«Tutte le mattine alle nove e mezzo o alle dieci, e la sera dopo le quattro, la pista del nostro Veloce Club si popolava come per incanto.
Da ogni viale, da tutte le strade, scaturivano in macchina, a piedi, in carrozza, a cavallo, giovani, vecchi signore e signorine, che pareva si fossero date convegno nel vasto locale per vedere da vicino il celebre corridore e salutarlo amichevolmente». Così Firenze viveva sul finire della primavera del 1894 la presenza di Arthur Augustus Zimmerman, laureatosi primo campione del mondo di ciclismo l’anno precedente a Chicago. Zimmerman fu forse il primo sportivo di fama mondiale che creò un personaggio da far invidia alle attuali figure dello star system globale.
NASCITA TRAVAGLIATA
Quanti tentativi, quante riunioni, quanta strada si era dovuta fare per arrivare a quel primo Campionato del Mondo per velocipedi di Chicago del 1893. L’Italia aveva sempre dimostrato uno spiccato sentimento internazionale auspicando la formazione di un organismo ciclistico sovranazionale che diventasse fautore di campionati a livello mondiale. Così quella sera del 18 maggio 1890, al banchetto offerto dal Veloce Club di Torino all’Hotel Feder, in chiusura delle gare internazionali tenutesi al Velodromo Umberto I, l’Avv. Gustavo Brignone, segretario dell’U.V.I., aveva ufficializzato il suo pensiero: «Internazionalista io sono in molte cose […] ma se, una ve n’ha che sia per sé essenzialmente internazionale […] questa è lo sport, che ha comune colla scienza e spiccatissimo il carattere dell’universalità. […] lo sport non conosce frontiere […] e necessariamente ed insensibilmente vanno formandosi pei singoli suoi rami codici internazionali. […] poiché in ogni paese oramai le Società ciclistiche sono legate in unioni nazionali, è egli impossibile che si formi un’Unione Universale?».
Brignone tracciava anche succintamente i compiti dell’auspicata federazione: «Uno statuto di pochi articoli che stabilisca il campionato della Federazione, un regolamento uniforme di corse, alcune norme circa i diritti e gli obblighi reciproci, sarebbero il tema, il compito di questa prima riunione destinata a gettar le basi della Federazione». L’elemento di maggior ostacolo per l’istituzione di un organismo internazionale era il diverso atteggiamento che avevano i vari paesi nei confronti dello sport professionistico.
Per i paesi anglosassoni il vero sport era solo quello praticato senza fine di lucro e senza trarre alcuna utilità diretta e pecuniaria dall’attività agonistica. Era lo scontro tra la visione romantica dello sport e quella, più estrema e concreta, che guardava al risultato come fine ultimo. Ma, a ben vedere, era anche uno scontro “sociale” tra le classi abbienti, che intendevano lo sport come mero svago e occasione di sfide tra gentiluomini, spesso vivacizzate da fortissime scommesse, e le classi più povere che vedevano nello sport una forma di riscatto economico e sociale. Questa discussione era già in atto in Inghilterra sin dagli Anni ’70 del XIX secolo, quando in ambito calcistico e soprattutto nella FA Cup, la coppa per club, si discuteva se fosse lecito pagare i giocatori. Nel Regno Unito questo atteggiamento “romantico” si spinse, come vedremo, a livelli davvero estremi e assurdi.
Fu proprio la questione dilettanti-professionisti a convincere la Deutsche Radfahrer Bund a convocare un incontro tra i rappresentanti delle varie unioni ciclistiche nazionali, per il giorno 17 maggio 1891 a Colonia, ma avendo raccolto l’adesione solo di Italia, Belgio e Paesi Bassi il tentativo abortì. L’anno seguente ci provò l’Union Velocipedique Suisse ma a Berna arrivarono solo Italia e Belgio. Furono invece gli inglesi i promotori che ebbero successo e che giunsero alla costituzione dell’International Cyclist Association (I.C.A.) negli incontri avvenuti il 23 e 24 novembre 1892 nella sede della National Cyclist’s Union. Presidente fu nominato l’olandese Henric Netscher e segretario Henry Sturmey.
I firmatari della costituzione furono: Ligue Velocipedique Belge (Belgio), League of American Wheelmen (USA), Canadien Wheelmen Association (Canada), Dansk Bicycle Club (Danimarca), Deutsche Radfahrer Bund (Germania), National Cyclist’s Union (Inghilterra), Union Velocipedique de France (Francia), Algemeine Nederlandsche Wielrijders Bund (Olanda). L’Italia, aderente all’iniziativa sin dalla prima ora, fu esclusa per una serie di disguidi dettati dal troppo entusiasmo.
La visione romantica britannica dello sport ebbe il sopravvento anche nell’I.C.A., per cui i Campionati del Mondo per velocipedi, che si correvano esclusivamente in pista, vennero riservati ai soli corridori dilettanti. Solo dal 1895 si correrà il primo Campionato del Mondo professionisti. L’I.C.A. fu obbligata a questa scelta dall’interesse dimostrato dal pubblico e dalla stampa per le gare dei professionisti, in particolare quelle di un tour organizzato da un gruppo di corridori professionisti inglesi, e per il Grand Prix de la Ville de Paris, nato proprio nel 1894 e riservato ai professionisti.
Il primo Campionato
La scelta della nazione sede del primo campionato mondiale cadde sugli Stati Uniti come riconoscimento verso il paese che in quel tempo aveva espresso il corridore più forte di sempre: Arthur Augustus Zimmerman. Va ricordato che proprio nel 1892 Zimmerman aveva fatto una stagione di gare i cui risultati avevano impressionato anche i non appassionati di ciclismo, correndo anche nel campionato inglese. Nel 1892, per incoraggiare Zimmy – così era soprannominato – a partecipare alle gare, si scatenò in Inghilterra una vera e propria corsa per organizzare competizioni su pista arricchendole di premi in natura importantissimi, essendo vietati i premio in denaro. Arthur Augustus Zimmerman ne fece man bassa. Nell’inventario dei premi caricati sulla nave al momento del suo ritorno a casa c’erano diverse biciclette, una pariglia di cavalli, due carrozze, una mezza dozzina di pianoforti, sei orologi di grande pregio, un cofanetto pieno di oro e pietre preziose, mobili e piatti d’argento. Nel bottino complessivo dei premi di quell’anno le biciclette furono 29, le medaglie e i gioielli potevano “rifornire una gioielleria” ma vi erano anche una casa e un terreno. Restava però ancora da chiedersi se questo poteva ancora essere considerato sport dilettantistico.
La scelta della città di Chicago come sede del primo Campionato del Mondo era dovuta al fatto di essere sede dell’EXPO universale. Gli americani fecero le cose in grande. Grazie alla notevole disponibilità finanziaria, il Veloce Club dell’Illinois prese addirittura in affitto il campo di baseball del Chicago Baseball Club, sito tra la 35a strada e Wintworth Avenue, e vi costruì la più avveniristica pista che fosse mai stata realizzata, erigendo una struttura portante in legno, con curve inclinate e un fondo antiscivolo in cemento che permetteva di attenuare al massimo l’attrito garantendo velocità spettacolari. Si tenga presente che all’epoca erano considerate “vere” gare ciclistiche solo quelle su pista, dove si celebrava uno dei miti dell’epoca: la velocità. Le gare su strada erano lunghe ed estenuanti, infatti venivano chiamate gare di resistenza, ma non suscitavano lo stesso interesse di quelle su pista.
Le gare del primo Campionato Mondiale di velocità in pista si tennero dal 7 al 12 ottobre 1893 e furono precedute e seguite da grandissimi festeggiamenti. I titoli da assegnare erano Velocità, Mezzofondo di 10 km, Resistenza con allenatori umani sulla distanza di 100 km. I corridori partecipanti provenivano essenzialmente dagli States e dal Canada. Ci fu solo un corridore non continentale, il sudafricano Laurents Maintjes. Il campionato di Velocità e di Mezzofondo se li aggiudicò, ovviamente, l’americano volante Zimmerman; secondi e terzi della velocità arrivarono Johnson e Bliss che, in ordine invertito, salirono sul podio anche nella gara di mezzofondo.
Zimmerman aveva una corporatura possente e praticava allenamenti metodici e “scientifici”, per cui le vittorie gli risultavano piuttosto agevoli. Però era una persona molto intelligente e sapeva calibrare la vittoria senza mai strafare, consapevole del fatto che il pubblico si entusiasmava non tanto per le prestazioni assolute quanto per le sfide. Zimmy era un maestro nel gestire l’incertezza del risultato e la suspense della vittoria. La gara di Resistenza vide il travolgente successo del sudafricano Maintjes, che entusiasmò il pubblico per l’abilità dei suoi allenatori dando diversi giri di distacco al secondo classificato.
Chi era il primo campione
Arthur Augustus Zimmerman nacque a Camden nel New Jersey l’11 giugno 1869. Fin da ragazzo si dedicò allo sport, in particolare alle specialità del salto, aiutato dalla sua statura che superava di poco il metro e novanta. Nel 1886, a soli 17 anni, iniziò la sua attività ciclistica con i bicicli utilizzando la Star a leve, per passare nel 1891 alle safety frame. Negli anni 1890, 91 e 92 si aggiudicò i campionati nazionali statunitensi dilettanti. La sua figura fu una di quelle che fece più discutere sull’inopportunità di mantenere la rigida distinzione tra professionisti e dilettanti.
Zimmy, come erano soliti chiamarlo, era molto ricercato sulle piste per l’indubbia prestanza fisica e la velocità che imprimeva alle sue pedalate. Non potendo ricevere compensi in denaro si arricchì comunque con regalie al limite dell’assurdo. Nella gara del miglio di Springfield, per esempio, si aggiudicò una pariglia di cavalli con tutti i finimenti e un calesse del valore di circa 1.000 dollari, quando lo stipendio medio americano era di 500 dollari l’anno. Nel 1893 aveva partecipato al tour di gare in Inghilterra vincendole tutte. Il tentativo di ripetere l’impresa nel 1894, però, fallì a seguito della pubblicità della Raleigh, dove Zimmy compariva su una bicicletta. Presupponendo che egli fosse stato pagato, la National Ciclyst Union contestò all’I.C.A. la qualifica di dilettante ritenendolo di fatto un professionista e negandogli così la licenza per poter correre in Inghilterra tra i dilettanti. In seguito a questa decisione, divenne professionista a tutti gli effetti.
Era un corridore molto forte e la sua carriera ciclistica fu ricchissima di successi. Si contano infatti più di mille vittorie. Nel solo 1893 vinse 101 delle 110 gare disputate. Come abbiamo visto, il 1893 fu l’anno della consacrazione mondiale di Zimmy. Nel 1894 affrontò la stagione francese dove vinse il campionato sprint nazionale. Oltre che saper pedalare, era anche un abile gestore della sua immagine, sapendone sempre trarre il massimo profitto. Per la stagione francese si appoggiò infatti a un impresario teatrale per gestire le sue apparizioni e la sua immagine pubblica. Era il testimonial della Raleigh anche in Francia, dove vinse il campionato nazionale che prevedeva ben 25 gare. Il successo di pubblico fu enorme proprio grazie al fatto che tutti accorrevano in pista per vedere l’americano campione del mondo.
Tra le “prove spettacolo” che vennero disputate in Francia vi fu quella dei 100 metri lanciati. Si trattava di verificare la velocità raggiunta nei 100 metri dopo che il corridore aveva percorso alcuni giri di lancio. Venne calcolato che la velocità raggiunta da Zimmy nei 100 metri superasse i 66 all’ora, un vero record. Zimmy venne in Italia nel giugno del 1894 grazie alla Raleigh e a uno dei rappresentanti italiani del marchio, Giuseppe Alberti, che per sberleffo i fiorentini avevano soprannominato Dott. Raleigh. Fece poi ritorno nel capoluogo toscano in ottobre, alla fine del suo tour europeo. A Firenze si tenne una serie di incontri pubblici per presentare il suo libro, “Points for cyclists with training”, dove parlava dello sport ciclistico e dell’allenamento per praticarlo. Gli eventi che tenne in pista al circuito del Veloce Club Firenze situato alle Cascine furono più delle dimostrazioni che delle vere e proprie gare.
Zimmy non era abituato all’eleganza europea e il pubblico interpretò il suo modo di vestire come quasi offensivo: «La maglia era color bigio sudicio, le scarpe color giallo sporco, i suoi pantaloni erano color liso. Faceva stridente contrasto con questa veste, che aveva forse vinto tutti i 108 primi premi del 1893, uno splendido brillante di seimila lire». La bicicletta Raleigh del campione destò molta curiosità, innanzitutto per le proporzioni, per la distanza tra pedali e manubrio e per le ridotte dimensioni di quest’ultimo, tant’è che molti emuli iniziarono a chiedere modifiche alle loro biciclette mentre Troy, l’allenatore di colore di Zimmerman, così si esprimeva: «Il segreto non è nella moltiplica, nel manubrio o nella sella. Zimmerman quando vince deve la sua vittoria a tre cose distinte alle quali tutti non sanno adattarsi. Un allenamento severo e completo senza oasi di piacere, senza aberrazioni di sensualità. Una volontà ferrea e un cervello ben conformato. Le gambe, il cuore e i polmoni che rispondono sempre alle esigenze del padrone e ai comandi del suo sistema nervoso».
Il 20 giugno, all’esordio delle gare sulla pista di cemento delle Cascine, fu disputata la Corsa Firenze Internazionale, ma Zimmy non era in forma e nelle due batterie che corse arrivò ultimo e terzo, una delusione per il folto pubblico. Il giorno successivo si riscattò e dopo una gara molto combattuta arrivò primo davanti a Pontecchi e Ferrario. Alla fine della giornata si corse il Match Italo-Americano sulla distanza del miglio inglese. La gara fu tutta appannaggio degli statunitensi con questo ordine di arrivo: Zimmerman, Karry Wheeler, Amedeo Alaimo e Giuseppe Nuvolari. L’ultimo giorno di gara, domenica 24 giugno, il circuito traboccava di spettatori. Nella prima batteria Zimmerman, sebbene primo, rallentò sino a che lo superarono Airaldi e Olligs, poi amministrò la terza posizione che gli permetteva comunque di entrare in finale. L’impressione che ebbero tutti fu che egli non avesse voluto vincere per non strafare. E infatti nella finale Zimmy scattò in volata e non ce ne fu più per nessuno: arrivò primo seguito da Pontecchi e Alaimo.
Nel soggiorno fiorentino autunnale le gare si corsero dal 14 ottobre e Zimmerman giunse primo nella Gara Senior Internazionale, vincendo sia la batteria di qualifica sia la finale. Nella seconda giornata di gare, il 18 ottobre, si tenne la Corsa Roma Internazionale e anche qui il copione si ripetette con la vittoria di batteria e finale. La giornata prevedeva anche la particolare gara di Zimmy contro il tandem di Dani-Colombo. Sebbene Zimmerman accusasse forti dolori di stomaco, non accettò di rinviare la corsa: era troppo il pubblico presente per potersi permettere di deluderlo. La gara partì e Zimmy concluse secondo a pochi centimetri dal tandem. Il pubblico applaudì i vincitori Dani-Colombo, ma riservò un’ovazione al campione del mondo che corse anche se indisposto. Il 28 ottobre ultima giornata con la Gara America Internazionale. Il gentiluomo Zimmy si concedette il terzo posto nella batteria di qualifica ma stravinse nella finale.
Il 1895 fu l’anno del tour in Australia, dove ripetette le solite vittorie, ma fu l’ultima stagione all’altezza del campione. Dopo le gare di Victoria, Adelaide e Sidney, il peso dei viaggi e dello sforzo agonistico iniziò a farsi sentire. Aveva poco più di 26 anni e da dieci era in sella, aveva dato molto e molto aveva ricevuto ma ormai l’inevitabile declino gli era davanti. Fece una stagione 1896 con impegni più ridotti ma ancora vincente, poi negli anni successivi andò riducendo enormemente gli impegni agonistici sino a ritirarsi definitivamente nel 1905. Trascorse il resto della sua vita a Point Pleasant, nel New Jersey, nelle vicinanze del Asbury Park. Morì ad Atlanta per infarto il 22 ottobre 1936, all’età di 67 anni.
La figura di Arthur Zimmerman resta sicuramente la più importante nella storia del velocipedismo ottocentesco, non solo perché fu il primo campione del mondo ma anche perché fu un “campione globale” nel senso moderno del termine. In lui si “globalizzava” lo sport ciclistico, che in fondo esisteva solo da una ventina d’anni. Zimmerman seppe farsi conoscere e ammirare in tutte quelle parti del mondo in cui si praticava lo sport della bicicletta. Il suo successo non era dovuto solo alle sue prestazioni assolute ed esaltanti: molta ammirazione gli derivava dalla serietà e scientificità con cui affrontava la sua preparazione atletica, anche con grande attenzione e cura dell’alimentazione. E forse proprio in questo sta la vera grandezza di questo campione che possiamo definire moderno e attuale senza timore di smentite.