Tra le varie e curiose forme che hanno assunto i velocipedi nella loro evoluzione, è certamente il biciclo quello che ancora più si fa apprezzare per la sua linea inusuale, sproporzionata ed estrema. Cerchiamo prima di tutto di fare un poco di chiarezza sul nome. Se prima era la “michaudine” – altro termine improprio e relativamente recente, il cui vero nome era velocipède in Francia e boneshaker (letteralmente “scuoti-ossa”) in Inghilterra – con il termine “biciclo” si identifica quel velocipede con la ruota anteriore altissima e la posteriore piccola, con mera funzione di appoggio, che sarà anche identificato dai francesi col nome di “Grand Bi” e dagli inglesi con quello di “ordinary penny farthing” o anche più semplicemente “ordinary”.
DA PARIGI A COVENTRY
La metamorfosi avviene abbastanza velocemente ed è anche accelerata dalla nascita delle prime corse. Il telaio del boneshaker forgiato con ruote in legno, che arriva a pesare anche 35 Kg. perderà progressivamente peso sino a portarsi poco oltre i 10 kg. Però nella ricerca della leggerezza sarà la ruota la prima a beneficiarne grazie all’invenzione dei raggi di Louis Gonel. La prima gara in linea del mondo, la Paris – Rouen del 7 novembre 1869, vede la vittoria di James Moore (l’inglese di Parigi) su biciclo Suriray con una ruota anteriore di circa un metro e ruote con raggi in ferro tipo Gonel. L’altezza della ruota sarà determinante per la vittoria. L’uso delle ruote alte trova la sua giustificazione proprio nella fisica. Infatti è noto che maggior è il diametro della ruota, maggiore è la sua circonferenza e maggiore sarà la strada percorsa a ogni giro delle pedivelle.
Il più importante contributo alla leggerezza lo darà agli inizi del 1870 il costruttore parigino Eugene Mayer quando realizza, nella sua fabbrica di Parigi in Rue des Acacias, un biciclo il cui telaio non è più forgiato ma è costituito da un tubo, quindi cavo all’interno, preso a prestito dagli impianti per la distribuzione del gas illuminate della città, lo stesso impianto che riforniva i lampioni a gas che ogni sera erano accesi dai lampionai. Il telaio di Meyer prevede però ancora la forcella forgiata quindi piena e pesante.
L’industria inglese dei velocipedi alla fine degli Anni ’60 dell’800 è ancora praticamente inesistente. Il mondo industriale d’oltre Manica sta vivendo un periodo di crisi soprattutto per “l’industria degli aghi”, termine con cui si identificava l’industria meccanica dei telai tessili, delle macchine da cucire e degli aghi per il cucito. L’industria di costruzione dei boneshaker avrà inizio in Coventry nel 1869 con la CMC – Coventry Machinist Company – su interessamento di Rowley Turner, un inglese che viveva a Parigi, il quale proporrà alla Coventry Sewing Machine, industria di macchiane per cucire in crisi, di riconvertirsi nella produzione di parti di velocipede da esportare sul mercato francese, il quale non riusciva a soddisfare l’ingente richiesta di due ruote che si era creata soprattutto dopo l’Expo del 1867. La CMC sarà l’unica industria inglese di velocipedi prima del 1870 e sarà una vera e propria fucina di idee e di uomini. Per essa hanno lavorato William Hillman, James Starley e George Singer.
James Starley e William Hillman nel 1870 abbandoneranno la CMC per fondare la società Ariel per la produzione di bicicli. Nel 1874 Starley sarà il fautore del brevetto dei raggi tangenti. La guerra franco-prussiana del 1870, che si concluderà in modo disastroso per la Francia di Napoleone III, aprirà un periodo di notevole prosperità per l’industria britannica che approfitterà delle difficoltà economiche francesi dovute al trattato di pace imposto dalla Prussia il quale, tra le altre cose, inibisce anche la produzione dei velocipedi.
In una situazione di tal genere gli inglesi non si fanno molti scrupoli ad approfittare dell’utilizzo di brevetti francesi, come quello del telaio in tubo di Mayer, che sarà uno dei cavalli di battaglia dell’Ariel. Dal 1871 in avanti, in pratica, i bicicli non avranno più parti in legno.
ALLEGGERIMENTI E MIGLIORIE
Fino al 1874 circa la forcella anteriore sarà però ancora forgiata e ciò manterrà il biciclo a un peso di circa 20 kg. Sarà il francese Truffault a sostenere che la metà del ferro impiegato per i bicicli era inutile e si sarebbe potuto farne di più leggeri. Mentre si trovava a Blois, ebbe occasione di visitare un commerciante di ferraglie dove comperò a basso prezzo un lotto di foderi di sciabole di cavalleria destinate alla rottamazione che egli utilizzò per costruire quelle che lui definiva “le colonne della Grand Bi”, cioè i due steli della forcella anteriore. La sezione ovale, la cavità interna, la leggerezza, la forma rastremata verso il mozzo saranno le caratteristiche ideali per la realizzazione della forcella anteriore ottenendo così una riduzione di peso di circa quattro chili con una forcella cava ma particolarmente resistente.
La ruota anteriore sarà l’altro grande capolavoro d’arte meccanica che caratterizzerà il biciclo. Infatti se inizialmente la ruota era fatta da un cerchio di legno realizzato in varie sezioni ma comunque sempre pieno a cui veniva applicata una striscia di gomma di caucciù, piano piano si evolverà verso un cerchio fatto con un tubo che costituisce un’opera d’arte meccanica, presentandosi convesso all’interno della ruota e concavo al suo esterno per poter ospitare la gomma mantenuta in sede da un filo tenditore collaborante all’interno della gomma stessa per garantire la tenuta sul cerchio.
Le ruote anteriori prenderanno dimensioni sempre più esasperate, tant’è che ci si vedrà costretti a limitarne le dimensioni nei vari regolamenti delle gare, infatti il limite fisico della lunghezza del raggio della ruota è senza dubbio dato dalla lunghezza della gamba del ciclista tuttavia con l’utilizzo della catena e del pedale portato verso l’alto, si po’ facilmente superare tale limite.
Il più temerario di tutti nella costruzione di enormi ruote sarà il costruttore francese Victor Renard di Alfortville, alle porte di Parigi, che arriverà a costruire ruote di oltre 2,50 metri di diametro con una sviluppo di 7,8 metri di circonferenza e con oltre sei predellini applicati al telaio per poter raggiungere la sella. Alla Freres Renard va anche il record per la costruzione della ruota con il maggior numero di raggi, ben 304 dello spessore di un ago e tutti avvitati all’interno del mozzo, insomma un’opera d’arte meccanica e di pazienza.
Intanto sull’onda dei bicicli nascono quelle che saranno le principali manifatture inglesi quali Singer e Rudge ma anche americane come Rumbler o i marchi del Colonnello Pope quali la Columbia e la Cleveland. Daniel Rudge era un fabbro ferraio riparatore di calessi e carri di Wolverhampton il quale inizierà a costruire il penny farthing per proprio esclusivo uso copiando dall’Ariel nel 1870. Nel giro di pochi anni divenne uno dei brand di maggior fortuna e nel 1878 brevetta un mozzo regolabile con un sistema di coni e ghiere di notevole interesse che rende molto facile la registrazione del movimento della ruota sul proprio asse. Anche l’Italia è già presente nell’industria dei bicicli, infatti all’esposizione internazionale di Parigi del 1878 tra gli undici costruttori di bicicli presenti c’è anche l’Ing. Carrera di Torino.
Il biciclo con la grande ruota anteriore è essenzialmente un modello corsaiolo, per tutti gli Anni ’70 dell’800 si assiste però ancora alla presenza di velocipedi con ruote di uguali dimensioni e con l’anteriore più bassa rispetto a quella dei bicicli, questi modelli hanno essenzialmente il compito di ricercare maggiore sicurezza.
Poi, verso la fine di quegli Anni ’70, appena prima della applicazione della catena da parte di Lawson, dai bicicli prenderà origine l’idea di sicurezza con la costruzione di mezzi piccoli sui quali si può salire tenendo un piede a terra e si può stare in sella anche a biciclo fermo. Il primo a realizzare questo modello è il marsigliese Rousseau, il quale prolunga la forcella oltre il mozzo e vi monta una corona con catena e relativa demoltiplica. In Inghilterra la parte del leone con questo mini-biciclo sarà fatta dal Kangaroo creato nel 1884 da Hillman, Herbert, e Cooper: la sua ruota anteriore era di 36 pollici (91 cm) ma grazie alla demoltiplica l’efficacia era quella di una ruota da 60 pollici (150 cm) .
GARE E CAMPIONI
Dopo i primi tentativi – che proprio in questi anni stanno celebrando il loro 150° anniversario – le gare, con l’alleggerirsi del biciclo e l’aumento del diametro della ruota anteriore, divengono sempre più spettacolari e sempre più seguite sia in Italia sia all’estero. Con la nascita dei vari “Veloce Club” si intensificano le sfide e le gare prendono subito due fisionomie: le prove in linea – poche – e quelle in circuito, sicuramente le più seguite anche perché costituivano un evento mondano tipico di quel periodo, la bell’epoque, e della sua grande esaltazione del progresso, ben era rappresentata dal biciclo.
Milano s’intestò il titolo di patria delle competizioni l’8 gennaio 1871, con la corsa di velocità sui bastioni da Porta Venezia a Porta Tenaglia vinta da Federico Johnson, che percorse i tre chilometri in 9’ e 20”. Interessante è notare come negli anni dal 1884 al 1891 il campionato italiano professionisti su pista si correva con i bicicli mentre a partire dal 1892 le gare delle biciclette erano riservate ai dilettanti. Si tenga però presente che il confine tra dilettanti e professionisti non era così netto come oggi, basti guardare quanto vinse il dilettante Arthur Zinnermann negli USA per farsi un’idea. Ma questa è un’altra storia, su cui torneremo in futuro.
Federico Johnson, assieme a Romolo Buni e Geo Davidson, compone il terzetto di grandi protagonisti italiani di questa epoca poco conosciuta. Lasciamo parlare proprio Romolo Buni in un libretto commemorativo di Geo Davidson e avremo un’idea meravigliosa di quegli anni: «Dicono ch’egli (Geo Davidson – nda) abbia cominciato a quindici anni, nel 1880, a marinare le scuole per amore del suo lucido biciclo New Castle. E furono memorabili le performance da lui compiute: in una corsa Genova – Noli e ritorno, compì i 100 km in ore 4,57’; in una riunione su pista in Sempierdarena, nel 1885, raggiunse la velocità oraria di km 29,268, come asserisce il Bollettino dell’U.V.I.
Riandando i miei ricordi vedo Davidson per la prima volta a correre, quando io ancora non osava scendere in lizza coi forti, nel 1885, al Veloce Club di Milano in Via Vivaio, per il 2° Campionato Italiano. Il “Genovese” (così Geo era allora da tutti conosciuto) era in quel momento forse il più forte; e perciò la sua gara a Milano era attesa con ansia particolare. Ma sfortuna volle che in una caduta generale, a pochi metri dal traguardo, toccasse la peggio proprio a Davidson….
L’anno seguente, l’86, ebbi anch’io la fortuna di misurarmi con lui, proprio nella sua Genova, nella magnifica spianata dell’Acquasola per la corsa dei Campionati Italiani. La sorte non gli fu benigna, poiché Mazza di Voghera, dopo di una indimenticabile gara, tolse al “Genovese” la soddisfazione di vincere davanti al suo pubblico. Ma se grande fu il dolore, maggiore fu lo spirito col quale si presentò il giorno successivo nella Gara Internazionale, alla quale pure il neo campione era iscritto. Ma poco prima di allinearsi per la partenza, il Mazza, nel montare sul biciclo, si ferì leggermente, a sufficienza però per determinarlo a dichiarare forfait. Davidson, vedendosi sfuggire l’occasione di misurarsi col grande avversario, che il giorno prima aveva riportato su di lui la vittoria, e perdendo per un momento la sua bella calma abituale, si valse del blando regolamento di quei tempi, e rinunciò di partire. Tarlarini quel giorno riportò la vittoria: Loretz secondo e io terzo, davanti a Marley e Storero. Pochi giorni dopo, però, Davidson ebbe la soddisfazione di vincere il Campionato di resistenza svoltosi su strada; e fu quella una grande vittoria ottenuta sui migliori competitori».
Nella ricostruzione delle imprese di Davidson, Romolo Buni passa all’anno seguente e al palmares complessivo: «E siamo nel 1887, a Rimini, epoca dei bagni; una delle riunioni più simpatiche per ambiente, accoglienze e festeggiamenti calorosi. Davidson, tra l’entusiasta popolazione della cittadina Romagnola, godeva le generali simpatie, e fu dichiarato vincitore nella corsa più importante, davanti a Sarzano, che aveva tagliato il traguardo dead-head.
Ma rifacciamoci a elencare con ordine i suoi trionfi sportivi. Nell’Agosto del 1882, a Brescia per le feste ad Arnaldo da Brescia, Davidson arriva secondo dietro Tortarolo, e davanti a Laroque di Genova, su diciotto partenti, premiati da Zanardelli in persona. Nell’estate del 1883 a Busalla Davidson è primo. Nell’83 stesso, nelle corse indette a Genova all’Acquasola, a beneficio dei danneggiati dal terremoto di Casamicciola, nella prima gara giunge primo Davidson, e secondo De Benedetti. Nell’84 vince il Campionato dell’Italia Centrale e Meridionale. Il 2 d’Agosto a Sampierdarena vince il Campionato del Club Ligure: I° Davidson. 2° Storero, 3° Tortarolo. Nella corsa per Triciclisti: I° Davidson, 2° De Benedetti. Nell’85 vince la corsa Internazionale Duca di Genova. A Torino, il 29 novembre dell’anno stesso, nella corsa per Triciclisti abbiamo: I° Davidson. Nell’84 e ’85 è campione del Veloce Club di Torino. Negli anni 1884, ’85, ’86, ’87, ’88 è Campione della Liguria. Negli anni 1886 e ’87 è Campione Italiano di resistenza. Non è molto lungo il periodo di attività ciclistico-sportiva del nostro Geo, ma che impronta di forza e correttezza vi ha lasciata!
Gli aneddoti della sua vita ciclistica si raccontano a centinaia; A Pinerolo (nel 1884) indissero delle corse ciclistiche in Piazza d’Armi, d’inverno, dopo avere spazzata via alla meglio l’abbondante neve; e la corsa più interessante era naturalmente quella di 10 km. Partirono in quattro: Loretz, Strada, Mazza e Davidson. Dato il segnale, Davidson prese la testa, come di solito. Era già il primo, quando nella curva cadde, e spezzò una ruota del suo biciclo. Ma non abbandonò la gara, corse sotto il palco della giuria, si tolse con gesto iracondo il berretto e la giacca, inforcò un biciclo trovato lì per caso e riprese la corsa. Non potè più naturalmente raggiungere Mazza e Loretz, ma si classificò ancora terzo, e fu molto applaudito dal pubblico meravigliato di vedere un tale a correre senza giacca, con tutta quella neve che incorniciava la piazza».
La storia di Davidson, eroica e pionieristica, riflette quella di un’epoca in cui davvero gareggiare sui Grand Bi era qualcosa riservato solo ai più impavidi, considerato che questi mezzi in sostanza non avevano nemmeno i freni e portavano, spesso, a cadute rovinose da altezze notevoli. Con il tempo, le biciclette come le conosciamo oggi presero il sopravvento sui bicicli, regalandoci imprese di altro tipo più vicine al ciclismo di cui possiamo godere ancora oggi.