marchisio (gregario di Binda), che veste la maglia rosa.
Ancora Varale: «Dopo Spoleto, dove la strada è liscia e piana, Guerra parte come una palla di cannone a liberarsi di tutti i suoi avversari. Due giorni appresso, dopo una salita da niente presso Pistoia, quando venti chilometri mancavano all’arrivo a Montecatini, Guerra ripete il gesto, forte, autoritario, deciso. Nessuno gli può resistere, ed egli vince nuovamente. In due tappe, con due fughe vittoriose, che portano il marchio inconfondibile della sua personalità, egli ha annullato lo svantaggio creatogli a Macerata dalla malefica debolezza».
Il gran finale
Il capitano della Maino torna in maglia rosa. Senza il suo principale avversario la strada verso il successo finale sembra spianata, ancor più di quanto non sembrasse in precedenza. Per Guerra una serata festosa a Montecatini. Il giorno dopo nona tappa (25 maggio: Montecatini Terme > Genova – 248 km). Si parte presto, si valicano monti e valli, sgusciando sotto le Apuane. Si sale nel cuore della Lunigiana, a oltre 600 metri d’altezza, «il mare di Spezia era ancora lontano dietro i monti che restavano da valicare», osserva Varale.
L’ascesa al Colle della Spolverina (che divide la Toscana dalla Liguria) è dura, faticosa per tutti, ma particolarmente per Guerra. Perde terreno, al quarto tornante è già staccato. Viene superato da Mara, mentre davanti sono scattati Camusso e Cavallini.
Nella successiva discesa su Fosdinovo, «alla nostra destra le crete dentellate delle Apuane si stagliavano nette contro il cielo sereno» chiosa sempre Varale, di Guerra non c’è traccia. La corsa prosegue verso Aulla, si passano i ponti sul fiume Magra e sul Vara, e La Spezia comincia ad avvicinarsi La Locomotiva Umana non è ancora rientrata. Si scopre che è caduto, che è stato investito da Gestri (che lo seguiva a pochi metri), che è stato ferito a una spalla dalla leva del freno.
Riporta Delfino: «Guerra è in affanno, ha i sensi appannati. Il tifoso esagera, gli si avvicina troppo. Travolto dall’entusiasmo e dalla passione, probabilmente egli calcola male le distanze. È un movimento di un secondo ma basta a rovinare una corsa di duemila chilometri. Il tifoso infatti tocca Guerra e lo sbilancia. La bici della maglia rosa ha un brusco sbandamento e Learco non può evitare la caduta».
Segnala Varale: «Guerra era immobile, abbandonato sulle gambe che non lo reggevano più, che si piegavano afflosciate come fossero di pezza. Lo tenevano in due, sotto le ascelle, di peso, perché da solo non stava ritto. Lo sguardo aveva vitreo, quasi senza vita; la faccia in pallore. Sollevatagli la maglia, si vide che la ferita era stata riportata proprio sotto la scapola; faceva sangue, che fu fermato con dell’ovatta e del taffetà. Di Paco e Rinaldi s’erano fermati; avevano assistito con le lacrime agli occhi alla scena e ora facevano coraggio al loro capo, incitandolo a riprendere la corsa: “Ti passerà, ti passerà; andremo adagio e noi staremo con te. Coraggio, Learco!”. Non poté resistere. Andò ancora avanti come un automa, sempre più distante dai primi che gli guadagnavano minuti sopra minuti, fin che alla Spezia, dove mancavano novanta chilometri a finire la tappa, cedette di schianto». Per Varale, con il ritiro di Guerra, il Giro perde d’interesse: «Guerra ritiratosi dalla lotta, il Giro d’Italia finì con la musoneria dei meriggi domenicali nelle piccole città di provincia, quando tutto è uggioso, opaco, stanco, e la gente e le cose sembrano portare il peso dei secoli». In realtà, invece, la battaglia per la maglia rosa quell’anno fu serratissima fino alla fine.
A Genova Luigi Marchisio, vincitore l’anno precedente, diventa capo classifica, ma mantiene la maglia solo per un giorno. Nella decima tappa (27 maggio: Genova > Cuneo – 263 km) Delfino spiega: «Pronti, via (alle sei di mattina) e subito battaglia aspra. La Gloria tiene fede alle attese, Rovida attacca sin dai primi metri, poi tocca a Cavallini. Sulla Bocchetta, come prevedibile, emergono in fretta i migliori. Giacobbe si dimostra pimpante, Marchisio lo bracca, Camusso rilancia l’azione, Cavallini e Rinaldi non perdono una battuta.
A loro si uniscono Gremo, Zanzi, Canavesi e Rovida. Nasce la prima fuga di giornata mentre Mara arranca, rimbalzando indietro su un terreno per lui impossibile». Poi, poco prima di entrare nel paese di Priero, Marchisio fora.
Viene attaccato da Camusso, Cavallini e Giacobbe (gregario di Guerra), il quale vince con un vantaggio di 2’56” e gli strappa la maglia rosa. «Marchisio giunge a 2’56” dal vincitore e impreca contro la “maledizione della rosa”. Ormai tutti i suiveurs stanno accettando la teoria, formulata quasi per scherzo, da Bordin e Carlin a Macerata. In questo Giro chi indossa il simbolo del primato, sembra attirare su di sé gli strali della sfortuna», chiosa Delfino.
Nell’undicesima e penultima tappa (29 maggio: Cuneo > Torino – 252 km) Giacobbe riparte con un vantaggio di 2’20” su Camusso. Ormai la lotta per il primato sembra ristretta a questi due piemontesi. Sul Sestiere Giacobbe viene urtato da Gremo, cade e sfascia la ruota posteriore. Delfino: «Ed il colpo di scena, l’ennesimo di questo Giro elettrizzante, arriva ancor prima di Pragelato, a circa undici chilometri dalla vetta, in una curva dal fondo ghiaioso particolarmente dissestato. Gremo infila la sua ruota anteriore in una piccola buca, sbanda e urta Giacobbe, in quel momento a lui affiancato. I due si sbilanciano e cadono a terra. La maglia rosa assaggia nuovamente la polvere della strada! Giacobbe è ferito al ginocchio destro. Un taglio non molto profondo ma sanguinante. Si rialza prontamente, smoccolando più di Capaneo, e si dispera per la ruota posteriore completamente distrutta. Camusso, col suo rapportino agile, scatta e si fionda all’attacco, ben assecondato da Balmamion e Marchisio che ovviamente non può proprio preoccuparsi del compagno Gremo, pure lui malconcio e con la bici in disordine». Camusso scatta in solitaria a 130 km dal traguardo e scollina con un minuto sulla maglia rosa. In discesa fa delle vere e proprie acrobazie, incrementa il vantaggio in pianura e va a vincere con 3’10” su Giacobbe. Questo distacco, insieme ai due minuti di abbuono, permettono al corridore della Gloria di conquistare il Giro con 2’47” su Giacobbe e di vestire definitivamente la maglia rosa a Milano.
Francesco Camusso nel 1931 ha ventitré anni, è originario di Cumiana, presso Torino. Così lo ricorda Ildo Serantoni: «È stato un ottimo scalatore, in possesso anche di grande fondo atletico, resistente alle fatiche prolungate: dunque, un corridore particolarmente tagliato per le lunghe corse a tappe. Non a caso, accanto al già vittorioso Giro del 1931, Camusso può vantare il secondo posto nel 1934, a soli 51″ da Learco Guerra, e due eccellenti piazzamenti al Tour: terzo assoluto più una vittoria di tappa nel 1932 e quarto con un’altra vittoria di tappa nel 1937. Purtroppo non era dotato di spunto di velocità e questo gli ha impedito di cogliere importanti successi nelle corse in linea. Correva nella Gloria, la squadra del mitico Alfredo Focesi, i cui corridori venivano soprannominati “Garibaldini” per la loro continua voglia di attaccare». La vittoria al Giro lo farà partire con i gradi di capitano della rappresentativa italiana al Tour de France di quell’anno.
Per Guerra quel 1931 sarà comunque da ricordare. Vincerà il titolo di campione italiano, ma soprattutto il Campionato del Mondo a Copenaghen, nell’unico mondiale disputato a cronometro.