Come abbiamo scritto qualche mese fa in un editoriale, «le storie della bici non finiscono mai».
Questo vale non solo per le vicende legate ai campioni, ai marchi, alle vittorie e alle sconfitte ma anche a tutte quelle situazioni in cui la bicicletta si è trovata a essere protagonista della società che ha attraversato, diventando strumento in grado d’interpretarne valori, paure, eccessi, desideri. È questo l’approccio che Pierluigi Farè, grande collezionista e titolare del museo Ciclocollection di Riva del Garda – visitabile su appuntamento – ha voluto dare alla sua raccolta, che non presenta solo modelli di biciclette di grandissimo pregio ma anche una lunga serie di memorabilia e manufatti che raccontano l’Italia passata attraverso la bici. Un approccio davvero molto particolare, che ci permetterà di affrontare diversi temi sulle nostre pagine, a partire da quello che vedete in questo servizio e che sembra avere molto poco a che fare con le biciclette. Ma non è così.
Per capire ciò di cui stiamo parlando serve fare un passo indietro. Siamo negli Anni ’30 del XX secolo e l’Europa è attraversata da grandi tensioni tra le varie potenze dello scacchiere. Anche se la guerra non è ancora iniziata, monta la preoccupazione tra la popolazione e tra i governi di un imminente confitto. L’età atomica non è ancora iniziata, ma già ormai da alcuni decenni la guerra si combatte non solo con le bombe ma anche con le armi chimiche, al punto da aver reso necessario, nel 1925, il Protocollo di Ginevra per vietarne l’uso. Naturalmente, un accordo tra nazioni non basta a far passare la paura, ed ecco quindi che – un po’ come nell’epoca della Guerra Fredda – privati, enti e aziende iniziano a pensare di dotarsi di bunker antiaerei e antigas, all’interno dei quali i rifugiati potessero essere mantenuti in salvo grazie a dei sistemi di filtraggio dell’aria.
VITA NEL BUNKER
Sistemi che prevedevano una soluzione non molto diversa – anche se in scala maggiore – rispetto a quella adottata per le maschere antigas dell’epoca, che “filtravano l’aria” attraverso carboni attivi o sali alcalini per contrastare gli effetti devastanti dei vapori dei gas a base di cloro e bromo. Erano sistemi di filtraggio in cui l’area veniva pompata in condotti di depurazione da un motore, generalmente elettrico. In caso, però, l’elettricità fosse venuta a mancare, nacquero dei sistemi di supporto a pedale. In Italia a occuparsene, tra gli Anni ’30 e gli Anni ’40, fu la Società Anonima Bergomi, che realizzò impianti di questo tipo – chiamati “Elettroventialtori a pedaliere” – a Roma, a Milano e in altre città d’Italia.
Gli elettroventilatorispesso non generavano elettricità ma azionavano direttamente la ventola per l’aria. A volte si trattava di installazioni singole, a volte di tandem, a volte di più postazioni tutte concorrenti allo stesso scopo per poter permettere agli inquilini del bunker di darsi il cambio. Il fine era sempre lo stesso: quello di mantenere in funzione l’impianto per depurare l’aria.
A oggi sono pochissimi gli esemplari esistenti e funzionanti di questi elettroventilatori a pedale, tra cui quello esposto al museo Ciclocollection, che ha richiesto a Pierluigi Farè ben due anni di faticoso restauro, eseguito raccogliendo informazioni grazie all’archivio storico di Lorenzo Grassi, di cui potete facilmente trovare traccia sul web.
Il sistema a pedali giaceva abbandonato in una zona industriale, in parte esposto alle intemperie, per cui il recupero non è stato facile. Tuttavia, oggi, grazie al lavoro di Pierluigi è tornato perfettamente funzionante, e resta una testimonianza chiara – ma drammatica – del clima che si viveva in Italia in quegli anni, in cui pedalare a volte poteva letteralmente salvare la vita.
Sito: www.ciclocollection.it FB: ciclocollection