Oggi gli appassionati di biciclette antiche che amano le competizioni si divertono a voler sembrare degli improbabili epigoni di Gerbi o Ganna o Petit-Breton, mentre i più tranquilli e modesti pedalatori divengono gli emuli di quel signorotto in giacca, gilet, pantaloni alla zuava e immancabile magiostrina che, lasciata la tranquillità famigliare, raggiungeva l’osteria in sella al suo destriero d’acciaio.
Essi rappresentano così molto bene gli stereotipi di un’epoca irripetibile, parliamo dell’ultimo decennio dell’800 e del primo del ‘900, quando il velocipede, abbandonata la pericolosa ruota alta del biciclo, assume, grazie alla catena, le più civili e sicure forme della bicicletta come la conosciamo oggi.
Il velocipede in quell’epoca portò una innovazione e un cambiamento sociale come mai prima di allora era avvenuto. Lo possiamo paragonare, senza timori di smentite, alla rivoluzione che nell’ultimo ventennio ci ha procurato lo smartphone. Come oggi grazie al telefonino possiamo viaggiare in ogni ambito dell’informazione, così sul finire del XIX secolo si poteva viaggiare fisicamente e velocemente, per quel tempo, senza bisogno di sottostare agli orari di treni e diligenze. Insomma ci si sentiva liberi. E questa libertà portò alla nascita di quel turismo che oggi definiamo di massa, ma che all’epoca era la prerogativa di poche intraprendenti e colte persone che vedevano nel velocipede anche uno strumento per fini culturali. Il viaggio non era privo di insidie perché sulle strade ci si poteva imbattere in malintenzionati e bisognava sempre sorvegliare strettamente la propria bicicletta per evitarne il furto. Per cercare di limitare al massimo gli inconvenienti di viaggio si doveva essere scrupolosi nell’organizzazione, che assumeva quasi il valore di un rito che si svolgeva attraverso passaggi ben definiti.
1) l’informazione
La prima cosa di cui l’avventuroso velocipedista si occupava era l’informazione, non quella turistica (la prima guida infatti sarà edita dal Touring Club solo nel 1914) ma quella tecnica che riguardava la bicicletta, il modo di usarla, e gli accessori più adatti al suo impiego. Le prime guide, i manuali e i giornali velocipedistici nacquero in Francia, e non poteva essere diversamente essendo la patria dei bicicli tipo “michaudine”, poi vennero le edizioni inglesi che surclassarono tutti in qualità e quantità, ma di questo abbiamo già ampiamente parlato in un altro numero della rivista.
In Italia il fenomeno della stampa ciclistica specializzata e di qualità nacque negli Anni ’80 dell’800 e si sviluppò particolarmente nell’ultimo decennio. Risale al 1893 la prima uscita del settimanale, edito a Milano dal Corriere della Sera, “Il Ciclo” che l’anno successivo cambiò il nome in “La Bicicletta”. Questa rivista venne sostanzialmente creata per motivi di concorrenza contro l’altro quotidiano milanese Il Secolo, edito da Sonzogno. Quest’ultimo, nel 1895, rispose pubblicando il 4 luglio il primo numero de “Il Ciclista, rivista settimanale popolare illustrata di velocipedismo”, mentre a Torino nasceva “La Tripletta”, settimanale che prendeva il nome dal tandem a tre posti, il cui direttore era Eugenio Camillo Costamagna, che l’anno successivo fu invitato da Sonzogno a Milano per studiare una collaborazione con la rivista “Il Ciclista”. Questa collaborazione portò alla nascita de La Gazzetta dello Sport, un bisettimanale con uscita il lunedì e il venerdì.
2) la cura del velocipede
I velocipedi hanno sempre avuto bisogno di particolari attenzioni soprattutto in un’epoca in cui la tecnologia dei materiali era ancora piuttosto arretrata. Con l’avvento dei bicicletti di sicurezza, i cui telai erano tutti verniciati e avevano alcune parti nichelate, i consigli sulla pulizia cambiarono rispetto a quelli che erano stati dati per i bicicli soprattutto di legno. Vediamo quindi di riproporre tali consigli prendendoli di sana pianta dai vari manuali anche perché possono essere utili ancora oggi.
Se il velocipede era sporco «con un cencio qualsiasi si comincerà a togliere tutta la polvere ed il fango, e se questo fosse troppo secco, si avrà l’avvertenza d’inumidire la pezzuola per non intaccare lo smalto o la nichelatura. Per pulire bene la catena, sarà necessario passare sulle maglie di questa un pennello mezzano e quindi ripassarvelo bagnato di petrolio». Era molto consigliato l’uso del petrolio, indispensabile per pulire le sfere dei movimenti che poi andavano ingrassate, si doveva però avere cura che il petrolio non venisse casualmente a contatto con il caucciù delle gomme per evitare l’azione “dissolvente”. Se durante il viaggio si prevedeva di trovare pioggia, era consigliato ungere le parti nichelate per proteggerle.
Per il buon funzionamento delle parti in movimento era «necessario sollevare leggermente le ruote e con un piccolo martello in legno batterle, onde assicurarsi che l’acciaio che le circonda sia perfettamente affrancato. Dare quindi ad esse un leggero impulso. Più la rotazione sarà silenziosa e lenta ad estinguersi, più sarà l’assicurazione che le ruote funzionano benissimo…». La manutenzione ordinaria non poteva non passare attraverso il tiraggio delle viti, anzi delle “madreviti”, che se allentate andavano tirate in un giusto serraggio senza sforzarle. Importanti erano anche il controllo della tensione dei raggi, della catena e anche del regolatore del freno a tampone agente sulla ruota anteriore. Molta attenzione si doveva prestare all’ingrassaggio. Era infatti «necessario dare alle viti delle ruote e a tutti gli altri bracci del velocipede una leggera spalmatina con unto o meglio con buon olio d’oliva fino». Molto riguardo era rivolto anche alle gomme ancora di materiale naturale, il caucciù, quindi «è cosa notoria che il cauciù delle biciclette, con l’andar del tempo, per effetto dell’acqua e dell’aria, perde moltissima della sua elasticità e quindi facilmente si rompa… Orbene lavando i cauciù delle biciclette con una soluzione all’uno e mezzo per cento di acido fenico si ottiene il meraviglioso effetto».
3) equipaggiamento BICI
Tralasciando ancora una volta l’epoca delle michaudine, che non ha visto un grande sviluppo in Italia, andiamo a vedere qual era l’attrezzatura consigliata nel 1895, anno che si può considerare come data ufficiale della nascita del turismo in bici, grazie al viaggio organizzato nel mese di maggio dal Touring Club Ciclistico Italiano da Milano a Roma.
Per affrontare i viaggi era necessario dotarsi di tutto il necessario, tra cui una borsetta per «contenere la chiave inglese, il voltavite, la pompa, l’oliatore e quanto occorre per la riparazione dei cauciù dei penumatici. Nei lunghi viaggi si abbia cura di portare un bollone per la chiusura della catena nel caso di perdita, e alcune maglie di ricambio per prevenire la rottura. E utilissimo anche avere con sé il tendi-raggi, piccolo strumento il cui nome facilmente ne spiega l’uso». Sul manubrio si consigliava di applicare una sacca di forma rotonda come quella che i cavalieri applicano dietro la sella, contenete la copertura in tela cerata essenziale per il velocipedista.
Per i fanali, già negli Anni ’90 dell’800 si preferivano quelli a olio, almeno così propende Tristano Testa sul suo “Manuale del Velocipedista – Guida pratica!” del 1895. Il Grioni, nel suo manuale pratico del 1910, giudicava essenziale il fanale il quale non era da considerare un accessorio ma una componente fondamentale della bicicletta. Non aveva importanza quale fosse la fonte della luce, l’importante era che il fanale fosse sempre efficiente e pulito in modo da garantire il massimo della sua resa luminosa. Il fanale era uno strumento indispensabile anche per farsi luce nei momenti in cui, abbandonata la bicicletta, si doveva procedere a piedi così nacquero i fanali bi-uso. Il campanello era un altro accessorio irrinunciabile «ma il ciclista educato sa per pratica che è assai utile usarlo con ogni moderazione senza insistenze petulanti che non ottengono generalmente lo scopo cercato».
4) l’abbigliamento
L’abbigliamento dal 1817, anno d’invenzione della Draisina, subì delle mutazioni non meno importanti di quelle dei velocipedi. I primi consigli sull’abbigliamento dei ciclisti risalgono al 1869 e li dobbiamo a Paracelese Elie Desiré Bellencontre, ma anche qui tralasciamo il periodo ancestrale per portarci agli Anni ’80, nel periodo di massimo splendore del velocipede. Con il penny farthing, come lo chiamano gli inglesi, si ebbe un notevole cambiamento nell’abbigliamento. Infatti per azionare le ruote alte ma leggere non servivano più gli ingombranti stivali che limitavano troppo il movimento della caviglia, la calzatura doveva essere quindi leggera e flessibile. Così l’abbigliamento consigliato dal manuale “Il Velocipedista” nel 1891 era «una casacca corta e stretta al corpo in tela russa all’estate ed in panno bleau scuro nell’inverno; pantaloni corti da allacciarsi al ginocchio del colore e della qualità stessa della giacca; calze nere o grigie, scarpe basse, berretto di panno bleau scuro nell’inverno e di tela nell’estate». A quell’abbigliamento spesso veniva aggiunta una cintura sopra la giacca per mantenerla più aderente.
La qualità che accomunava tutte le descrizioni dell’abbigliamento era la sobrietà si dovevano infatti evitare «i costumi bizzarri e però ridicoli, i colori smaglianti o troppo appariscenti: il velocipedista serio, che sa apprezzare l’utilità ed il divertimento del ciclismo, si distinguerà lasciando tutta la ridicolezza delle mode a’ poveri di cervello», così si esprimeva il “Manuale del Velocipedista” nel 1895.
Solo negli Anni ’90 dell’Ottocento l’abbigliamento da turismo si differenziò da quello da gara. In effetti in quel decennio il velocipede, nella sua forma definitiva di bicicletta di sicurezza, divenne un mezzo per viaggi anche piuttosto lunghi mentre per le gare, che ancora si svolgevano quasi esclusivamente in pista, c’era necessità di disporre di una mise più pratica. Il modo di vestirsi risentiva moltissimo delle convenzioni sociali, per cui nei lunghi viaggi era indispensabile avere un adeguato ricambio e nel guardaroba non poteva mancare l’abito da indossare in città o nelle cene, così i capi di vestiario da usare per quelle occasioni venivano spediti, in adeguati bauli, per ferrovia da una tappa all’altra.
Agli inizi del Novecento l’approccio all’abbigliamento cambiò molto e, come scriveva il Grioni, l’abbigliamento serviva a «conservare al corpo, con la libertà dei movimenti, il calore necessario preservandolo da ogni brusco cambiamento di temperatura. Il vestito si adatta al corpo e non il corpo al vestito». Così il vestito divenne «soffice, comodo, in stoffa grigia di lana relativamente impermeabile per la compattezza del tessuto. Negli abiti da turismo la tela deve essere bandita: i viaggi non si fanno durante i grandi calori, o si fanno dove il clima è sempre temperato e talvolta fresco, in ispecie nelle ore del mattino le più propizie per chi viaggia in bicicletta».
L’abbigliamento intimo era trattato con molta attenzione come elemento dell’igiene personale «sulla pelle si portano ordinariamente delle camicie o maglie di lana o di cotone… Secondo alcuni igienisti queste non sono per nulla utili in quanto mantengono uno strato d’aria tra loro e la cute che si riscalda eccessivamente sotto l’azione muscolare… Sulla pelle si dovrebbero invece portare delle camiciole di filo di lino a maglia rovesciata foggiate a rete… Con esse la pelle perde quel pallore di cera prodotto dalle maglie di cotone o di lana, diffonde liberamente i prodotti della sua respirazione… Non subisce gli effetti dannosi di una evaporazione troppo rapida del sudore o di una troppo lunga permanenza dello stesso sulla pelle». La flanella era invece l’oggetto della discordia tra gli igienisti. Alcuni le assegnavano proprietà efficaci altri invece la vedevano come un elemento che creava dannosi raffreddamenti. Sempre secondo il Grioni, l’abbigliamento esterno ideale doveva essere una maglia di lana a collo alto, un panciotto ed una giacca della medesima stoffa «larghi quanto basta per lasciare ampia libertà dei movimenti. Le cinture sono inutili e sono dannose quando siano strette. Così pure sono da proscriversi le stoffe dure… Anche il loden di tipo comune, veramente ottimo per morbidezza e pieghevolezza, può essere scelto… La giacca ed il panciotto abbiano poi molte tasche, e tutte fermate con un bottone».
Per «gli arti inferiori, che costituiscono per il ciclista gli organi motori» sono consigliati «calzoni larghi, al ginocchio, ma non serrati da cinture o cinturini… Per l’estetica i calzoni devono essere serrati sotto il ginocchio: si provveda affinché lo siano in apparenza soltanto. Anche i calzoni non devono essere stretti in vita; potrà usarsi invece un paio di bretelle interamente elastiche». Il ciclista poteva essere soggetto ad arrossamenti delle parti dove più si verifica lo sfregamento, per cui non mancarono consigli per alleviarne le sofferenze. Ecco quindi comparire il decotto con foglie di noce da applicare sulla parte arrossata, sulla quale dovrà essere poi passata della polvere di riso finissima. Per le scarpe erano consigliate il tipo polacchino stringato mentre erano da rifuggire quelle troppo scollate perché sporcavano troppo il piede. «Il berretto deve essere leggiero, di forma piccola ed aderente alla testa», da scartare assolutamente il berretto tipo “bonnet chauffeur” con la visiera di cuoio. In caso di pioggia si poteva far ricorso alla mantellina gommata, che però aveva il difetto di rovinarsi lungo le linee di piegatura, perciò la mantellina di loden era quella più consigliabile e se proprio si voleva aumentarne l’impermeabilità era sufficiente applicarvi della lanolina sciolta nella benzina.
5) accessori e corredo
Se pensate che, una volta vestito, il ciclista saltasse in sella e partisse vuol dire che non ne conoscete le doti di prudenza e avvedutezza. Il ciclista turista infatti si muniva anche di un nécessaire che gli agevolasse il viaggio e integrasse le attrezzature per la manutenzione del velocipede. Innanzitutto gli oggetti per la pulizia personale: sapone, spazzolino da denti, spazzola o pettine, una forbice per la barba e i baffi; o quelli per affrontare le intemperie come la boule scalda-pancia. Poi si passava a quello che oggi definiamo equipaggiamento tecnologico, come un buon orologio, una bussola, un termometro, un barometro, un coltello da tasca, ma con punta smussata per non violare la legge, un paio di occhiali. Erano previste anche medicazioni con tutto il necessario riposto in una scatoletta o in «speciali buste di varie dimensioni. In piccole fiale si potrà avere dell’arnica, dell’ammoniaca (per le morsicature degli insetti) del percloruro di ferro, del laudano, una soluzione di acido borico ecc.».
Vi era però un oggetto che suscitava sempre molte discussioni: la pistola. Questione «tanto delicata quanto controversa», per dirla con il Grioni. Tutti i grandi globe-trotter dell’800 portavano con sé una pistola per ragioni di sicurezza personale, perché spesso si trovavano ad attraversare territori pericolosi. L’uso quotidiano dell’arma non era tanto diretto alla difesa personale rivolta contro i propri simili, quanto alla difesa contro i cani randagi che numerosi imperversavano nelle strade. Palliativi all’uso della pistola erano i petardi che però richiedevano una sosta per l’accensione della miccia con relativa esposizione al pericolo dell’aggressione. Anche la pistola cosiddetta “scacciacani” era ritenuta poco utile, soprattutto quando si era in presenza di animali di grossa taglia che non si impaurivano all’udire lo scoppio. Perciò il revolver era ritenuto il miglior mezzo di difesa. Così divenne necessario identificare quale fosse il miglior modello che rispondeva ai requisiti di efficacia, sicurezza e leggerezza. La vincitrice fu la Steyr calibro 6.35 con canna basculante ed eiettore automatico.
Le carte topografiche, poi, erano indispensabili per la pianificazione del viaggio, anche perché la rete stradale italiana era pessima in quanto la politica dei trasporti post-unitaria aveva puntato tutto sulla ferrovia, lasciando le strade extraurbane in stato di abbandono. Erano strette, in terra battuta, fangose d’inverno e polverose d’estate; ma soprattutto erano senza cartellonistica stradale. Le sole indicazioni che si potevano avere erano quelle orali carpite a qualche passante o abitante del luogo. Prima della fine del secolo sarà il TCCI a farsi carico di porre i primi cartelli stradali, facendolo in modo splendido sia dal punto di vista tecnico-organizzativo che promozionale. Infatti i cartelli erano in robusto metallo smaltato e ogni cartello aveva il proprio numero identificativo, che era registrato presso la sede centrale milanese del Club. I vari cantonieri tenevano registrati i numeri dei cartelli presenti nei loro tratti di affidamento, cosicché se il cartello veniva danneggiato era sufficiente telegrafare il numero identificativo al TCCI per la sostituzione. Il cartello veniva realizzato grazie all’intervento di “sponsor” pubblici e privati che si facevano carico dei costi di realizzazione e di installazione, con i nomi pubblicati inizialmente sulla rivista mensile del Club e poi, quando i cartelli divennero troppi, dando risonanza locale presso le varie delegazioni provinciali del TCCI.
Ma ritorniamo alle carte topografiche, che dovevano essere precise e chiare. Ideali erano perciò quelle dell’istituto geografico militare. Per la misurazione delle distanze venivano suggeriti vari sistemi, come il tecnologico “curvimetro”, uno strumento munito di una rotella collegata a ingranaggi che, passato sulla cartina in corrispondenza del percorso che si intendeva fare, misurava la lunghezza della strada in millimetri, da convertire poi in chilometri sulla base della scala topografica. Vi era però un sistema ancora più semplice e meno costoso: sovrapporre al percorso una cordicella che seguisse tutta la tortuosità della strada da percorrere. Misurata quindi la lunghezza, si faceva la conversione in base alla scala. Le cartine tuttavia non riportavano le pendenze e spesso poteva essere molto complicato verificare e calcolare le linee altimetriche.
Un aiuto molto importante venne dato ancora una volta dall’instancabile opera del Touring Club Ciclistico Italiano, che realizzò nel 1901 il primo annuario con informazioni pratiche per trovare nei vari comuni i Consoli del TCCI i meccanici e dove alloggiare e mangiare. Successivamente stamparono le cartine geografiche con i relativi profili altimetrici e infine, nel 1914, uscì la prima “Guida Rossa” che riguardava la Lombardia, il Piemonte e il Canton Ticino. Con essa si offriva un’informazione storico-culturale dei luoghi da visitare ma anche una serie di dati pratici come l’indicazione di alberghi, locande, trattorie, medici, meccanici e posti di polizia. La sua ridotta dimensione, la grande maneggevolezza e robustezza furono i principali pregi di questo irrinunciabile strumento dei turisti del ‘900, i quali però nel frattempo stavano ormai abbandonando la bicicletta per la più comoda motocicletta o addirittura per l’automobile, tanto che la denominazione del Touring perse la “C” che era sinonimo di bicicletta, divenendo semplicemente TCI.